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Fame di realtà

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2012

Il Manifesto del New Realism lanciato dal filosofo Maurizio Feraris sarà al centro di un convegno dal 26 al 28 marzo a Bonn. E l’addio al Postmoderno si fa sempre più internazionale

di Simona Maggiorelli

Maurizio Ferraris

Maurizio Ferraris

Annunciato sei mesi fa, scatenando da subito una appassionata discussione pubblica sui media (dai giornali alla radio, come raramente accade in Italia per questioni culturali), il Manifesto del nuovo realismo lanciato da Maurizio Ferraris diventa libro per Laterza e approda a una discussione internazionale. Dal 26 al 28 marzo a Bonn se ne discuterà in un convegno «a cui prenderanno parte filosofi analitici e continentali, di varie generazioni» anticipa a left il filosofo torinese. «Perché- spiega il professore – il ritorno del realismo non è una semplice questione accademica italiana, è un movimento filosofico ormai in corso da decenni. La filosofia e la vita, hanno fame di realtà, dopo decenni in cui si è ripetuto che non ci sono fatti, solo interpretazioni, che non c’è differenza tra realtà e finzione…».   Decenni durante i quali il postmodernismo è diventato egemonico  non solo nella cultura ma anche in certa parte della società e della politica. «Con i bei risultati che si sono visti – approfondisce Ferraris-, trionfi dei populismi mediatici, aumento delle diseguaglianze, e guerre scatenate sulla base di finte prove di armi di distruzione di massa».
E chi conosce un po’ il lavoro di Ferraris sa anche che per l’ex allievo di Derrida e oggi ordinario di filosofia teoretica all’Università di Torino non si tratta di una svolta improvvisa. «Per quello che mi riguarda la svolta risale a quasi vent’anni fa, quando ho visto che il postmoderno si stava trasformando in populismo mediatico», racconta. «In questo senso il mio Manifesto è anzitutto una ricapitolazione, il tentativo di argomentare, in modo piano, sperabilmente non dogmatico e non predicatorio, le ragioni del realismo». Con un metodo di pensiero affilato in tanti anni di critica e di decostruzione del logocentrismo su cui si basa la filosofia occidentale.

