Articoli

Posts Tagged ‘Marx’

Io, Agnes Heller

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 28, 2013

Agnes Heller

Agnes Heller

Il valore di Marx e la fine del marxismo. L’intelligenza poetica di Shakespeare. Il rifiuto della violenza. E  del regime di Orban. A colloquio con la filosofa ungherese

di Simona Maggiorelli

Quando qualcuno le chiede se è marxista lei risponde con bella fierezza: «Io sono Agnes Heller, non posso che essere me stessa». Allieva di György Lukács e fra i massimi esponenti della Scuola di Budapest che “osò” criticare l’ortodossia comunista, la filosofa ungherese di origini ebraiche (classe 1929) da bambina è scampata all’orrore nazista e da giovane studiosa ha avuto il coraggio di schierarsi pubblicamente contro i carri armati sovietici che uccidevano la primavera di Praga. Con coerenza, nei suoi lavori filosofici come in quelli più schiettamente politici, si è sempre battuta per i diritti umani e per la giustizia sociale, rifiutando la violenza, anche quella proletaria «per la conquista del potere».

E se a lungo è stata un personaggio scomodo per i regimi dell’Est, oggi lo è altrettanto per il governo conservatore di Viktor Orban. «L’attuale governo ungherese ha limitato la libertà di stampa, ha eliminato pesi e contrappesi, ha varato una Costituzione infischiandosene dell’opposizione e l’ha modificata già quattro volte. Ed ha anche cambiato la legge elettorale. Questo è un regime bonapartista» dice Agnes Heller a left. E subito aggiunge: «L’unico rimedio possibile è la vittoria dell’opposizione democratica.

Shakespeare

Shakespeare

Ma la precondizione assolutamente necessaria è che tutti i partiti di opposizione uniscano le forze in vista delle elezioni che si terranno nella primavera del 2014. Questa è la nostra unica chance». Attesa a Torino dove il 29 settembre tiene una conferenza sul tema del valore della scelta, cogliamo l’occasione per riprendere con lei alcuni fili rossi che percorrono tutta la sua ricerca. A cominciare dall’importanza del rifiuto della violenza. «Oggi è diventato finalmente un pensiero largamente condiviso. Non solo la violenza fisica ma anche quella mentale è considerata inaccettabile – commenta -. In molti Paesi ci sono leggi che puniscono atti di violenza sia nella sfera pubblica che in quella privata. In tutte le nazioni democratiche ci sono leggi contro lo stupro in famiglia e contro la pedofilia. Certo, la questione della violenza psichica è più complessa per un giudice, perché invisibile e talora difficile da dimostrare. Ma va riconosciuto che grossi passi avanti sono stati fatti nella pubblica opinione, è cambiata la comprensione e il giudizio della gente. E questa acquisizione culturale mi fa pensare che lo sviluppo umano sia nella direzione di una sempre minore violenza. Con ciò non voglio dire che credo nella “pace eterna”. Ma per quanto riguarda, ad esempio, un fenomeno macroscopico di violenza come lo è la guerra, penso che in Europa non ce ne saranno in un futuro immediato. E che le guerre locali che, purtroppo, segnano oggi altre parti del mondo, non sfoceranno in nuove guerre mondiali».
Dopo tante battaglie contro il totalitarismo e riflessioni critiche sul capitalismo che offre una caricatura della libertà oggi che senso ha per per lei questa parola?
La libertà è il valore più ricercato. Nella storia però è stato interpretato in modi molto diversi. La libertà può essere intesa come libertà di scelta, come piena indipendenza, come inscindibile dal rispetto delle leggi e molto altro. La modernità è caratterizzata anche dal pensiero che “tutti gli uomini nascono liberi”. Ma il fondamentalismo religioso e le ideologie totalitarie attaccano questa acquisizione. Ciò significa che nelle democrazie moderne niente è “naturale” e dato una volta per tutte. Questo è il motivo per cui le libertà democratiche devono essere praticate, riaffermate ogni giorno, perché rischiamo di perderle con facilità.

Lei è una grande studiosa di Marx. E del Marx giovane in particolare. Anche quando la sinistra si concentrava solo sulla lettura più strutturalista del Capitale. Oggi cosa resta della sua lezione?

Karl Marx

Karl Marx

Karl Marx è stato il primo importante filosofo radicale del XIX secolo. A mio avviso non ha perso questo significato e può essere fonte di ispirazione. Ma le sue previsioni riguardo al collasso del capitalismo non si sono dimostrate valide. Di fatto ha sbagliato anche nel preconizzare la fine dello Stato come istituzione e nel preventivare un messianico avvento del comunismo come mondo dell’abbondanza. Nessuna filosofia può essere falsificata su un terreno empirico concreto. Dunque il marxismo non è più un’opzione teoretica credibile, come del resto non lo sono più molti altri “ismi”. Oggi chi si dice marxista magari non ha nemmeno letto i suoi lavori ma condivide l’agenda politica radicalmente semplificata di un gruppo o di un partito “anticapitalista” e “antiglobalizzazione”.
Negli ultimi anni lei è tornata alla sua passione giovanile, gli studi di estetica e ha dedicato più libri a Shakespeare. Riguardo a ciò che muove l’animo umano i poeti hanno da insegnarci molto più dei filosofi?
Shakespeare per me resta una delle più significative fonti di sapienza nonché di conoscenza di noi stessi e delle altre persone. Credo che non lo batta nessuno da questo punto di vista. Ma non penso che si possa stabilire una gerarchia fra poesia e filosofia. Sono due generi letterari diversi, per me ugualmente importanti.

dal settimanale left-avvenimenti

T

Pubblicità

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , | 1 Comment »

Mondolfo, Gramsci e la crisi della sinistra oggi

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2013

Luciano Canfora, Elisabetta Amalfitano, Simona  Maggiorelli. Ernesto Longobardi

Luciano Canfora, Elisabetta Amalfitano, Simona Maggiorelli. Ernesto Longobardi

di Simona Maggiorelli

Il libro della filosofa Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni) ha il merito di riproporci una figura di intellettuale piuttosto rara in Italia e ingiustamente trascurata dagli studi. Una figura di raffinato studioso della filosofia antica che nei suoi 99 anni di vita (Mondolfo era nato a Senigallia nel 1877 e morì nel 1976 a Buenos Aires) non separò mai studi accademici dall’impegno civile, portando avanti la propria ricerca come forma di resistenza antifascista perché tutta volta- basta vedere i suoi scritti sulla pedagogia – a risvegliare il senso critico, a dare strumenti di lettura della storia e del presente ai suoi studenti. Fra i quali a Torino forse ci fu anche Gramsci.

Un lavoro di insegnamento che Rodolfo Mondolfo svolse con grande coerenza, senza soluzione di continuità, prima nelle scuole superiori e poi all’Università di Torino, di Padova (1907) e di Bologna (1913-38), fin quando – dopo aver promosso e firmato il Manifesto degli intellettuali contro il fascismo – nel 1938 fu costretto dalle leggi razziali a cercare riparo a Buenos Aires.

Rodolfo Mondolfo intellettuale dal profilo non comune nel panorama italiano, dicevamo. Anche perché profondamente laico. Un aspetto indigesto all’establishment politico in Italia. Ancora oggi. Basta vedere il desolante mancato sostegno alla candidatura di Rodotà da parte del Pd  Alle giornate della Repubblica delle idee che, proprio qui a Bari, mentre parliano pretendono di mettere insieme scienza e fede.Oppure al neoconfessionalismo dei marxisti ratzingeriani, ovvero Pietro Barcellona e Mario Tronti, intellettuali organici del Pci e che oggi, dopo il crollo delle ideologie, sono diventati organici al Vaticano.

Luciano canfora, Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Luciano canfora, Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Rodolfo Mondolfo no. Da socialista e illuminista si oppose sempre a ogni forma di oscurantismo. Andando a spigolare validi anticorpi nel pensieri di filosofi come Giordano Bruno, Feuerbach, e Marx. Del quale – scrive Elisabetta Amalfitano- Mondolfo seppe dare una lettura originale, coniugandolo con Rousseau nel tentativo di superare la scissione cartesiana (fra corpo e mente, fra teoria e prassi). Il tentativo era quello di mettere al centro della propria riflession l’essere umano nella sua interezza, nella sua complessità di bisogni ed esigenze, che riguardano l’alimentazione, il lavoro, la salute, ma anche la formazione, la conoscenza, la qualità dei rapporti dei rapporti umani, la creatività. In questa chiave , ricostruisce Elisabetta , Mondolfo, lavorò all’ipotesi di una via riformista al socialismo, prendendo le distanze da ogni forma di materialismo metafisico e deterministico. E prendendo esplicitamente le distanze per esempio dalla proposta di Antonio Labriola: “Il suo materialismo dimentica che nella storia la realtà vera ed essenziale sono gli uomini”.

La libertà per Mondolfo era importante quanto l’uguaglianza e cercò per tutta la vita di elaborare una filosofia della prassi che riuscisse a coniugare questi elementi. Tacciato di moderatismo dai giovani Gramsci e Gobetti presi dal fuoco della rivoluzione bolscevica, il pensiero di Mondolfo apparve del tutto inattuale ai giovani del ’68 e ai fautori di una lettura strutturalista del marxismo quando, proprio nel ’68, pubblicò Umanesimo di Marx. Ma come ho avuto il piacere di dire anche in un’altra occasione a me pare che – superata quella fase storica – oggi il pensiero di Mondolfo offra invece molti spunti interessanti di riflessione a questa sinistra che ha urgente bisogno di ripensare e rilanciare la propria identità. Elisabetta Amalfitano, in questo suo appassionato libro, ne squaderna molti.

