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#TaharBenJelloun: Le donne dell’Islam, in cerca di lbertà @TaobukFestival

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 23, 2015

Creatura di sabbia

Creatura di sabbia

In occasione dell’uscita del libro di Tahar Ben Jelloun E’ questo l’Islam che ci fa paura (Bompiani) il 25 settembre il Taobuk festival di Taormina premia lo scrittore franco -algerino. Qui una nostra intervista a Ben Jelloun che incontrammo per il quotidiano Il Giorno

L’INTERVISTA/ Tahar Ben Jelloun

di Simona Maggiorelli

Le trame dell’eros,  la ricerca del rapporto fra uomo e donna, in cui insieme agli abiti si abbandonano le gerarchie dei ruoli, delle identità sociali. Dopo romanzi e saggi di taglio  più strettamente sociale sul razzismo, sullo sradicamento, sulla lontananza, lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun  propone ora un doppio intrigante viaggio letterario alla scoperta del nostro universo meno razionale, più intimo e profondo. Bompiani ha  pubblicato il suo “Amori stregati” e Fabbri ha mandato in libreria , una sua riscrittura della “Bella addormentata” , per i più piccoli, in chiave da “Mille e una notte”.

Al fondo dei due diversi lavori un’interessante indagine sul  femminile, in un confronto  tra Oriente e Occidente giocato a livello di “imagerie”

Signor Ben Jelloun, il re del Marocco  Mohammed VI ha annunciato un nuovo codice di diritto matrimoniale.  Una possibilità di svolta che genera molte aspettative e speranze.
“E’ una riforma che deve ancora passare per il parlamento, con ogni probabilità troverà l’opposizione degli islamisti del PJD, il partito della giustizia e dello sviluppo. Ma anche dei  partiti tradizionalisti come l’ Istiqlal. Comunque resta importante che il re abbia avuto il coraggio di proporre un nuovo codice della famiglia, dopo averlo messo a punto con una commissione per ben due anni”.

Se passasse cosa potremmo aspettarci?
” Non possiamo sperare che le mentalità più oltranziste evolvano allo stesso ritmo. Ci saranno delle resistenze, ma il Marocco non sarà più fra i paesi Arabi ad avere il codice della famiglia più retrogrado. Si avvicinerà alla Tunisia, lasciandosi alle spalle l’Algeria”.

Tahar Ben Jelloun

Tahar Ben Jelloun

Cosa porterà per le donne sul piano giuridico e sociale?
” La liberazione delle donne non si decreta. Riguarda tutti i cittadini.
Ci vorrà una grossa campagna d’informazione  progressista, moderna. Tante donne lottano da tempo. Ora, l’aspetto giuridico sta dalla loro parte. Prima, non era così”.

Qual è stato il contribuito dei movimenti delle donne morocchine a questa svolta?
“In Marocco esistono numerose associazioni di donne, associazioni coraggiose, solide e determinate. La loro voce è stata ascoltata. Senza la loro presenza sul terreno, questa riforma avrebbe aspettato ancora diversi anni”.

E il Nobel per la pace a Shirin Ebadi inciderà?
“E’ un fantastico colpo da maestro. L’Accademia Nobel ha  dato un notevole aiuto alle donne musulmane che lottano per la propria libertà. Mi pare una scelta inaspettata e felicissima”.

Colpisce la recente notizia di due sorelle espulse dal liceo perché portavano il velo. Cosa sta accadendo fra le generazioni di giovani donne nate in Francia da famiglie arabe?
“Il velo è un simbolo politico ed ideologico. E’ un segno di appartenenza ad una comunità. Il problema sta nel fatto che siamo una società laica. La libertà degli individui è reale, ma lo è anche il dovere di rispettare la scuola pubblica. La separazione fra chiesa è stato sancita dalla legge francese fin dal 1905, è stata ottenuta dopo lunghe lotte. Bisogna rispettare questa vittoria. Le giovani donne in Francia hanno bisogno di sentirsi accettate, integrate. Indossano il velo perché sentono di essere rigettate; affermano così una loro identità. Si tratta, in ogni caso di una minoranza, anche se è molto rumorosa”.

Lei ha scritto due volumi, sul razzismo e sull’islam spiegato ai giovani. Cosa ha detto loro? Quali sono le vere radici del fondamentalismo?
“Il fondamentalismo ha una base comune: il fanatismo e l’ignoranza. Che sia islamico o cristiano, si tratta di un anacronismo pericoloso perché giustifica la guerra”.