Proprio questo tema della messa in discussione della supremazia del Logos, come phonè, voce, anima (che porta con sé l’annullamento di ciò che è materia, corpo, “gramma”) è al centro del libro di Ferraris L’anima e l’iPad edito da Guanda. Un saggio di cui il filosofo è tornato a parlare il 9 marzo, al Teatro studio dell’Auditorium, nell’ambito della rassegna romana “Libri Come”. La cultura occidentale, nota  Maurizio Ferraris in questo libro, per secoli si è basata sulla contrapposizione fra anima, spirito “autentico” e lettera inerte, morta. «San Paolo diceva che lo spirito vivifica e la lettera uccide. In linea con Platone e la sua condanna della scrittura». Così religione cristiana e Logos greco, alla fine, sono andati “a braccetto” nella condanna di ciò che nell’essere umano è biologia, corpo, psiche e non anima astratta.
«Sta anche alla filosofia (oltre che alla vita) ricordare che le cose non stanno esattamente così», commenta Ferraris, «che senza la lettera non ci sarebbe lo spirito, senza la materia non c’è niente. Tanto che perfino le religioni universali, le religioni dello spirito, come l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, sono tali essenzialmente perché sono religioni del libro, cioè della lettera. Non dobbiamo dimenticarlo e credo che proprio in questo consista il nocciolo vitale di ciò che Jacques Derrida ha chiamato decostruzione».
Accanto  alla   decostruzione, il postmoderno, come è noto, “ha prodotto” il cosiddetto pensiero debole. Il filosofo Gianni Vattimo ne è stato il teorico. Nel suo nuovo libro Della Realtà, appena uscito per Garzanti, Vattimo, torna a dirsi «catto-comunista» e rilancia l’idea di una ermeneutica nihilista. Contro ogni «tentazione di realismo». Un nihilismo del pensiero, che secondo Vattimo, andrebbe assunto «come vocazione anche in senso religioso nella nostra epoca e come una specifica chance di emancipazione».
Professor Ferraris, ma da professioni di fede e dal rifiuto di leggere la realtà può davvero nascere un progetto emancipatorio?
Questa è la convinzione di Vattimo, rispettabile e radicata, ma anche un dogma che non vuole mettere in discussione. Il che è singolare per un teorico del dialogo e del confronto. Mi limito perciò a due osservazioni. Non credo che il realismo sia una “tentazione”: la realtà ci circonda e ci sollecita in ogni istante, ci chiama a prese di posizione, a responsabilità, a decisioni. Può essere molto dura e molto impegnativa, ma è il piano su cui ci giochiamo tutto, sotto il profilo teorico, politico e morale. Proprio per questo può sorgere, casomai, la tentazione non già del realismo, ma dell’irrealismo: l’oblio, lo stordimento, la favola e l’illusione. È un processo vecchio come il mondo. Di qui la mia seconda osservazione. Se si rifiuta la realtà diventa strutturalmente impossibile qualunque progetto emancipatorio, per il semplice motivo che diventa impossibile stabilire se ci stiamo emancipando (e se stiamo emancipando qualcuno, perché non siamo soli al mondo), o se, al contrario, stiamo raccontando una favola in cui si parla di emancipazione. L’emancipazione è una bella cosa, ma senza esami di coscienza e senza principio di realtà è una vuota parola.
Per Gianni Vattimo il discorso nazista di Heidegger sarebbe liberatorio. Lo ribadisce nel nuovo libro. Mentre la verità è violenza e la realtà è dominio. Un pensiero progressista e coerente può avere premesse così “ossimoriche”?
La sua è una domanda retorica. Certo che no. Bisognerà, in futuro, scrivere una storia culturale che renda conto della stranissima circostanza per cui pensatori radicalmente di destra come Nietzsche e Heidegger hanno potuto venire considerati come gli ispiratori di una politica di sinistra. È un meccanismo che fu analizzato da Lukács: gli intellettuali sentono l’ingiustizia sociale e avvertono la necessità di un cambiamento, ma al tempo stesso non se la sentono di fare nulla di concreto, né di mettere in gioco la loro condizione e i loro privilegi. Per cui riforme e rivoluzioni avvengono in un cielo mitico.
«Non penso che si possa fare buona filosofia ignorando la scienza del proprio tempo», lei ha ribadito in una recente conferenza all’Istituto svizzero di Roma. Ma Foucault sosteneva che i malati di mente sono solo vittime di uno stigma sociale. Mentre l’affondo heideggeriano contro la tecnica porta i suoi epigoni anche in Italia a diffidare anche dello sviluppo delle biotecnologie. Da dove nasce questo attacco alla scienza?
Secondo me è un discorso molto antico e autoctono, che risale alla critica della scienza da parte del neoidealismo italiano. Il filosofo si sente non solo un umanista (nel che ovviamente non c’è niente di male), ma intende il proprio umanismo come una militanza contro la scienza (il che è assurdo). Ed è significativo che sia solo un discorso di facciata. Non conosco un solo filosofo critico della scienza che quando sta male non cerchi di essere curato dal migliore specialista.

da left-avvenimenti

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L’essenziale di Caravaggio

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 16, 2010

Attraverso una selezione di venticinque capolavori, tutto il percorso del genio lombardo. In un’attesa mostra alle Scuderie del Quirinale che si apre il 20 febbraio

di Simona Maggiorelli

Caravaggio, Amor vicit omnia (1602)