A cominciare dall’idea che la trasformazione sociale che per Mondolfo parte dalla trasformazione interiore degli individui. E dal rifiuto della violenza, in nome invece di una forza della praxis che significa anche resistenza, capacità di reagire, di proporre un pensiero. E ancora.

Lontanissimo dall’essere per la morte heideggeriano, Mondolfo – potremmo dire parafrasando quello che il professor Luciano Canfora ha scritto a proposito di di Arthur Rosenberg ne l’inquietante mestiere dello storico (Ll’uso politico dei paradigmi storici, Laterza) invita alla lotta, con i mezzi della ricerca storica e filologica, contro l’ideologia a base razzistica andata al potere nelle università tedesche nel 1933 e veleno che dilagava anche in Italia.

Luciano Canfora , Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli,

Luciano Canfora , Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli,

Per misurare tutta la distanza di Mondolfo dal pensiero conservatore basta leggere le pagine che Elisabetta dedica alla sua concezione delle masse che nel XXI secolo si sono affacciate da protagoniste sul palcoscenico della storia. Una concezione lontanissima da quella di Lombroso, ma anche da quella di Freud, che sulla scorta di Le Bon, in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921 libro molto amato da Mussolini) parlava delle masse come reviviscenza dell’orda primordiale e distruttiva, come lacrima di Batavia che basta che sia colpita in un punto perché finisca in mille schegge, una massa lavoratrice che secondo Freud ha sempre bisogno di un capo carismatico che le dia coesione. E di leggi che permettano la convivenza civile impedendo il fratricidio. Rodolfo Mondolfo, scrive Elisabetta Amalfitano, non aveva questa concezione pessimistica della massa. E per questo rifiutava anche l’idea della necessità di un partito novello principe che imponga dall’alto il cambiamento. Ma qui mi fermo, perché con noi c’è Il professor Luciano Canfora che molto di più può dirci sul rapporto fra Gramsci e Mondolfo.

Intervento introduttivo alla presentazione del libro di Elisabetta Amalfitano Dalla parte dell’essere umano, il socialismo di Rodolfo Mondolfo ( L’Asino d’oro edizioni), alla libreria Laterza di Bari, il 20 aprile 2013, con Luciano Canfora, Ernesto Longobardi, Maria Laterza e l’autrice

Posted in Libri, storia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Rivoluzionari e cosmopoliti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2011

Il Risorgimento non fu un fenomeno solo nostrano. Ma di respiro europeo. Con il libro  “Londra dei cospiratori” (Marco Tropea editore) lo studioso e giornalista Enrico Verdecchia ci porta nella città crocevia di culture di opposizione dove trovarono riparo Mazzini e Garibaldi, ma anche Bakunin, Engles e Marx

di Simona Maggiorelli

Londra 1864

Non solo lotta per l’indipendenza nazionale ma anche cosmopolitismo e apertura alle correnti più progressiste che animarono il primo Ottocento. Il pensiero dei giovani ribelli del Risorgimento acquisì un’apertura per le strade delle grandi capitali, a Parigi e a Londra. Oltremanica, in particolare, utopisti sansimoniani, socialisti della prima ora e fuoriusciti da Paesi europei e latinoamericani in rivolta trovarono riparo e modo di portare avanti le proprie battaglie, seppur in clandestinità. Di questa nascita per nulla asfittica, ma anzi di respiro “internazionale”, del nostro Risorgimento racconta il giornalista e scrittore Enrico Verdecchia nel libro Londra dei cospiratori (Marco Tropea editore). Un lavoro di oltre seicento pagine che gli ha richiesto più di due anni di ricerche storiografiche e che l’autor ha presentato all’Università di Firenze il 15 marzo, il 17 marzo alla Feltrinelli di Roma (con Corrado Ocone, Daniele Barzaghi e la sottoscritta) e il 18 marzo all’Istituto Mazziniano di Genova.

Enrico Verdecchia

«Il Risorgimento non è stato un fenomeno esclusivamente italiano ma parte di un fenomeno di scala europea – racconta Verdecchia a left -. L’ascesa della borghesia nella seconda metà del Settecento assunse forma eversiva nei confronti dell’Ancien régime, che concentrava il potere in mani aristocratiche. E dette vita alla rivoluzione atlantica, cominciata nelle colonie americane contro gli inglesi e passata in Europea con la Rivoluzione francese e il diffondersi del fenomeno del giacobinismo. A partire da allora, le rivoluzioni – come oggi sta avvenendo nel Vicino e nel Medio Oriente – avvennero per ondate in Europa ogni dieci, venti anni. Ma le conquiste napoleoniche – nota Verdecchia – determinarono tra le varie borghesie che avevano simpatizzato per la Rivoluzione, la reazione inversa: la riscoperta romantica delle tradizioni etniche e la nascita dei patriottismi nazionali contro il cosmopolitismo rivoluzionario».

E nella Londra che Ugo Foscolo chiamava «babilonissima Babilonia» cosa accadeva?

Anche in Inghilterra si sentivano i fermenti rivoluzionari che spiravano dal continente ma qui la borghesia più ricca aveva fatto un tacito accordo con l’aristocrazia. Quindi in un Paese in cui almeno una parte del potere legislativo (la Camera dei Comuni) era aperto al voto, i fermenti rivoluzionari assumevano la forma di un ampliamento del ristrettissimo suffragio a strati più ampi della popolazione. E poi non bisogna dimenticare che gli esuli del 1820-21 erano in buona parte nobili o al più alto-borghesi (si pensi al conte Porro, al conte Pecchio, al conte Santorre di Santarosa) e costituzionalisti. In Inghilterra trovavano una Costituzione che consideravano un modello e neanche loro simpatizzavano troppo per la sua estensione. Quando poi, con le rivoluzioni del 1830-31, il carattere del nuovo esulato assunse toni repubblicani, i fuoriusciti trovavano in Inghilterra un terreno del tutto ostico alle loro idee, salvo che presso alcuni circoli radicali e alcune frange cartiste inglesi, che avevano vita difficile anche nel proprio Paese.

Insomma Londra non era stata scossa dai moti del ’20-21?

Le rivoluzioni del ’20-21 non erano affatto eversive, agli occhi degli inglesi, o almeno del partito cosiddetto Whig (che raccoglieva la parte più illuminata dell’aristocrazia al potere), in quanto rivendicavano Costituzioni che gli inglesi non solo avevano ma tendevano a promuovere negli altri Paesi. Bentinck, ad esempio, lo aveva fatto in Sicilia durante l’occupazione inglese e a Genova dove era sbarcato nel corso delle guerre napoleoniche. In Inghilterra gli umori, se non erano mai favorevoli alle rivoluzioni, erano almeno contrari agli eccessi dei regimi assolutisti, come quelli di Ferdinando a Napoli che il liberale Gladstone denuncerà nel 1851. I successivi esuli repubblicani dovevano muoversi invece in un clima ostile. Se trovavano qualche rispondenza era non negli ambienti borghesi ma proletari: i Cartisti, ad esempio, e nelle loro frange repubblicane, isolate e represse.

Tuttavia lei scrive : «Giunto a Londra, Pippo l’uomo più ricercato dalle polizie d’Europa si sentiva finalmente libero». Quanto fu importante l’esperienza londinese per il trentaduenne Giuseppe Mazzini?

Mazzini aveva scelto di puntare sui giovani e di superare gli impacci delle strutture carbonare lanciando la Giovine Italia molto tempo prima di arrivare in Inghilterra nel 1837. Era avvenuto nei suoi primi anni d’esilio in Francia, a Marsiglia. Quando arrivò a Londra, tutta la sua opera era in sfacelo, la sua reputazione a pezzi per le ripetute sconfitte. Erano gli anni della «tempesta del dubbio» e dell’esaurimento nervoso. L’esperienza londinese semmai gli fu preziosa quando già aveva ripreso speranze e attività con la creazione della seconda Giovine Italia. Gli fece conoscere di prima mano le conseguenze sociali della rivoluzione industriale e le lotte operaie, tanto che la nuova strategia per la rivoluzione non faceva più affidamento sull’esulato borghese quanto sull’apporto del “popolo”, cioè in questo caso degli operai, degli artigiani, dei proletari per i quali proprio in quegli anni creò l’Unione operaia e la scuola gratuita a Londra. Mazzini, come gran parte degli esuli, faceva tesoro delle libertà che l’Inghilterra gli garantiva, prendeva ogni spunto possibile per far sapere agli inglesi della tristissima situazione italiana, raccoglieva soldi per finanziare le sue spedizioni o le armi per le sollevazioni in Italia, ma ricavava dal soggiorno inglese scarsi insegnamenti ideologici o politici.

Londra fu laboratorio politico e intellettuale anche per l’anarchico Bakunin, per Engels e per Marx. Come s’intrecciarono le loro vicende nelle nebbie della Londra vittoriana? E con quali riverberi?