Nel suo nuovo libro “Amori stregati”, lei ha scritto pagine bellissime sull’eros, sulla libertà interiore che le donne arabe hanno nel rapporto d’amore. E’ possibile che  nella cultura islamica alle donne venga riconosciuta sul piano della vita intima e sessuale più dignità e libertà di quanto non faccia l’Occidente?
“In “Amori stregati”, racconto delle finzioni; sono la testimonianza indiretta dell’immaginario delle donne la cui condizione giuridica è infelice. L’islam, come le altre due religioni monoteiste, diffida delle donne. Un versetto dice più o meno questo delle donne: “la loro capacità di furbizia è immensa !”. Furbizia è inteso qui nel senso negativo. Allora, le donne costruiscono la loro vita secondo la loro capacità di immaginare, di arrangiarsi, di scansare la legge. Strappano la loro libertà dalle mani dei loro dominatori. Hanno dei poteri insospettabili. E meno male. Ma è anche vero che”Amori stregati” rispecchia una realtà abbastanza presente nel Marocco di oggi: il ricorso alla magia e alla stregoneria è un modo per reagire contro una realtà opprimente. Anche gli uomini ci credono”.

Nell’Islam comunque non sembra esserci una condanna del femminile e del corpo come  storicamente è avvenuto in Occidente, con tanto di caccia alle streghe…
“Nel islam, le sessualità non è tabù. Insegnare l’educazione sessuale nelle scuole viene addirittura consigliato. Il profeta Muhammad è stato sposato nove volte. Amava le donne. La sua prima moglie fu la sua padrona, la donna per la quale lavorava; era più vecchia di lui e non indossava il velo. Sono gli islamici che hanno fatto di tutto per snaturare l’islam e per farne una religione oscura e fanatica”.

da Il Giorno / Il Resto del Carlino / La Nazione 17 ottobre 2003

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La primavera araba preconizzata dallo scrittore Lakhous

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 30, 2011

 In Italia è noto soprattutto per il best seller Scontro di civiltà  per un ascensore a piazza Vittorio,ma nel  romanzo di esordio di  Amara Lakhous, censurato in Algeria ( e che per un pelo non gli costò la vita), sono raccontate le radici della protesta mediorentale contro regimi corrotti e autoritari, che sarebbe sfociata nella rivolta di piazza Tahrir. Con il titolo Un pirata piccolo piccolo è ora pubblicato dalle Edizioni e/o. Sarà presentato il primo luglio al meeting antirazzista di Cecina organizzato dall’Arci e il 5 luglio al circolo Elsa Morante di Roma.

di Simona Maggiorelli

Amara Lakhous

La “visionaria” capacità dello scrittore algerino Amara Lakhous di anticipare gli eventi delle attuali rivolte arabe  appare davvero sorprendente leggendo Un pirata piccolo piccolo, il suo romanzo di esordio, che ora torna in libreria grazie alle Edizioni e/o. In questa “commedia nera” dai toni ironici e autoironici, un giovanissimo Lakhous offriva nel 1993 una lucida radiografia del malessere delle società mediorientali sotto regimi autoritari e corrotti. Scavando in profondità nell’insofferenza crescente che già si avvertiva ad Algeri dove giovani, intellettuali, lavoratori erano stati ricacciati ai margini della società ed erano oppressi da uno Stato di emergenza che fingeva di salvare la neonata democrazia.

«Gli ex combattenti della guerra di liberazione si erano impossessati della rivoluzione vinta contro la Francia colonialista. Avevano creato una casta di privilegiati e trasformato l’Algeria in un bottino di guerra», ricorda lo stesso Lakhous nella prefazione della nuova edizione del libro (che sarà presentato il 1 luglio al Meeting antirazzista di Cecina e il 5 luglio a Roma). Nel frattempo la violenza dell’integralismo religioso cominciava ad avvelenare ogni istanza di vero cambiamento: «fondamentalisti, autoinvestitisi di una missione salvifica tentavano di instaurare una teocrazia talebana sulle rive del Mediterraneo » annota lo scrittore noto in Italia soprattutto per il bestseller Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio.