Non è mai accaduto prima dell’Impressionismo che lo spettatore stabilisse un rapporto così personale con un artista come accade con Caravaggio. Un rapporto che tocca corde intime e profonde. «Nel tempo sembra che l’incontro con la pittura del Merisi – spiega lo storico dell’arte Claudio Strinati – abbia assunto una rilevanza non solo estetica ma anche psicologica per l’osservatore che mette a nudo la propria anima assecondando un implicito suggerimento del pittore».
E non è accaduto quasi per nessun altro artista moderno che la sua opera sia stata considerata così unanimemente un banco di prova per la sensibilità contemporanea. Per cui non ci si limita mai a un giudizio positivo o negativo su un dipinto ma si va molto oltre. «C’è chi ha eletto Michelangelo Merisi a proprio punto di riferimento – racconta Strinati, ideatore della mostra Caravaggio che si apre il 20 febbraio alle Scuderie del Quirinale, a Roma -,c’è chi ne scopre particolari sollecitazioni verso il proprio essere, chi si interroga sulla persona dell’artista al di là delle solite curiosità per la biografia di chi ha avuto fama e successo nella vita». Ma non solo. «Al giudizio sul Caravaggio si lega, per lo più, una particolare assunzione di responsabilità in ciò che si dice, quasi l’opera del maestro obbligasse l’osservatore a una serietà di esame insolita e necessaria». Al punto che aderire o meno al Caravaggio, suggerisce Strinati «non è solo una dimostrazione di gusto e competenza ma una presa di possesso di una dimensione della psiche che appartiene a ciascuno».

A creare una risonanza speciale in chi guarda è in primis il crudo e potente realismo di capolavori assoluti come La morte della Vergine (1604), che spazza via ogni aneddotica seicentesca da bambocciante quanto secoli di agiografia della pittura sacra. Caravaggio ha il coraggio di sfidare l’autorità, di uscire dai canoni imposti della tradizione e dall’iconografia ecclesiastica inventando immagini nuove (basta pensare alla sua Giuditta che taglia la testa a Oloferne, in precedenza sempre raffigurata post factum). Ma soprattutto con un originalissimo uso di luce e ombra sembra rappresentare un proprio vissuto interiore più che una profondità prospettica e una spazialità fisica. Con questi e pochi altri geniali elementi realizza un linguaggio pittorico che sa parlare non solo alla “testa” dello spettatore.

caravaggio, giudittadecapita oloferne, 1596

«La rivoluzione di Caravaggio – aggiunge Strinati – sta forse anche nel fatto che la sua vita e la sua opera sono strettamente e quasi necessariamente connesse. E il maestro parla di sé dall’inizio alla fine e interroga lo spettatore come mai prima aveva fatto».  Il riferimento qui non è al solito logoro cliché dell’artista maudit dalla vita segnata da genio e dissipazione, da rissosità e vicende violente. La letteratura critica del Novecento ha contribuito efficacemente a ricollocare vicende come l’uccisione di Ranuccio Tomassoni (che nel 1606 costrinse Caravaggio a fuggire da Roma) nella giusta luce di un Seicento politicamente e socialmente turbolento, segnato dallo strapotere della Chiesa e in cui fatti di sangue segnarono la vita di molti uomini dell’epoca.
Senza nulla togliere alla drammaticità di quel duello finito male, l’indicazione che veniva già da studiosi come i Wittkower è a leggere le numerose vicende giudiziarie del Caravaggio (e di cui restano molti documenti) anche nel contesto in cui accaddero.

Sgombrare il campo dalle deformazioni di stampo ottocentesco e romantico permette di fatto anche di riportare in primo piano, e nella sua giusta chiave, un tratto originalissimo della parabola caravaggesca: ovvero il fatto che Caravaggio è il primo artista moderno a fare della propria vicenda biografica una metafora universale. Sulla strada aperta da Leonardo con lo sfumato e negli scritti e, dice Strinati, di quello che Michelangelo ci ha detto di sé in poesia.
«Caravaggio pone l’accento sull’autobiografia come prima di lui aveva fatto compitamente solo Dante in letteratura – approfondisce Strinati – e come fece, in tutt’altro modo ma con altrettanta evidenza, Shakespeare, suo contemporaneo. E per restare in ambito letterario nostrano, Gian Battista Marino, poeta di grande spicco all’epoca in cui il  Michelangelo Merisi gli fece un ritratto, un’opera documentata ma sfortunatamente poi andata perduta».
Ma se nei barocchismi del poeta Marino, nelle sue costruzioni artefatte e sotto i suoi formalismi fatichiamo oggi a trovare i segni di un’ispirazione autentica, assai seducente suona invece il suggerimento di Strinati di una vicinanza ideale fra Shakespeare e Caravaggio.
A cominciare dal fatto che entrambi cambiarono radicalmente il modo di fare e percepire la propria disciplina artistica. La scrittura del grande Bardo, suggerisce Strinati nel volume Caravaggio edito da Skira, procede per «immagini, metafore, slanci impetuosi, visioni folgoranti, vere e proprie peregrinazioni nei recessi della mente». Altrettanto fa Caravaggio in pittura. Ed entrambi aprono a un’idea di arte come sguardo profondo sull’umano.