Per Engels a per Marx l’insegnamento inglese fu più profondo che per Mazzini, nel senso che fu proprio in Inghilterra, dove Engels era arrivato a lavorare nell’azienda paterna a Manchester, che scoprì e trasmise a Marx quell’economia politica che aggiunse l’elemento propriamente “scientifico” al sistema dottrinale marxiano, che fino ad allora non era stato nell’altro che un’applicazione dell’hegelianesimo. Il rapporto personale tra Marx e Bakunin, al di là di qualche superficiale simpatia iniziale specie da parte del russo, fu puramente strumentale, cioè una collaborazione a scopo antimazziniano in Italia. Poi, con gli sviluppi in seno alla prima Internazionale, divenne una vera e propria guerra ideologica e politica. Con la conseguenza che in Italia, Bakunin si rivelò più presente di Marx nel movimento operaio nascente, e in Inghilterra Mazzini rimase, fino almeno alla fine del secolo, più influente di Marx sulla classe operaia britannica.

Con l’interesse per i moti risorgimentali si cominciò davvero a incrinare quell’idea dell’Italia, «paese di bigotti e di preti, di schiavi e rettili striscianti ai piedi degli oppressori» di cui scrivevano riviste inglesi? E oggi quella vecchia immagine del Paese torna a fare capolino?

Mi dispiace (anche perché la cosa pesa anche su di me personalmente) l’immagine dell’Italia, in Inghilterra, non è mai sostanzialmente cambiata. Nonostante le simpatie di alcuni strati della popolazione inglese per gli sviluppi del Risorgimento, nonostante l’ammirazione per le bellezze del Paese e per il suo patrimonio artistico e culturale, nonostante momenti di apprezzamento per alcuni aspetti dell’operosità italiana (specie la moda), l’Italia come Paese non ha mai goduto di molto apprezzamento e quindi da Londra non è mai provenuto nessun tentativo di incrinare l’immagine tradizionale. Né è mai venuto da altre parti d’Europa, a quanto ne so. Per cambiare l’immagine bisogna una volta tanto cambiare veramente l’Italia. Ho settant’anni e da quarant’anni vivo in Inghilterra, e non ho mai visto l’Italia cambiare sostanzialmente. E nei miei studi storici, ahimè, la ritrovo sostanzialmente tale e quale nei secoli passati. Che cosa vogliamo farci?

LETTURE FUORI DAL CORO

Per i 150 anni dell’Italia unita ecco alcuni titoli fuori dal coro. Come il primo volume della collana Antimoderati del Centro di documentazione di Pistoia Luciano Bianciardi di Giuseppe Muraca che ricostruisce il percorso dell’autore di Antistoria del Risorgimento. Ma ecco anche alcuni titoli “scientifici” che illuminano zone che ancora erano in ombra, come Figlie d’Italia (Carocci), in cui Maria Teresa Mori indaga la produzione letteraria di poetesse e patriote nel Risorgimento dal 1821 al 1861. In queste giornate di celebrazioni e di articolesse sui giornali è rimasta incomprensibilmente in ombra anche una figura di scrittore e letterato come Ippolito Nievo, autore di monumentali quanto ironiche e spassose Confessioni di un italiano ( Meridiano Mondadori). Alla breve e brillante vita dell’avvocato Nievo, ai suoi molti amori e alla sua avventura garibaldina è dedicata la biografia L’isola e il sogno di Paolo Ruffilli fresca di stampa per Fazi editore. Quanto alla riedizione di testi storici, Donzelli pubblica fra gli essenziali Il Risorgimento e l’Unità d’Italia di Gramsci. E Baldini Castoldi Dalai manda in libreria gli scritti di “padri” del Risorgimento da Cattaneo a Pisacane. Tutti a 3,90 euro.

da left-avvenimenti dell’11 -18 marzo 2011

I limiti dello Stato nazione

In un mondo in cui le distanze, anche quelle geografiche , sembrano essersi accorciate e – tanto più- pensando a un progetto di Europa unita non solo come mercato unico, che significato assume oggi accendere tutti i riflettori sui 150 anni dell’Unità d’Italia?

In tempi di conquistato cosmopolitismo, il tripudio di celebrazioni rischia di sembrare  un antimoderno inno alla patria e alla bandiera. Non la pensa così l’editore Carmine Donzelli che, ripubblicando ora I discorsi per Roma capitale di Camillo Benso di Cavour ( con la prefazione di Pietro Scoppola) sottolinea invece quanto sia importante oggi approfondire in modo non ideologico i nodi fondativi del processo di costituzione dello Stato italiano per affrontare le questioni rimaste ancora aperte. ” Oggi è troppo facile dare per ovvio e scontato un processo storico che si presentava agli occhi dei suoi protagonisti e testimoni diretti, come qualcosa di molto più complesso w aperto di quanto a noi oggi oggi non sembri”, chiosa Donzelli.

Ma soprattutto, annota l’editore romano ” il rapporto tra il nostro passato, per poter produrre conseguenze identitarie, democratiche e civili che auspichiamo, deve partire da una ricognizione scrupolosa e leale dei dati di realtà”.

E in questa chiave di approfondimento puntuale, ma con differente punto di vista, nasce il volume curato da Alberto Castelli per le edizioni E/0, L’Unità d’Italia, pro e contro il Risorgimento, con una serie di interventi storici di rango, a cominciare da quelli di Gobetti, Gramsci e Salvemini, per arrivare poi al dibattito sul Risorgimenro acceso dai protagonisti del movimento antifascista Giustizia e libertà, fondato nel ’29 da Carlo Rosselli e a cui – come ci ricorda Castelli-aderirono intellettuali raffinati come Andrea Caffi, Emilio Lussu, Franco Venturi, Francesco Nitti, ma anche Nicola Chiaromonte. E fu proprio in questo ambito di Giustizia e Libertà che si cominciò a pensare come ” un grave errore degli uomini del Risorgimento l’aver ritenuto possibile garantire libertà e giustizia nel quadro organizzativo dello Stato-nazione. “Gridando Italia, Italia, nell’impeto nazionale- scriveva Chiaromonte- si dimentica di abolire il latifondo, di occuparsi della questione sociale, di portare avanti ogni progresso civile.

Posted in storia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Giulio Giorello: non posso che dirmi ateo

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 21, 2010

Dal 16 settembre in libreria il nuovo libro dell’eminente filosofo della scienza, Senza Dio,