All’epoca Amara Lakhous era uno studente che muoveva i primi passi come giornalista e scrittore. Nella cronaca come nell’arte avendo il coraggio di andare fino in fondo, senza infingimenti. «Forse ero un po’ folle, certamente spregiudicato, e non disposto a piegarmi alla censura e alla autocensura che mi veniva imposta» ci racconta Amara stesso per telefono. Fatto è, che quel suo rifiuto dei compromessi ci regala oggi un libro fortissimo e una speciale chiave di lettura di ciò che sta avvenendo in una vasta area mediorientale che va dall’ Egitto, alla Tunisia allo Yemen.

«Anche nell’1988, quando ero ancora al liceo – ricorda Lakhous – ci fu in Algeria una forte movimento giovanile; i ragazzi scesero per le strade e distrussero tutti i simboli del Partito unico. Ma la rivolta fu repressa nel sangue e i media internazionali lo scoprirono solo dopo molto tempo. Allora non c’era internet, né i social network…». Ma diversa oltreché la possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione forse era anche la mentalità e la cultura con cui si affrontava la rivolta. La scelta della non violenza, per quanto non sempre facile da attuare, sembra oggi prevalente nella protesta araba. «La non violenza è un dato nuovo, di grande importanza – commenta lo scrittore algerino -. Va di pari passo al rifiuto dell’integralismo religioso, delirante, malato che sul modello talebano vuole distruggere la cultura. Per anni – aggiunge Amara – in Algeria il fondamentalismo è stato usato come spauracchio da parte del governo. Meglio stare sotto una dittatura corrotta che almeno mi permette di leggere qualche libro e di andare al cinema, piuttosto che finire nel buio di uno stato teocratico pensavano molti miei concittadini». Avendo evidentemente perduto ogni fiducia nelle istituzioni e nella politica.

Amara Lakhous lo ha rappresentato in modo graffiante attraverso il personaggio protagonista di Un pirata piccolo piccolo, Hassinu, un quarantenne riottoso a farsi una famiglia come Dio comanda e che, raggiunta l’età in cui Maometto ebbe l’illuminazione profetica, ancora brancola nel buio, fra difficoltà economiche e acrobazie sentimentali che si ci fanno apparire in filigrana la devastante situazione di oppressione sociale delle donne algerine, costrette a sposarsi giovanissime. Usando la lingua sacra del Corano per parlare di tabù come il sesso e l’aborto, Amara Lakhous compiva così anche una sua “rivoluzione linguistica”, innestando sull’arabo dei testi sacri accenti berberi, più liberi e laici, imparati da piccolissimo come lingua materna. Quello che ne esce alla fine è davvero un piccolo miracolo letterario di franchezza e fantasia. Tanto schietto e diretto che nessuno in Algeria volle pubblicarlo. Tanto esplosivo, da fargli rischiare la vita quando nel 1995, infilato il manoscritto nello zaino, fuggì esule in Italia.

da left-avvenimenti

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Quando l’arte guardava a Oriente