Incoronazione di spine, Caravaggio

Una suggestiva chiave di lettura che nutre e innerva fattivamente la scelta delle opere esposte in questa attesa mostra romana per i quattrocento anni dalla morte del pittore lombardo. Un’antologica (curata da Francesco Buranelli e Rossella Vodret su progetto di Strinati stesso) che trascurando tutte le opere di ancora incerta attribuzione punta su venticinque capolavori, dai giovanili Musici del 1594 all’Amorino dormiente del 1608, passando per opere magistrali come la Deposizione dei Musei vaticani, la Conversione di Saulo (che appartiene a una collezione privata) e la toccante Incoronazione di spine del Kunsthistorisches museum di Vienna.

«Le opere esposte non sono moltissime – mette le mani avanti Strinati – ma sono sufficienti per potersi creare un’idea precisa del Caravaggio. Il suo stile fu improntato in definitiva a una grande sobrietà fondata sulla scelta di pochi essenziali elementi. E la mostra – sottolinea lo studioso di Caravaggio- è stata modellata proprio su questo principio per quel che riguarda l’individuazione delle opere. Si è voluto far comprendere quell’idea dell’andare al sodo che fu tipica del Caravaggio nel concreto del suo operare, idea nella quale- conclude Strinati – si potrebbe intravedere il fondamento della sua immensa grandezza, per cui il maestro appare da un lato immediatamente comprensibile e coinvolgente affascinando chiunque sia disposto a vedere le sue opere senza alcuna mediazione di tipo critico o filologico ma parla con altrettanta forza e pregnanza ai sapienti che non cessano, con stupore e ammirazione, di cercare i più complessi e riposti significati nei suoi dipinti».


Il libro.
Caravaggio, una controstoria
A quattrocento anni dalla morte, il mito si è mangiato l’artista, la sua pittura – scrive Andrea Dusio in Caravaggio White album (Cooper) – aspetta ancora di essere riconsegnata a un nastro in bassa fedeltà che ne comprima e comprenda il contenuto di verità bruciante, lasciando fuori tutto il resto». Così, con piglio da romanziere ma assai documentato, Dusio si mette sulle strade di Michelangelo Merisi per ristabilire più di qualche importante verità storica, a cominciare dalla nascita (avvenuta a Milano e non a Caravaggio nel bergamasco) e dai primi anni della sua formazione, che non avvenne genericamente nell’area lombarda (come si è sempre detto) ma nel capoluogo. Con tutto quel che ne consegue dal punto di vista di frequentazioni artistiche meno provinciali. Ma va a merito dell’autore anche il fatto che quando non ha chiavi di lettura nuove da offrire al lettore (come ad esempio sulla morte di Caravaggio)
non esita a dichiararlo, limitandosi poi a una corretta e sempre utile collazione delle fonti storiche.                                   s.m.

La mostra alle scuderie del Quirinale

Dal 20 febbraio al 13 giugno, le Scuderie del Quirinale di Roma ospitano un’importante antologica dedicata a Caravaggio (1571-1610). Organizzato dall’azienda speciale Palaexpo e  Mondomostre, e accompagnato da un catalogo Skira, l’evento apre un anno ricco di appuntamenti con l’opera del Merisi. «Per il quarto centenario dalla morte del pittore – spiega Antonio Paolucci presentando la mostra di Roma – molti musei nel mondo reclamano un proprio evento, per questo il lavoro per ottenere i prestiti è stato lunghissimo e certosino. Alcune opere di Caravaggio provenienti da Firenze, poi, saranno oggetto di una mostra speciale agli Uffizi. Per questo Il sacrificio di Isacco, il Bacco e L’amorino dormiente dovranno lasciare le scuderie il 17 maggio, in anticipo rispetto alla chiusura della mostra romana»

da left-avvenimenti del 12 febbraio 2010

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