di Simona Maggiorelli

giulio giorello

Viaggiando nelle sei contee dell’Ulster, la cosiddetta Irlanda del Nord, per raccontare la guerra sulle pagine del Corriere della Sera, una volta mi ritrovai a dover chiedere ospitalità per la notte presso una famiglia di campagna», racconta Giulio Giorello. «Stavo già sistemando il bagaglio – prosegue il filosofo – ed ecco la domanda: “cattolico o protestante”? Preso alla sprovvista, mi venne spontaneo dire: “Sono ateo”.  Un attimo di silenzio perplesso e il mio interlocutore rilancia: “Sì, ma ateo protestante o ateo cattolico?”».
Un episodio di vita che il docente di Filosofia della scienza dell’università Statale di Milano ama ricordare parlando di inveterate abitudini a credere («per non fare la fatica di pensare»), di insopportabili sudditanze alla religione e di vecchi e nuovi roghi. Lo ha richiamato anche sabato scorso dal palco del festival Con-vivere di Carrara (dove left l’ha incontrato) per spiegare “il caso Irlanda”. E usa ancora questo aneddoto rivelatore, a mo’ di grimaldello narrativo, nel nuovo libro Senza Dio, del buon uso dell’ateismo (Longanesi) che il professore ha presentato il 19 settembre nell’ambito del festival Pordenonelegge.
E riavvolgendo il filo della propria biografia, ricorda Giorello nel  saggio fresco di stampa, già sui banchi di scuola cominciava a fare sue posizioni agnostiche: grazie a pensatori come Bertrand Russell e al suo Perché non sono cristiano  pubblicato in Italia da Longanesi nel 1959 e letto quasi di contrabbando perché «allora appariva come un testo tragressivo, peggio di Lolita di Nabokov».
Ma anche “grazie” a don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione, che Giorello aveva come  insegnante di religione al liceo Berchet di Milano. Nel frattempo assorbiva enzimi di ateismo studiando l’evoluzionismo di Darwin. Ma anche filosofi ed economisti come John Stuart Mill. E perfino pensatori eccentrici come il francese Pierre Bayle. Nel Seicento sosteneva che nel mondo cosiddetto civile non c’era ancora «una società di atei» solo perché gli atei erano perseguitati dai fanatici religiosi tanto da dover vivere mascherati.   «Anche per constatazioni del genere, dirmi agnostico non mi bastava più», chiosa oggi Giorello.
Professore, cinque anni fa per Raffaello Cortina ha scritto il pamphlet Di nessuna chiesa. Ora intitola Senza Dio il suo nuovo saggio. Non basta criticare l’istituzione, serve una critica del pensiero religioso?
Sì e nella situazione attuale preferisco dichiararmi francamente ateo. Purché ateismo non significhi passare la vita a cercare prove della non esistenza di Dio. In questo mi stacco da vari amici e colleghi come Christopher Hitchens (autore di Dio non è grande, Einaudi, 2007, ndr). Per me ateo è chi reclama per sé il diritto di vivere senza Dio o, se si preferisce, di vivere contro Dio, cioè contro uno dei tanti dèi che i fondamentalisti del libro sacro ci sbattono davanti come punto di riferimento pretendendo  di irreggimentare anche la nostra vita. Perciò mi sento vicino a Bayle quando, contro l’opinione diffusa al suo tempo, sosteneva che fosse possibile una società di atei. E che non ci fosse bisogno di alcuna religione come cemento sociale.
Anche «una religione della libertà» in senso crociano è dannosa?
A mio avviso, non solo non c’è bisogno di una religione civile, tradizionale o meno. (Come il materialismo dialettico nel comunismo sovietico. Che poi fu il peggior servizio reso a Marx). Ma rivendico anche di non aver bisogno di una religione della libertà; voglio la libertà di non avere religione. Sono assai poco crociano. Parlare di religione della libertà è un po’ come dire Popolo della libertà. Sono allocuzioni come circolo quadrato. Da quando in qua si deve ragionare secondo il detto vox popoli vox dei? Ciò non vuol dire che non abbia fiducia nel sistema di consultazione e di rappresentanza popolare. Abbiamo talmente fiducia che vorremmo anche migliorarlo. Del resto Manzoni diceva già che il detto vox popoli vox dei copre ogni forma di demagogia e di tirannide. Insomma non c’è un popolo delle libertà, non c’è un Dio che elargisce la libertà, ce la prendiamo da soli. Non è un dono dall’alto, non dobbiamo ringraziare il cielo ma neanche pensare che la libertà sia una malattia. Non dobbiamo essere vaccinati. Perciò in questo libro un po’ idiosincratico che left presenta scrivo che il mio ateismo è “metodologico”, libertario. è un esercizio della libera scelta. La filosofia non  impone niente .
Ma usa le armi della critica corrosiva e dello sberleffo? Come Giordano Bruno. Oppure come Camus, «l’ateo ribelle».
L’arma del sarcasmo è legittima, quella del fuoco no. Il Corano, la Bibbia, e perfino le encicliche non sono testi da bruciare; sono documenti da leggere. Ma senza servilismo. è faticoso pensare, è molto più facile affidarsi a un pastore. Ecco, questa cosa della “pastorizia” mi innervosisce. Come diceva Mill, gli uomini e le donne non sono pecore. Mutatis mutandis, nel mio saggio non do risposte. Vorrei che la risposta venisse con persone desiderose di sforzarsi per la verità. Che è una ricerca continua, non un possesso. Mi piacerebbe venisse da un dialogo. Sto con Spinoza quando diceva che le religioni stabilite sono sistemi di menzogna, un grande «asilo dell’ignoranza».
Quello spinoziano, lei nota, era però «uno strano ateismo».
Era ambiguo. Se Dio è uguale alla natura, allora teniamoci la natura, disse de Sade ragionando in termini spinoziani. Qualcosa di analogo lo troviamo in Leopardi, che qualcuno tenta di far passare per spirito religioso: disinvolti tentativi cattolici. Potrebbero far santo anche Oliver Cromwell. Questi sono capaci di tutto.
Tanto da tentare, complice certa politica di destra, di far fuori Darwin dai programmi scolastici e, Oltreoceano, di imporre il “Disegno intelligente”. Al creazionismo però risponde la scienza con chiarezza parlando di processi di autoorganizzazione della materia vivente. Un’idea che trova sostenitori in Hawking e in Prigogine. Prendere atto che noi non nasciamo dal nulla e che la biologia nasce da altra biologia è la base dell’ateismo?
Sì. Io non sono d’accordo con quei filosofi che hanno liquidato le posizioni di Stephen Hawking come scientiste. penso, invece, che ponga un problema importante. Lei ha detto bene, la nostra biologia viene da altra biologia, la nostra fisica da altra fisica. «Creazione senza creatore», per dirla con Telmo Pievani. In Senza Dio riprendo una domanda: dove posa il mondo? Una storiella indiana dice che si trova sulla testa di una tartaruga. E questa dove posa? Sulla testa di un’altra tartaruga. E così via. Possiamo prospettare una sequenza infinita. Ma perché non chiuderla subito lì? Se uno vuole ancora parlare di Dio non deve cercarlo fra le particelle elementari o nella nostra biologia come tenta di fare Ratzinger pretendendo che il volto di Dio sia nel Dna o come faceva Pio XII quando parlava del «dito di Dio nel Big bang». Parliamo di uomini di primo piano della Chiesa come Ratzinger. Ma anche di intellettuali apparentemente dissidenti come il teologo Vito Mancuso, che alla fine trova sempre il dito di Dio da qualche parte. E chi legge l’evoluzionismo attribuendogli una forma di finalismo che Darwin non avrebbe mai giustificato. Basta leggere gli scritti di Darwin per rendersi conto che questa lettura provvidenzialistica non gli passava per la mente. Una teologia coraggiosa non dovrebbe cercare queste forme di compromesso, semmai dovrebbe avere il coraggio di “cercare Dio” dentro se stessi, nel proprio cuore, nella propria morale, nella propria vita. Aveva ragione Bruno: è inutile che cerchiamo Dio nei cieli adesso che sappiamo che la fisica dei cieli è la stessa di questa nostra terra, ma ricordiamoci «che egli è dentro di noi, più dentro di noi di quanto siamo noi a noi stessi». Lo scrisse ne La cena delle ceneri. Peccato che poi un libro così profondo sia finito in cenere nel senso tecnico del termine.

dal settimanale  left-avvenimenti 17-23 settembre 2010

I

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Per una storia laica d’Italia

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 19, 2010

di Simona Maggiorelli

Gian Mario Cazzaniga

Gian Mario Cazzaniga

Professor  Cazzaniga, di recente  Huntington ha rinfocolato l’idea di uno scontro fra Oriente e Occidente. Da Annali 25 esoterismo Einaudi   emerge invece l’immagine di una comunicazione carsica con filoni culturali che, nei secoli, hanno attraversato Oriente e Occidente. In correnti esoteriche si trovano elementi di multiculturalismo?
Direi di più. Riscopriamo che la nostra storia europea ha radici nel Mediterraneo. Che non vuol dire semplicemente la Grecia, ma un’area più ampia che va dall’Egitto alla Persia. L’intreccio di cultura, religione, usanze dell’esoterismo ha origine nel mondo ellenistico ma la sua presenza sotterranea risorge in diversi periodi della storia europea. Insomma l’idea di una Grecia che nasce da se stessa, come per una sorta di miracolo  – tesi che permette di svalutare le sue origini orientali – non è fondata e oggi è largamente messa in discussione.
Il cristianesimo ha combattuto l’esoterismo. Fra i motivi di quella che lei chiama un’«incompatibilità totale» c’è l’idea cristiana di peccato originale?
Schematizzando, un nucleo duro dell’esoterismo consiste nell’idea di miglioramento di se stessi. Un processo di crescita interiore che spetta al singolo individuo. Una trasmissione di culture che vive di auto perfezionamento tende a mettere in discussione la presunta corruzione del genere umano derivante da un peccato originale e mette in crisi la funzione della Chiesa di trasmissione della verità rivelata.
E i cristiani risposero con violenza. Basta pensare a come i parabolani, nell’Alessandria d’Egitto del IV secolo, dilaniarono Ipazia, filosofa  neoplatonica.

La durezza delle confessioni cristiane è evidente fin dall’inizio. Va detto anche che i cristiani delle origini che interiorizzarono elementi e pratiche esoteriche non mostrarono maggiore tolleranza. Giacobiti e  nestoriani ebbero un atteggiamento più blando ma solo perché, non avendo potere politico, cercavano di essere tollerati. La Chiesa ortodossa, per quanto divisa al suo interno, ha espresso molte forme di intolleranza. Dunque una cosa è comprendere elementi di esoterismo, un’altra è essere tolleranti. I monoteisti in genere sono intolleranti.
Perché la Chiesa ha usato tanta ferocia con Giordano Bruno arso vivo nel 1600?
Nell’Accademia Platonica ispirata da Gemisto Pletone che trasmetteva la tradizione esoterica neoplatonica, e con pensatori come Cusano,  Ficino e  Pico della Mirandola, c’era stato un incontro fra culture. Dopo la Controriforma questo non fu più possibile. Prima, forse, Bruno avrebbe potuto essere, non dico condiviso, ma tollerato. Con Riforma e Controriforma tutto si chiude. Qui dovremmo parlare dei contenuti di Bruno. Per brevità mi limito a dire che per la Chiesa del Seicento chi va oltre certi limiti culturali e intellettuali è morto.

Indagando perché un pensiero laico in Italia non è mai stato egemone,  ricorda che Gentile, Croce e Gramsci avversarono ogni forma di pensiero magico ed esoterico, cosa unì intellettuali così diversi?
Con Jean-Pierre Vernant direi che l’idea di uno Stato moderno come una forma di immanentizzazione del cristianesimo è comune a tutti i filoni che si rifanno a Hegel e al neohegelismo. Io ho sempre visto nel marxismo italiano la sinistra dei neohegeliani. Detto questo è evidente che dal punto di vista etico-politico i tre erano ben diversi. Basta dire che mentre Gentile comandava Gramsci finì in galera. Ma se parliamo di storia delle idee le cose si complicano. L’uguaglianza come tema fondamentale, intesa anche come uguaglianza di fronte alla legge nello Stato moderno, trova anche nell’esoterismo uno dei suoi filoni culturali alti. Ma Gramsci, per esempio, non c’entra  con questa storia. Vi troviamo piuttosto Raffaele Pettazzoni ed Ernesto De Martino impegnati nel partito socialista e comunista. Dunque personaggi di sinistra, ma che in quell’ambito non furono mai ben visti.
Perché il Pci considerò residuale la ricerca di Ernesto De Martino?
De Martino risultava ostico al Pci proponendo un mondo culturale diverso da quello in cui la cultura marxista si riconosceva. Inoltre era stato attivo in società di parapsicologia che tendevano a leggere tutta una serie di fenomeni con i criteri con cui i biologi e medici studiano lo specifico umano. E poi va ricordato che faccende che oggi attribuiamo alla superstizione, come elemento marginale e popolare, hanno avuto un approccio scientista e positivista. Ad esempio lo spiritismo: per noi chi comunica con i morti facendo ballare i tavolini è uno strano o un matto. Andando a vedere le basi filosofiche scopriamo che gli spiritisti erano convinti di  combattere la superstizione delle chiese cristiane con metodi di rilevazione scientifica. Non a caso incontriamo spiritisti in correnti di carattere repubblicano-socialista. La mia è una constatazione. Toccherà agli scienziati valutare quelle correnti, io rilevo che non rientrano nella categoria irrazionalista come comunemente la si intende. Semmai furono rami secchi della medicina.