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2006

di Simona Maggiorelli

Chini, Bangkok

Chini, Bangkok

Straordinari sguardi sull’Oriente, fra cronaca e fantasia. Visioni di paesaggi, strade e paesi lontani, dal Medioriente all’Asia, che hanno la freschezza di appunti e schizzi di viaggio. Ma anche la cura grafica di opere d’arte. Sono i tesori, in gran parte sconosciuti che Alida Moltedo Mapelli ha fatto riemergere dal corposo fondo di incisioni dell’Istituto nazionale della grafica e del disegno.
Opere di autori noti e meno noti che nelle sale a piano terra dell’Istituto di via della Stamperia a Roma ora formano il mosaico di una visione novecentesca dell’altro, fra eurocentrismo e desiderio di autentica scoperta.
Sono acqueforti, xilografie, opere a puntasecca riemerse durante il lavoro di riordino del fondo di incisioni di invenzione raccolto da Carlo Alberto Petrucci e dallo studio delle collezioni del Gabinetto delle stampe. Opere che, anche grazie al catalogo che accompagna la mostra Tra Oriente e Occidente (aperta fino a domenica), ora si offrono agli storici dell’arte e al pubblico, permettendo di colmare una lacuna negli studi delle stampe della prima metà del Novecento.
Col filo rosso di una ricerca precisa: la scoperta del lavoro di artisti viaggiatori, che in anni di grande trasformazione per l’Italia, come furono quelli della prima metà del secolo scorso, andarono in Oriente, per iniziativa personale o per lavoro, per insegnare in una scuola d’arte di Tokyo come Antonio Fontanesi, oppure alle dipendenze del ministero delle finanze, come l’incisore Edoardo Chiossone o ingaggiati da committenti stranieri, come il più famoso Galileo Chini che fu invitato a Bangkok, fra il 1911 e 1914 per decorare la sala del trono del re. Insieme a una nutrita schiera di altri artisti e incisori italiani che, invece, scelsero le rotte dell’Egitto, dell’Etiopia (con Mussolini) oppure il Marocco, la Tunisia, ma anche la vicina Sardegna (come l’italo tunisino Moses Levy) questi protagonisti di una branca dell’arte italiana, ingiustamente considerata minore, ci regalano la consapevolezza netta di un paese che andava cambiando, anche dal punto di vista culturale, mutando l’esotismo ottocentesco in uno sguardo limpido e moderno su paesi lontani.
E se questa piccola, preziosa, mostra è di quelle da non farsi sfuggire, anche per il lavoro scientifico che la sostiene, non meno sorprendente si rivela una visita al palazzo che la ospita, l’Istituto nazionale per la grafica, con il suo immenso fondo di disegni, di stampe, di fotografie, per arrivare poi alle mescolanze di generi e linguaggi delle avanguardie dei nostri giorni. Passando dalla tradizione tosco-emiliana del disegno per arrivare, con bel salto di genere e di contenuti, alle opere grafiche di Piranesi.
E poi, su su, fino alle stampe novecentesche e alle ultime creazioni di videoarte, di cui, per indicazione del ministero, l’Istituto della grafica e del disegno di Roma diventerà il primo deposito nazionale. Un ventaglio di ambiti diversi che, insieme con il corposo fondo antico, fanno dell’Istituto romano diretto da Serenita Papaldo, un luogo unico in Italia, tappa obbligata per tutti coloro che si occupino di studio del disegno e delle stampe antiche. «La nostra è la più grande raccolta di matrici esistente al mondo – racconta la stessa direttrice Papaldo –. Il Gabinetto nazionale della stampa, poi, dal 1800 a oggi si è andato espandendo con acquisti e donazioni»

da Europa, dicembre 2006

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Nacque in prigionia il genio di Burri

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 19, 2006

In mostra le opere che l’Italia provinciale denunciò all’Ufficio di igiene. Le famose tele di “sacchi” bucati e logorati erano i “materiali” dei campi di concentramento e insieme la trasfigurazione delle tragedie vissute in guerra. Solo l’arte poteva, se non sanare, almeno tentare di esprimere una protesta, che andasse al di là di un semplice grido di dolore