Con tematiche come la  “crisi della presenza”, Ernesto  De Martino indagava le dinamiche di incontro-scontro fra culture, non astrattamente ma anche dal punto di vista del rapporto psichico più profondo fra persone. Il positivismo della tradizione marxista rese cieco il Pci?
Indubbiamente nella storia del comunismo marxista c’è stata una scarsa sensibilità verso questi temi. Il Pci ha avuto sempre un atteggiamento di diffidenza tenendosi a distanza. O meglio, detto un po’ rozzamente, sulle questioni scientifiche ha sempre preferito stare con la verità scientifica del momento. Riteneva di avere già  abbastanza guai  su altre questioni per occuparsene.

Dall’altra parte c’è chi ha parlato di radici esoteriche del nazismo. Che ne pensa?
Conosco la letteratura, ma non sono uno specialista. A me pare sia stata gonfiata la presenza di elementi esoterici nel fascismo e nel nazismo. Certo, esistevano filoni culturali di questo tipo, ma non hanno mai caratterizzato la linea che ha vinto. Non c’è dubbio che il fascista Evola volesse una resurrezione di una cultura romana, neopagana, contro una cultura monoteista ebraico-cattolica. Ma era isolato, non contava nulla. Semmai un richiamo a tematiche esoteriche lo troviamo in filoni neofascisti del secondo dopo guerra.

E Jung che teorizzò l’inconscio ariano?

è certo che Jung ebbe simpatia per il nazismo. E l’essere convinto che nel profondo dello psichico umano ci siano una serie di archetipi, simboli, che giocano poi diversamente a seconda delle tradizioni culturali richiama alcuni filoni esoteristi. Più che di razzismo biologico qui parliamo di razzismo culturale, per cui la razza, pur partendo dalla biologia, sarebbe una sedimentazione di esperienze culturali e di approcci simbolici trasmessi di generazione in generazione.

Un razzismo anche più vischioso…
Senza dubbio. Perché la versione biologica del razzismo o l’accetti o la respingi, quella culturale è molto più borderline e ha molteplici aspetti non sempre così  facili da afferrare e da distinguere.

Parlando di esoterismo al giorno d’oggi lei accenna anche alla moda delle consulenza filosofica. Siamo alla new age?
No, si tratta piuttosto di un filone che nasce in Germania con radici neoaristoteliche (facendo proprio il concetto di vita buona in senso aristotelico). Ora la consulenza filosofica si è messa sul mercato. In fabbrica i i consulenti filosofici cominciano ad essere assunti dalle divisioni che si occupano di personale.

Un suo giudizio da filosofo?
Non appartengo a nessuna istituzione religiosa. Come diffido della cura delle anime dei preti, diffido anche delle cura delle anime dei filosofi.

da left-avvenimenti

da left avvenimenti del 23 luglio 2010

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Saramago, indignazione da Nobel

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 9, 2009

Lo scrittore portoghese è in Italia per presentare le sue acute riflessioni affidate a un blog. E ora a un libro. Eccone un piccolo assaggio

di José Saramago

Saramago

Saramago

Una buona notizia, diranno i lettori ingenui, supponendo che, dopo tanti disinganni, ve ne siano ancora. La Chiesa anglicana… ha annunciato una importante decisione: chiedere perdono a Charles Darwin, ora che si commemorano i duecento anni  della sua nascita, per il modo in cui lo ha trattato dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie e, soprattutto, dell’Origine dell’uomo... Anche se Darwin fosse vivo e disposto a mostrarsi benevolo, dicendo «sì, perdono», la generosa parola non potrebbe cancellare un solo insulto, una sola calunnia, una sola manifestazione di disprezzo dei molti che gli caddero addosso. L’unica a trarne beneficio sarebbe la Chiesa anglicana, che avrebbe aumentato, senza spese, il suo capitale di buona coscienza. Ringraziamola comunque del suo pentimento, che forse spingerà il papa Benedetto XVI a chiedere perdono… a Giordano Bruno, cristianamente torturato, con molta carità e perfino al rogo su cui fu bruciato. Questa richiesta di perdono non sarà gradita ai creazionisti nordamericani. Fingeranno indifferenza ma è evidente che si tratta di un ostacolo ai loro piani. Un ostacolo per quei repubblicani che, come la loro candidata alla vicepresidenza, inalberano la bandiera di questa aberrazione pseudoscientifica chiamata creazionismo (settembre 2008).

Ateismo militante
(…) le religioni non solo non avvicinano gli esseri umani, ma vivono, loro stesse, in stato di permanente mutua inimicizia, nonostante tutte le arringhe pseudo-ecumeniche ritenute vantaggiose da una parte e dall’altra per occasionali e passeggeri motivi di ordine tattico. Le cose stanno così da che mondo è mondo e non si vede alcun indizio di un possibile cambiamento. Salvo l’ovvia idea che il pianeta sarebbe molto più pacifico se tutti fossimo atei. (febbraio 2009).

Dogmi
I dogmi più nocivi forse non sono quelli che come tali sono stati espressamente enunciati, quale è il caso dei dogmi religiosi, perché quelli fanno appello alla fede e la fede non sa né può mettere in discussione se stessa. Il guaio è che si sia trasformato in dogma ciò che, per sua natura, non ha mai aspirato ad esserlo. Marx per esempio, non ha dogmatizzato, ma sono subito spuntati pseudo-marxisti pronti a convertire Il capitale in un’altra Bibbia…(novembre 2008).
Berlusconi e Co.
Secondo la rivista nordamericana Forbes il gotha della ricchezza mondiale, la fortuna di Berlusconi ascenderebbe a quasi diecimila milioni di dollari. Onoratamente guadagnati, è chiaro, sebbene con non pochi aiuti esterni, come ad esempio il mio. Essendo io pubblicato in Italia dall’editrice Einaudi, proprietà di Berlusconi, qualche soldo glielo avrò fatto guadagnare. Una infima goccia d’acqua nell’oceano, ovviamente, ma che gli sarà servita almeno per pagarsi i sigari, ammettendo che la corruzione non sia il suo unico vizio… Ebbene, come di solito si sente dire, i popoli sono sovrani, ma anche saggi e prudenti, soprattutto da quando il continuo esercizio della democrazia ha fornito ai cittadini alcune nozioni utili a capire come funziona la politica e quali sono i diversi modi per ottenere il potere. Ciò significa che il popolo sa molto bene quel che vuole quando è chiamato a votare. Nel caso concreto del popolo italiano – perché è di questo che stiamo parlando e non di un altro (ci arriveremo) – è dimostrato come l’inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale. In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto privato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità? ( settembre 2008).

Che fare con gli italiani?
… è appena giunta la notizia delle dimissioni di Walter Veltroni. Ben vengano, il suo Pd è cominciato come una caricatura di partito ed è finito,senza parole né progetti, come un convitato di pietra sulla scena politica… Veltroni è responsabile, certo non l’unico, ma nell’attuale congiuntura, il maggiore, dell’indebolimento di una sinistra di cui era arrivato a proporsi come salvatore. Pace all’anima sua. ( febbraio 2009).
Tratto da José Saramago, “Il Quaderno” (Bollati Boringhieri)

l’intervista: ITALIA SVEGLIATI

Un quaderno di riflessioni acuminate. Nate in margine a fatti di cronaca. Ma non solo. Prima affidate con passione da blogger  all’immediatezza della Rete. Poi distillate in libro che, come è noto, ha avuto una travagliata vicenda editoriale. Rifiutato da Einaudi, vede ora la luce grazie a Bollati Boringhieri con il titolo Il Quaderno. E mentre si parla di un trasferimento in blocco di tutta la sua opera nel catalogo Feltrinelli (a partire dal prossimo romanzo Caino), Saramago arriva in Italia per presentare il suo nuovo libro e incontrare il pubblico. Prima tappa il 9 ottobre proprio a Torino, la città di Bollati Boringhieri ma anche dello storico marchio enaudiano acquisito dalla Mondadori di Berlusconi. Alle 21 il Nobel è al circolo dei lettori e il giorno dopo all’università. E poi ancora ad Alba, a Milano ( 12 ottobre) e a Roma (14 ottobre, al Teatro Quirino, con Marramao). In attesa di questi incontri dal vivo, left ha rivolto a Saramago qualche domanda via mail.
Il Partito del premier si chiama Partito della libertà. Che tipo di libertà propone agli italiani?
La libertà di aprire il cammino al fascismo. Molti italiani credono di vivere in paradiso, ma forse si sveglieranno all’inferno. Se, purtroppo, ciò accadesse che non cerchino altri colpevoli.
Freedom House e l’ Economist denunciano che libertà di stampa è venuta meno in Italia. Che ne pensa?
Qualsiasi persona, perfino la meno attenta, lo confermerà. Fredoom House e Economist non ci hanno detto niente di nuovo.
Perché la reazione degli italiani e del Partito democratico alle continue bugie del premier è ancora così debole?
Non chieda a un semplice scrittore portoghese che dica ciò che gli italiani dovrebbero essere i primi a sapere. Sono loro che hanno messo Berlusconi dov’è. Che decidano adesso cosa fare
C’è uno svuotamento della cultura?
La cultura italiana sta resistendo e continuerà a resistere. Si prendano come esempio Saviano, Eco, Fo, Magris, Flores D’Arcais e tanti altri che difendono la fortezza della dignità e della sapienza.
Simona Maggiorelli
(traduzione di Sonia Castillo)

da left-avvenimenti 9 ottobre 2009

Posted in Letteratura | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Tempo della coscienza e tempo dell’inconscio

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 24, 2009

Intervista allo psichiatra Massimo Fagioli

di Simona Maggiorelli

massimo fagioli

massimo fagioli

Tempo di vita degli animali e degli esseri umani, una differenza profonda. Tra le due cesure forti della nascita e della morte c’è da notare la differenza fra il tempo misurabile della coscienza e il tempo dell’inconscio che fa la qualità della vita degli esseri umani. Ma occorre dare anche uno sguardo alla storia della cultura per rivedere criticamente l’idea di tempo che ha connotato il cristianesimo, la psicoanalisi, il marxismo e l’esistenzialismo. Sul tema del tempo- il primo della triade su cui si appunta la riflessione di questo numero speciale della rivista Il Grandevetro – abbiamo sentito lo psichiatra Massimo Fagioli, che con la scoperta della pulsione di annullamento e della fantasia di sparizione concettualizzata nel suo prio libro Istinto di morte e conoscenza (1971, Nuove edizioni romane, e ora edizioni l’Asino d’oro) e poi con i seminari di analisi collettiva ha rivoluzionato dal punto di vista della teoria e della prassi, il modo di pensare e di fare psichiatria, mettendo al centro della ricerca scientifica la ricerca sull’inconscio, il tema della cura e della possibilità di trasformazione psichica umana.

professor Fagioli che differenza c’è fra il tempo di vita degli esseri umani, degli animali e dei vegetali?

Se ci limitiamo a intendere la domanda in senso positivistico si può dire che dal punto di vista del tempo di vita vi sono variabili nel senso della misurazione mediante anni. Per cui un cane vive vent’anni, un elefante novanta, una tartaruga, credo, anche trecento. Alcune piante possono vivere anche mille anni prima di seccare. Il tempo di vita viene misurato con strumenti, con un sistema artificiale che noi facciamo regolandoci su quello che sono i cicli e quindi con il calendario più o meno cristiano di Gregorio Magno. Se questa domanda, invece, nasconde qualcosa qualcosa di non esplicito, come se ci fosse un tempo diverso fra vegetali, animali e uomo, allora non è questo di cui stiamo parlando, perché in questi casi che abbamo citato il tempo viene misurato sempre nella stessa maniera. Se ci sia una diffrenza fra animali e vegetali, questo esattamente non lo so, perché fra la cellula vegetale e quella animale mettersi a pensare quali possano essere le differenze è difficile, però possiamo fare un discorso sulla biologia umana e su quella animale. Se facciamo un discorso del genere dobbiamo in effetti scoprire un altro tempo, oltre ed al di là di quello razionale, matematico che calcola, misura secondo parametri per cui un anno è fatto di dodici mesi, seguendo certi criteri di misurazione di matematica razionale. Il termine comune per indicare questo altro tipo di tempo è tempo interno. E qui ci può essere utile un discorso: che l’uomo si distingue dagli animali perché sa di dover morire è la balla più grande che possa esistere. Come realtà di tempo interno non è vero affatto. La coscienza, la ragione non ha nessuna sensazione del tempo, deve misurarlo per capire se una cosa dura un’ora o dieci ore. Il tempo interno è direttamente legato all’immagine interna. Finché l’uomo non scopre l’immagine interiore non può pensare il tempo inetrno. Quindi, se l’uomo sa di dover morire, lo sa per questioni statistiche. Siccome vede che tutti , all’incirca, dopo novant’anni muoiono dice: allora morirò anch’io. Ma non perché abbia più o meno capito una cosa di questo genere.

E volendo andare più a fondo che differenza c’è fra tempo inconscio e tempo della coscienza?

Appunto, questo di cui abbiamo detto è tempo razionale nel senso che io lo calcolo con l’orologio: il tempo che mi ci vuole per scendere le scale, andare in strada, fare un chilometro, ritornare eccetera. Mentre quest’altro tipo di tempo che è inconscio- chiamiamolo tempo interno o tempo inconscio- non dà la sensazione perché si lega al discorso del movimento psichico. La ragione non ha movimento. La ragione sposta, registra con i sensi un oggetto che va da un punto all’altro ma è una registrazione, direi, quasi meccanica. più o meno fotografica. per realizzare il movimento bisogna realizzare l’immagine interna e non la figura esterna. Allora si legano movimento, tempo interno e immagine interiore. Ci vogliono tutte e tre queste cose per cui poi uscire da casa non è soltanto calcolare quanto tempo ci vuole per andare da qui a lì. E’ fare qualche cosa, è un movimento dell’organismo.

La sua teoria della nascita come supera il modo di pensare il tempo che hanno avuto alcuni filoni della cultura occidentale come la psicoanalisi, il marxismo el’esitenzialismo?

Direi che che li acchiappa tutti e tre, perché tutto sta nella grande sfida, nel grande coraggio direi, di concepire un inizio. il difetto di esistenzialismo, cristianesimo e anche del marxismo è di non concepire un inizio. Se lo si concepisce allora si trova anche la fine. Tra l’inizio e la fine c’è il discorso del tempo. Il tempo che è un movimento che non può essere sentito, realizzato e pensato finché non si ha il coraggio di realizzare un’immagine. Quindi la nascita è un inizio di realtà psichica. Sappiamo che la cultura, anche quella marxista, e in modo particolare il cristianesimo, esclude in maniera assoluta che ci sia un inizio. Tutto deve essere sempre, in eterno, sempre stato e sempre sarà. All’inizio appunto il cristianesimo concepisce uno spostamento, diciamo pure, dalle nuvolette all’organismo biologico ma non concepisce affatto una realtà psichica e quindi di immagine interiore. E quindi non concepisce un inizio del tempo.

La letteratura psicoanalitica e in particolare Freud ha parlato di una atemporalità dell’inconscio. In che modo deve essere rivista questa concezione?

Deve essere rivista in tutto.  Perché la banalità, la stupidità di Freud è totale. Nel senso che Freud dice che la realtà psichica comincia con il pensiero verbale e dire questo significa affermare che prima di un anno e mezzo due anni di vita non esista realtà psichica. Non esisterebbe mente, non esisterebbe pensiero. Significherebbe dire che il bambino per un anno e mezzo è peggiore di un animale. Non capisco.  Perché forse l’animale un abbozzo- non so se posso chiamarlo pensiero- ma di sensazione o di elaborazione delle percezioni ce l’ha. Freud dice che il bambino non ce l’ha, quindi è completamente fuori da ogni possibilità di discussione perché afferma delle cose che sono assurde anche a rapporto immediato, a buon senso comune.

Anche il marxismo in qualche modo ha parlato di una tensione verso qualcosa di nuovo, di futuro, ha parlato di trasformazione sociale ma ugualmente ha fallito il tema della trasformazione umana, perché?

Esatto. Della storia del fallimento di Marx ne parlo da trent’anni. Marx tentò in ambito filosofico di occuparsi di realtà umana. E dichiara chiaramente nella famosa lettera al padre del 10 novembre 1837 che ha fallito, che non ce l’ha fatta. Andava a finire nella logica hegeliana dello spirito assoluto e quindi abbandonò tutto per occuparsi di rapporti materiali e di realtà e comportamento materiale e con ciò si è fermato a un’idea di “male”. Ecco forse è riuscito- ma non so se realmente l’abbia fatto – a togliersi un po’ dal pensiero  religioso per cui il male è il sadismo e l’aggressivitò violenta di procurare sofferenza fisica agli altri. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di pensare a un’altra violenza e aggressività che è la negazione e che non è mai stata pensata da Freud. Invece il problema era proprio quello che per occuparsi di realtà psichica bisogna scoprire una violenza, una distruzione che andava ben oltre il discorso del sadismo fisico, della distruzione delle cose materiali, occorreva un rapporto psichico di conoscenza e di sapere.

Dalla rivista Il Grandevetro agosto-settembre 1999

Posted in Ricerca scientifica | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

La forza di un pensiero libero

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 16, 2009

A venticinque anni dalla sua morte, a Regalbuto e a Firenze, due convegni dedicati all’attualità del socialismo di Riccardo Lombardi

di Simona Maggiorelli

Riccardo Lombardi

Riccardo Lombardi

ll 18 settembre di venticinque anni fa moriva uno storico padre della sinistra italiana, Riccardo Lombardi. Un leader antifascista dalla statura politica alta e coerente che all’indomani della liberazione aveva assunto l’incarico di prefetto di Milano proprio per il suo impegno nella resistenza e nel partito d’azione (che gli costò il carcere e la lesione di un polmone per le botte dei fascisti). Ma anche un politico che seppe rinnovarsi dando un’impronta laica e aprendo la sinistra socialista al rapporto con i giovani.