di Simona Maggiorelli

alberto-burriNel cortile di un campo per prigionieri di guerra, in una zona desertica del Texas, il medico Alberto Burri diventò artista.
Troppo angoscioso e atroce quello che gli era capitato di vedere sotto le bombe, nella distruzione di uomini e di cose che la guerra aveva prodotto. Lui, giovane ufficiale medico fatto prigioniero in Tunisia, si trovò, così, a provare ad elaborare quell’immenso dramma con quel che aveva sotto mano. Con pochissimo. Pezzi di corda, sacchi di juta, qualche resto di spazzatura.
Solo l’arte, in quella situazione poteva, se non sanare, almeno tentare di esprimere una protesta duratura, che andasse al di là di un semplice grido di dolore. Nacque così il primo Saccodi Burri, fatto di materie poverissime, tela logorata, bucata e consunta, muffe e materiali di rottamazione. Quel Sacco che esibendo una realtà lacera, ferita, ridotta a brandelli, fece scandalo alla sua prima apparizione nella Galleria di arte moderna di Roma, nel 1960 e alla Biennale di Venezia. Al punto da sollevare interpellanze parlamentari e, persino, denunce all’Ufficio di igiene. Quello che è certo e che l’arte italiana, che negli anni delle avanguardie storiche non aveva avuto un Picasso, ma solo qualche attardato futurista, si trovò davanti, per la prima volta, un modo di fare arte che non era più mimesi della realtà, ma composizioni astratte di buchi, strappi, improvvise bruciature che riuscivano a rappresentare il dramma di una generazione più di un qualunque ritratto. E con la sensazione che poi non si sarebbe più tornati indietro. Almeno non nel senso di ritornare a un figurativo rassicurante come lo intendeva l’ultimo Ottocento. La svolta di Burri e di alcuni altri artisti che, con mezzi diversi, stavano percorrendo le stesse strade (in primis Fontana, ma anche il francese Yves Klein e poi Beuys, Kounellis, Pistoletto e molti altri) apriva a un nuovo modo di concepire lo spazio, coinvolgendo direttamente lo spettatore, inviatandolo a diventare anche lui, con quadri specchianti e sculture da abitar la fondamentale triade artista, ambiente, spettatore. Di questo mutamento, che fu un terremoto per l’arte del dopoguerra, e che apriva alla sperimentazione di nuovi materiali (ferro, legno, catrame, feltro, vetro, ma anche vinavil, cellotex e molto altro) e, dal punto di vista dei contenuti apriva ai temi della pace, dell’ambiente, di un nuovo umanesimo, Alberto Burri fu protagonista schivo, ma assoluto.
La mostra che si apre il 17 novembre alle Scuderie del Quirinale a Roma lo racconta. Riscoprendo, a dieci anni dalla scomparsa dell’artista umbro, la centralità e dell’attualità di queste sue invenzioni creative, che poi sarebbero state riprese, sviluppate, trasformate e portate avanti da più di una generazione di artisti: dal gruppo dell’Arte povera in Italia, ma anche da artisti americani come Rauschenberg o Schnabel che, proprio grazie anche al rapporto diretto con Burri, riuscirono a sviluppare un proprio modo originale di fare arte, sfuggendo alla piattezza seriale della pop art, che negli anni Sessanta, Oltreoceano e non solo, era padrona assoluta della scena artistica. Maurizio Calvesi che è stato fin dagli anni Cinquanta uno dei primi studiosi dell’opera di Burri ma anche, appena qualche mese fa, artefice di una delle più complete retrospettive di Burri, nella sua terra di origine, Città di Castello, per questa nuova e importante esposizione romana, intitolata Burri, gli artisti e la materia 1945-2004, seleziona un nucleo forte di 21 opere, fra le più significative dell’opera di Burri, da Grande sacco e Rosso degli anni Cinquanta fino ai Cretti degli anni Settanta e all’ultimo Cretto nero e oro del 1994, costruendo a raggiera, tutt’intorno percorsi di assonanze e vicinanze con opere di artisti dell’Arte povera e della scena internazionale, coeva e successiva a Burri. Inedito il parallelo che Calvesi getta fra Burri e Klein, affiancando i sanguigni Rossi del maestro umbro, con i vibranti monocromi bluoltremare, con cui l’artista francese, scomparso a soli 34 anni, riusciva a cambiare, la qualità emotiva.
Celebre Immateriel in cui Klein utilizzava un procedimento simile di cartoni compressi e bruciati che poi andavano a formare, nel finito, aloni diafani e evanescenti, evocando l’idea di umani ridotti a flebili ombre. Più noto, invece, ma non meno affascinante da vedere finalmente dal vivo il confronto fra l’uso dei materiali poveri da parte di Burri e da parte dei cosiddetti artisti dell’arte povera: da Kounellis con opere fatte di acqua, fuoco e terra, da Zorio e Merz nei loro esperimenti con il neon e la luce, da Pistoletto che in questa mostra romana è rappresentato dalla sua opera simbolo, la Venere degli stracci del 1967. E ancora i primi cementarmati di Uncini e l’omaggio a Burri di Ceroli.
E poi guardando Oltralpe, gli assemblaggi dell’artista umbro in un confronto vivo con gli organismi di oggetti e le splendide composizioni di violini bianchi dell’appena scomparso Arman; i segreti richiami fra le terre scavate e scure di Burri e i marroni e gli arancio caldi dello spagnolo Tapies. E poi opere di Kiefer, Twombly, Canogar, Cesar, Millares, Nicholson, Beuys in una tentacolare diramarsi di proposte che scovano radici comuni fra le scoperte di Burri e quelle quelle di artisti, a volte, davvero a lui lontanissimi, non solo geograficamente. Trasformando, fino al 16 febbraio, le sale delle Scuderie del Quirinale in un percorso generosissimo di sorprese.

da Europa,  19 novembre 2006

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