Forse anche per questa sua ricerca continua – oltreché per la sua intelligenza critica e sempre scomoda per l’establishment – fu tenuto ai margini del Psi. Di fatto Lombardi (che non amava le poltrone) non occupò mai troppo a lungo cariche di potere. Fu per poco tempo ministro nel primo governo De Gasperi e direttore de L’ Avanti per brevi periodi, mal digerito, anche lì, perché non cercava alleanze con i comunisti. Con un neologismo si diceva «a-comunista» per dire che non era anti-comunista né filo-comunista, ricorda l’nviato Agi Carlo Patrignani, che quando non aveva ancora vent’anni militò nella corrente lombardiana e, dopo lunghe ricerche, sta ultimando un importante libro di ricostruzione storica e biografica su Lombardi. per le edizioni L’Asino d’oro.

Di lui intanto, il giornalista romano ci offre un breve e appassionato ritratto: «Brillante uomo politico, onesto, eretico, solitario, Lombardi coltivò l’utopia di una società socialista, quella “che riesce riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di decidere della propria esistenza e di costruire la propria vita” cercando di legare insieme quello che il comunismo non aveva saputo fare: libertà, uguaglianza e giustizia sociale».

E dell’originalità della proposta lombardiana il 18 settembre Patrignani, insieme al leader radicale Marco Pannella, all’economista Andrea Ventura, Giorgio Ruffolo e a molti altri parla al convegno che il Comune di Regalbuto, con l’adesione del presidente della Repubblica Napolitano, dedica al suo illustre cittadino (che in provincia di Enna nacque il 16 agosto del 1901 per trasferirsi poi a Milano, completando gli studi di ingegneria al Politecnico). Una originalità che si legge già nella sua adesione alle battaglie Radicali per la legge sul divorzio, per la cancellazione delle norme fasciste del codice Rocco e via di questo passo, fino alla battaglia sull’aborto, su cui ebbe maggiori esitazioni, ma non opposizioni come larga parte del gruppo dirigente dell’allora partito comunista.

Ma anche nella sua visione dell’economia, ricorda Andrea Ventura, ricercatore di Economia politica all’Università di Firenze: «Perché tentò di fare una “forza socialista dell’autonomia” che non fosse né sulla sponda dell’accordo con i cattolici né allineata sulle posizioni del Pci». Ma interessante è anche l’interpretazione che dette al concetto marxista di alienazione. «Vide chiaramente che nelle società socialiste il superamento dell’alienazione non si era realizzato. Bisognava pensare una economia che non fosse schiacciata sul liberalismo né orientata sul marxismo». Inoltre, aggiunge Ventura, «intuì che non conta solo la soddisfazione dei bisogni elementari ma anche di ciò che oggi chiameremmo esigenze e che riguardano i rapporti umani. La sua era una visione dell’uomo non meccanicistica, non appiattita  sull’economicismo».

carlo patrignani

carlo patrignani

Dell’attualità del pensiero di Lombardi, nella mattinata del 18 settembre si parla anche al Consiglio regionale della Toscana. Fra i relatori, oltre a Valdo Spini, l’accademico dei Lincei Michele Ciliberto che così sintetizza il suo pensiero: «Lombardi è stato uno dei più eminenti personaggi della storia repubblicana e del movimento operaio italiano per quattro motivi: è riuscito ad avere uno sguardo lucido e disincantato sull’Urss quando uomini come Nenni e Morandi erano chiusi in un orizzonte ottuso, acritico e subalterno a Stalin; ha saputo individuare il ruolo dello Stato nelle società moderne ripensando la lezione di Keynes; ha insegnato a una intera generazione a guardare al mondo in modo libero e autonomo senza lasciarsi opprimere dalla tradizione, dall’abitudine, dalla passività al senso comune. Ha saputo liberarsi dalle eredità dei cattivi maestri e dal peso di esperienze tanto tragiche quanto miserabili . “I ricordi sono turpi”, disse una volta e in questa aspra battuta – conclude il professore – c’è il sigillo di un’eticità che non è usuale nel nostro infelice Paese».

da left-avvenimenti 18 settembre 2009

Posted in socialismo | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

Severino: i miei 60 anni con Parmenide

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 23, 2009

emanuele_severino

Dal 12 luglio lo studioso invita a un “ritiro” nel cuore delle Dolomiti. Per ferie insolite, tra passeggiate e discussioni colte
di Simona Maggiorelli  11 luglio 2008


«Severino novello o (eterno) Parmenide?» recita non troppo scherzosamente il depliant che invita alle Vacances de l’esprit. Ovvero, sulle Dolomiti, sette giorni di full immersion nel pensiero di quello che è considerato il maggior filosofo italiano dei nostri giorni. E se al greco Parmenide, obliato dalla riflessione metafisica dell’Occidente, il professore ha dedicato l’opera di una vita (al punto da dire oggi «chiedermi del mio interesse per Parmenide sarebbe come chiedere a un matematico perché si dedica alla matematica»), nei tre suoi nuovi libri, usciti nell’arco di sei mesi, Emanuele Severino torna a declinare in orchestrazioni nuove alcuni dei suoi temi di sempre: il nihilismo moderno fondato sulla cieca fede nel divenire delle cose. La riflessione sul senso dell’essere e del nulla. La tecnocrazia e i suoi rischi. E ancora Immortalità e destino, per dirla con il titolo del libro appena uscito per Rizzoli che si collega strettamente al precedente: L’identità della follia, nel declinare quel concetto di “follia” a cui Severino contrappone un concetto di «non follia», intesa come «necessità dell’essere sé, presente nel profondo di ogni uomo». Quasi che una qualche forma follia abitasse da sempre e irrimediabilmente l’uomo e un’immagine di sanità mentale non fosse nemmeno pienamente enunciabile. Su alcuni di questi temi, di cui la filosofia si va sempre più appropriando, denunciando il fallimento della psicoanalisi, abbiamo rivolto a Severino alcune domande.

Professore è possibile che oggi filosofia e scienza trovino un dialogo fruttuoso?

Certamente nessuna delle due può ignorare l’altra. Ma, specie nel mondo anglosassone, è diffusa la convinzione che la filosofia sia una specie di ultima fase della scienza. Si tende a concepire la filosofia come una truppa d’esplorazione, poi arriverà l’esercito della scienza. Una concezione perniciosa, perché la filosofia così finisce per essere inutile. La scienza può procedere senza queste sbirciate in avanti da parte del pensiero filosofico. Così come non ha bisogno di consuntivi filosofici. La grande filosofia non è mai stata quella cosa a cui oggi molti tendono a ridurla. La filosofia è un sapere originario che sta alle radici stesse della scienza. È il terreno su cui crescono tutti gli alberi della conoscenza ma anche quelli religiosi. Non ci sarebbe stato il cristianesimo senza la filosofia greca.

Di filosofia ora si occupano molto anche i media italiani e si accendono dibattiti. In particolare con l’uscita del Meridiano Mondadori delle opere di Spinoza si è discusso molto sulla sua eredità di pensiero. Anche con qualche stravolgimento. Per esempio, Toni Negri ha voluto vedere in lui il padre del materialismo, parlando di un nesso stretto con Marx. Lei che cosa ne pensa?
Volendo si possono trovare degli agganci. Non solo con Marx. Nietzsche diceva di aver incontrato la sua anima gemella in Spinoza, il quale è indubbiamente la bestia nera del pensiero religioso. Ha una coerenza che oggi si tende a evitare. Le religioni vanno più d’accordo con le filosofie deboli, aperte a varie possibilità. Spinoza è tutto di un pezzo. Se gli si va addosso, è spigoloso, ci si fa male. Ci sono dei motivi per affermare che Spinoza indichi una strada del materialismo, ma rimanendo molto lontano da conclusioni non metafisiche.spinoza_1

Un legame segreto avvicina Spinoza a Cristo, lei ha scritto sul Corsera, in un pezzo dal titolo “Spinoza, dio il nulla”.
Lì alludevo a una cosa diversa. Cioè, nonostante tutto ciò che ho detto adesso di Spinoza, nonostante l’antitesi che si è voluta vedere fra cristianesimo e Spinoza, hanno in comune l’essenziale: la persuasione che l’essere non appartenga necessariamente alle cose. La libera creazione del mondo da parte di dio, cosa vuol dire? Significa che l’essere non compete con necessità al mondo e alle cose del mondo. Nonostante il suo ferreo determinismo (per cui tutto ciò che accade, accade con necessità, non può accadere diversamente da come accade), Spinoza dice che ciò che accade nel mondo riceve a un certo momento l’essere e poi lo perde, dando spazio agli eventi che gli succedono. Come una ruota che gira, in cui c’è posto in piedi solo per uno o per due, ma non per tutti. La ruota gira con necessità e, con necessità, i vari individui si presentano in cima alla ruota. Un momento stanno lì, poi cadono. Questo cadere delle cose significa che non sono legate all’esistenza. Ecco la profonda solidarietà che lega Spinoza e il cristianesimo, una solidarietà che riguarda tutta la cultura occidentale. Dunque anche Marx. Ma quella tesi della derivazione del materialismo da Spinoza non significa che possiamo permetterci degli spropositi storiografici.

Ovvero?
Dire che in Spinoza c’è un materialismo in senso stretto. Semmai c’è una corrispondenza. Spinoza è quello del noto teorema: «l’ordine e la connessione delle cose è la stessa dell’ordine e della connessione dell’idea». C’è stato anche chi ha voluto vedere in Spinoza il padre del parallelismo psicofisico, cervello-mente, ma lui non si è mai sognato di dire che la sostanza è materia. La sostanza, cioè dio, ha l’attributo della materia, ma ha anche l’attributo originariamente del pensiero. Ma non nel senso che la materia primeggi sul pensiero. La filosofia ha una tecnica, quando se ne parla così, anche come ho fatto io adesso, si rischia sempre di tradirla e di alterare il profilo del pensatore.

Nell’ultimo suo libro parla del rapporto fra mente e cervello, centrale nelle neuroscienze. Ma anche di psicoanalisi che ne L’identità della follia lei diceva essere «una delle figure essenziali del nihilismo». Che nesso c’è fra le due discipline?
La psicoanalisi è fra quelle discipline in cui si afferma il condizionamento della mente. Con un accento critico verso la grande tradizione filosofica che, come dicevo prima, sta alla radice della mente scientifica, della mente economica eccetera. Marx sostiene che i rapporti di produzione determinano il modo in cui l’uomo pensa il mondo. Oppure si dice: la società determina i modi di pensare. E quindi la mente è pensata come condizionata dal lavoro, dalla società, dalla storia, ma anche dal cervello, e c’è anche l’inconscio. Per la psicoanalisi una piccola isola emerge dall’abisso profondo, ma non viene alla luce del sole. Che cosa si sottintende? Che alla radice della mente ci siano dei processi dinamici e che il cervello è nato, si logora, si distrugge. La mente stessa è logorabile. Un’architettura che viene tenuta in piedi male, basata com’è sul vecchio discorso filosofico metafisico di causalità. Ci si serve di una metafisica che deve fare i conti con la critica di un concetto di causalità che oggi la scienza, volendo essere coerente con la propria logica, non dovrebbe usare. Dovrebbe parlare di leggi statistico probabilistiche non di leggi causali.

Dunque psicoanalisi e neuroscienze condividono una forma di determinismo?

Non esplicitamente. Le neuroscienze e la psicoanalisi non si dichiarano, non è che inalberino il vessillo del determinismo. Di fatto, però, stabiliscono un rapporto deterministico fra fattori condizionanti la mente. Ma come si può oggi in scienza parlare di causa necessaria? Purtroppo sento anche pensatori rigorosi come Davidson e Rorthy parlare con tranquillità di rapporto causale. Si resta davvero stupiti nel vederli così scaltri nel collocare i concetti al posto giusto e fare poi un uso così ingenuo del concetto di causalità.

Nel nuovo libro Immortalità e destino lei torna a parlare di «mente originaria». Ma cos’è che origina la mente originaria?
Se originaria, vuol dire che non ha origine.

Una contraddizione in termini se parliamo di esseri umani…
Per spiegarmi meglio. Tutto quello che noi possiamo pensare, fare nell’arte o nella filosofia da che cosa viene? Dal fatto che il mondo sta davanti, si manifesta. Non si può fare nessuna scienza se non partendo da qui. Ora questa manifestazione del mondo (che è la condizione di ogni forma di sapere e di agire) è proprio ciò a cui la scienza deve la propria vita, ma a cui volta subito le spalle, perché la scienza non si interessa del mondo manifesto in quanto mondo manifesto, ma si interessa delle cose, lasciando da parte il loro essere manifeste. Come dire, si interessa delle cose, non del fatto che esse siano in luce e che pertanto illuminano ogni percorso e ogni azione. Allora la mente originaria è questa manifestazione rispetto alla quale, all’indietro, non risaliamo. Questa manifestazione delle cose del presente, del passato, del futuro, dei colori, suoni, sentimenti, questo orizzonte, questo cerchio di determinazioni luminose, questa è quella mente non considerata dalla scienza. Nel senso che la mente considerata dalla scienza è una tra le cose. C’è la mente, poi c’è il cervello e così via. Invece la mente originaria è il luogo dove tutte queste determinazioni appaiono. E la scienza non guarda il terreno su cui cammina, il terreno su cui poggia i piedi. Qui torniamo alla mia prima risposta, quella sul carattere della filosofia, che, invece, proprio di questa mente originaria si è interessata. Per questo la filosofia non può essere né un consuntivo della scienza né una proposta a briglia sciolta, alla disperata, di un’avanguardia che esplora le nuove ragioni-regioni, ma è il sapere radicalmente originario che guai se si costruisse sul fondamento del sapere scientifico. Così abbiamo chiuso il ciclo.

Dacché non esistono le idee innate, lei intende questo suo concetto di mente originaria come qualcosa che, per ogni essere umano, compare alla nascita?
Da quando ha davanti un mondo. Si dice, lo si ha davanti da quando si nasce. È un problema che ha toccato anche Agostino. Il nostro aprire gli occhi noi non lo sperimentiamo. Se sperimentassimo il nostro aprire gli occhi li avremmo già aperti con quello sperimentare. Non si può cominciare a vedere la visione, perché se la si comincia a vedere vuol dire che la visione c’è prima di essere veduta.

La «follia estrema» lei dice,« è la fede nel divenir altro». Per follia estrema lei pensa anche all’alienazione?
È la radice anche dell’alienazione di tipo psicologico-psichiatrico che per esempio si esprime con quelle forme di depressione in cui il paziente dice: io non sono niente. Quando parlo di follia però – e lo faccio non da ora – io intendo qualcosa di infinitamente più radicale.

Left 28/08

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , | Leave a Comment »

La donna e il serpente

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008

Durante il ’68 la rivolta dei giovani fu inquinata da “maestri” come Foucault che proponeva Freud e Heidegger come se fossero dei progressisti. Il femminismo è caduto in questa trappola di Simona Maggiorelli


Nella cultura di fine 800, quando le donne finalmente cominciarono a emergere sul palcoscenico della storia, la sessualità caotica e indifferenziata del mondo greco-romano, condannata dal cattolicesimo (in nome di un ideale di astinenza che annullava il corpo e gli affetti), ritornava negli scritti freudiani e nella sua idea di inconscio che aveva in sé un fondo limaccioso di crimine e di tragedia. La pederastia di Laio e il suo impulso figlicida avevano consegnato Edipo a un destino di colpa per l’amore esclusivo della madre. Freud si identificò con Edipo. Ma soprattutto con Laio quando disse che i bambini vengono al mondo morti, cioè narcisisti, uccisi da quel pensiero che annulla la trasformazione che avviene alla nascita.

Non a caso nel famoso sogno di Irma, con l’immagine delle placche di pus in gola, Freud riattualizza nel linguaggio pseudoscientifico della psicoanalisi la condanna cattolica del desiderio ritenuto malattia organica e incurabile. Similmente nel caso Schreber Freud dice che la causa della psicosi era stata una «fantasia erotica femminile» mentre il «tenero impulso passivo» dell’Uomo dei lupi diventava un segno di perversione.

Lungo tutto il 900 le avanguardie dadaiste e surrealiste, che si illudevano di poter sfruttare a scopi creativi la dissociazione freudiana, esibivano una sessualità ambigua e indifferente non disdegnando, come nel caso di Duchamp, il travestitismo. Apparentemente amanti di belle donne, Man Ray e compagni fecero di Kiki de Montparnasse un’icona patinata e senza movimento “spingendola” nel suicidio di alcol e droghe. Durante il Sessantotto la rivolta dei giovani cercherà di portare alla luce quanto la psicoanalisi aveva sepolto nell’inconscio.

La spinta verso una “rivoluzione sessuale”, la critica della famiglia presa da Reich, la rivolta affrontata senza identità e senza una valida teoria scientifica, libererà perversione e pazzia. Lo stesso epigono di Freud, Wilhelm Reich, finirà dietro le sbarre di un carcere. Un altro maestro del ’68, Foucault si fece apologeta della pedofilia e portò nella rivolta giovanile la mela avvelenata dell’«essere per la morte» di Heidegger. Mentre Deleuze, l’autore dell’Antiedipo e delle «macchine desideranti», finirà suicida. In questa congerie culturale la psicoanalisi (di cui la Sinistra fin lì poco si era interessata) fu spacciata per una pratica rivoluzionaria.

Marx veniva accostato a quel Freud che parlava di inconscio perverso, filogeneticamente ereditato, che negava ogni possibilità di trasformazione psichica. Di questa frode, purtroppo, furono vittime e insieme complici i movimenti femministi che nella psicoanalisi contaminata con le pratiche di autocoscienza cercavano una liberazione delle donne. Pensatrici e psicoanaliste come Julia Kristeva e Luce Irigaray sono state le teoriche di questo tipo di pensiero scrivendo, sulla scorta di Lacan, della impossibilità di vivere il desiderio e negando qualunque possibilità di rapporto fra donna e uomo. Vestali del dolore hanno rinchiuso le donne in una diversità irriducibile che rischia di diventare autistica.

In anni più recenti poi, una ulteriore e ancora più distruttiva deriva del femminismo: assumendo l’orizzonte che propone la statunitense Judith Butler in libri come La disfatta del genere (Meltemi) le femministe che si legano al movimento lesbico arrivano a proporre come liberazione delle donne l’annullamento della propria identità, frantumata e disciolta nel transgender. Forse nemmeno il logos occidentale e il Cristianesimo sono riusciti ad arrivare a tanto.

Left 47/08

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , | 1 Comment »

 
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: