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La diagnosi preimpianto è un diritto

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 16, 2012

Per la prima volta dall’entrata in vigore della legge 40 sulla fecondazione assistita, un giudice ha riconosciuto il diritto di poter fare la diagnosi preimpianto. Il Tribunale di Cagliari ha autorizzato l’accesso a questa tecnica  per una donna malata di talassemia major e  il suo compagno portatore sano della stessa patologia genetica.

di Simona Maggiorelli

fecondazione assistita

I centri pubblici italiani specializzati nella fecondazione assistita devono offrire la diagnosi preimpianto alle coppie che la richiedono perché affette da malattie genetiche. Lo ha stabilito il tribunale di Cagliari rispondendo a una coppia di talassemici che chiedeva di poter ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto per avere un figlio libero da questa grave malattia genetica. Una sentenza, questa di Cagliari, perfettamente in linea con quella emessa della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo a fine agosto scorso che ha dato ragione a una coppia italiana contro la legge 40/2004, giudicata una norma contro i diritti umani. Dopo un a lunga e coraggiosa battaglia nelle aule di tribunale (supportata come nel caso sardo dall’avvocato Filomena Gallo dell’Associazione Luca Coscioni) la coppia italiana portatrice sana di fibrosi cistica a fine agosto ha visto riconosciuto dall’Europa il proprio diritto di avere un figlio sano. Poi, come è noto, Scienza e Vita ha alzato barricate. E quel che è più grave il ministro della Salute Renato Balduzzi ha annunciato di voler fare ricorso contro la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, incurante del fatto che le associazioni di malati hanno chiesto al Governo di recepire la sentenza, cogliendo l’occasione per abrogare o riscrivere la legge 40 che, sulla base di assunti antiscientifici, dal 2004 costringe le coppie italiane ad andare all’estero perpoter fare la fecondazione eterologa (con gameti di donatori esterni alla coppia) e la diagnosi preimpianto. Costringendole ad espatriare per vedere riconosciuti un diritto alle cure mediche riconosciuto dalla nostra Costituzione. Senza contare la feroce discriminazione di censo che le coppie devono subire, visti i costi dei cicli di terapie e dei soggiorni all’estero.

Ma ora, proprio quando mancano pochi giorni alla scadenza della possibilità di ricorrere in appello da parte del Governo Monti contro la sentenza della Corte europea, ecco che il Tribunale di Cagliari viene in aiuto alle coppie portatrici di malattie genetiche con una importante sentenza che da ora in avanti obbliga tutti i 357 centri di fecondazione assistita attivi in Italia a dispensare la diagnosi preimpianto alle coppie sterili o portatrici di malattie genetiche che la richiedano. Fin qui nessuno dei 76 pubblici italiani ha permesso alle coppie di esercitare il proprio diritto alla diagnosi preimpianto, nonostante le linee guida Turco del 2008 sulla legge 40/2004 avessero almeno esteso il diritto alle coppie in cui lui fosse affetto da HIV.  La battaglia contro questa legge antimoderna però non è finita. Ancora resta in piedi il divieto di donare alla ricerca gli embrioni congelati e non più adatti al trasferimento in utero. Per completare l’opera di smantellamento di questa legge c’è ancora un pezzo di strada da fare e le sentenze in tribunali italiani attese per i prossimi giorni saranno decisive.

DA CAGLIARI UNA SENTENZA DECISIVA

di Federico Tulli

Tutti i cittadini in Italia hanno diritto di poter accedere a trattamenti sanitari. Si tratta di un diritto costituzionale ma, a quasi 65 anni dall’entrata in vigore della Carta, ancora oggi deve essere rivendicato in tribunale. È il caso di una coppia di Cagliari che si è dovuta rivolgere ai giudici del capoluogo sardo per “costringere” il laboratorio di citogenetica dell’ospedale Microcitemico di Cagliari a eseguire l’indagine diagnostica preimpianto nell’ambito della procedura di fecondazione in vitro che i due avevano richiesto per evitare che il nascituro ereditasse la talassemia, malattia genetica di cui è affetta la madre. Con una sentenza emessa oggi il Tribunale di Cagliari ha accolto il ricorso della coppia ordinando al laboratorio di eseguire l’indagine diagnostica o di utilizzare strutture esterne, ristabilendo così l’equità dell’accesso alle cure – in sintonia con la legge 40/2004 sulla Procreazione medicalmente assistita (Pma) così come è stata modificata in seguito a una sentenza della Corte costituzionale nel 2009.  In base alla norma si può accedere alla Pma perché infertili e quindi anche eseguire diagnosi preimpianto per verificare prima dell’impianto in utero se l’embrione è affetto dalla patologia dei genitori. Tuttavia il laboratorio di citogenetica della struttura pubblica che deve analizzare il campione si è rifiutata di analizzare le cellule. La coppia avrebbe potuto rivolgersi ad una struttura privata i cui costi però si aggirano intorno ai novemila euro a ciclo, cifra incompatibile con il loro reddito. Pertanto, assistita dagli avvocati Gallo e Calandrini, si è appellata al Tribunale di Cagliari per chiedere l’esecuzione dell’indagine richiesta alla struttura pubblica e prevista dalla legge 40: risulta, infatti, del tutto illegittimo oltre che gravemente lesivo dei diritti costituzionalmente garantiti il rifiuto della struttura pubblica. L’azienda ospedaliera è stata quindi riconosciuta colpevole della violazione. In Italia, attualmente sono attivi 357 centri di fecondazione medicalmente assistita. Quelli che applicano tecniche in vitro identificati per secondo e terzo livello sono 202: 76 svolgono servizio pubblico e 22 servizio privato convenzionato, i rimanenti 104 offrono servizio privato. In base alla decisione dei giudici cagliaritani tutti i centri pubblici (tra questi a oggi nessuno effettua diagnosi preimpianto) saranno obbligati a osservare scrupolosamente la legge 40 perché effettuare tecniche di fecondazione in vitro significa anche avere l’obbligo, se la coppia lo richiede, di fornire informazione sullo stato di salute dell’embrione. Anche per questo motivo, nel procedimento sono intervenute con atto unico le associazioni di pazienti infertili Cerco un bimbo e L’altra cicogna oltre alla associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.

da Cronache laiche del 15 novembre 2012

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Il ministro Balduzzi: Il mio decreto sanità è solo il calcio di inizio

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 21, 2012

Il governo avvia la riorganizzazione della Sanità. Ma Regioni e Comuni contestano i tagli. Sul ricorso contro la sentenza sulla Legge 40: chiedere chiarimenti è interesse di tutti. Parla il ministro della Salute Balduzzi 

di Simona Maggiorelli

Il ministro della Salute Balduzzi

Ambulatori aperti 24 ore su 24, che liberano i Pronto soccorso dal sovraccarico di lavoro. Centri pubblici territoriali dove ci si può sottoporre a screening di prevenzione e consultare specialisti. Poliambulatori con una équipe di medici di base che, collegati in rete, possono per esempio inviare in ospedale via web la cartella clinica del paziente che si deve ricoverare. Li chiamano “Case della salute” e in Italia ne esistono già diversi. Sono esempi avanzati, come quello nato nella Usl 11 di Empoli per iniziativa di un gruppo di medici di famiglia. Intanto altre realtà pilota stanno crescendo in Toscana e in Emilia Romagna. Il ministro della Salute Renato Balduzzi ha deciso di farne un modello di servizio medico territoriale da estendere in tutta Italia. Questo progetto è il cuore del Decreto legge che porta la sua firma e che, dopo un iter travagliato, ha avuto il via libera del Consiglio dei ministri. Ma se il tentativo di coniugare salute e sviluppo, valorizzando le competenze mediche attive sul territorio, è stato quasi unanimemente apprezzato da operatori e Regioni, più di un dubbio è stato sollevato sulla fattibilità della “Riforma Balduzzi” che secondo il governo dovrebbe essere a costo zero. Dal 2010 al 2014, in base a quanto già stabilito da più governi, il fondo della Sanità italiana sarà privato di 21 miliardi di euro. In questa congiuntura da dove potranno venire le risorse per far partire progetti che, nella fase di start up, necessitano quanto meno di infrastrutture e di reti informatiche? Lo abbiamo chiesto allo stesso ministro Balduzzi. «Per quanto riguarda l’assistenza territoriale bisogna ricordare che i principi introdotti nel decreto sono già contenuti nella convenzione nazionale con i medici di famiglia. E in quanto tali sono già finanziati. Ora è possibile darne piena attuazione. Quanto alle Unità complesse di cura primaria, è chiaro che necessitino di risorse: la ristrutturazione ospedaliera prevista dalla spending review serve a liberare risorse. Tutto il risparmio che la Regione riuscirà a realizzare in questo modo dovrebbe finanziare la rete territoriale.

E se nascessero dei problemi sulle risorse?

Ne discuteremo con le Regioni che hanno già avviato processi di sperimentazione. Tuttavia insistere ora su questo punto rischia di diventare un alibi per chi non vuole fare nulla. E di depotenziare un cammino ormai consolidato. Quanto è scritto nell’articolo 1 del decreto non è una rivoluzione. Era già nella normativa da tempo. Noi abbiamo solo fatto sì che, grazie a principi più chiari, l’istituzione della medicina territoriale potesse essere un obiettivo raggiungibile. Visto che se ne parla da oltre 15 anni nei dibattiti scientifici.

Presidenti di Regione come Errani e Rossi, hanno contestato il ricorso al decreto in materia di salute. Dopo il confronto parlamentare la discussione approderà in conferenza Stato-Regioni?

Sì e in questo caso sarà sottoposto alla Conferenza unificata perché il decreto contiene competenze che riguardano anche i Comuni. La conferenza unificata è un parere autorevole, (obbligatorio anche se non vincolante) che il Parlamento, in sede di conversione in legge del decreto, è chiamato a prendere in considerazione. Poi nel Patto per la salute ci sarà un ulteriore confronto. L’importante era dare il calcio di inizio. Ma si arriverà a definire un accordo sia con le Regioni sia con le categorie coinvolte.

Quali i tempi di attuazione?

Attraverso un accordo fra Stato e Regioni in sede di Patto per la salute, si potrà prevedere una tempistica. Auspico che accada nel minor tempo possibile perché questa è una esigenza avvertita dagli utenti, dagli operatori, da tutti.

Il Sistema sanitario nazionale è stato una grande conquista. Ma la situazione reale dei servizi è “a macchia di leopardo”. Come garantire l’universalità del diritto alla salute anche nelle Regioni in forte deficit?

Il Sistema sanitario nazionale cerca di realizzare il massimo grado di omogeneità. Certo, i livelli essenziali di assistenza devono essere uguali ovunque. Anche se poi nella realtà non sempre accade, purtroppo. Ma il nostro sistema va in quella direzione. E i piani di rientro non significano solo l’obbligo a trovare un equilibrio finanziario. Si è visto, infatti, che un equilibrio finanziario permette di dare migliori servizi. Insomma non è tanto una questione di asticella del fabbisogno ma in alcuni casi un problema di disorganizzazione e inefficienza.

Un punto di criticità del decreto riguarda l’intramoenia. C’è il rischio di cronicizzare la situazione attuale.

Nessuna norma è intoccabile ma, ne sono certo, abbiamo fatto il massimo stante la situazione attuale. E qualche risultato l’abbiamo ottenuto intervenendo anche nelle situazioni aziendali in cui, fin qui, non era stato fatto nulla. Ora quanto succede nell’attività libero professionale è tracciabile dalla Asl, e si riesce a evitare che l’intramoenia sia un modo per bypassare le liste di attesa pubbliche. Certo c’è chi dice che il problema sia l’istituzione stessa dell’intramoenia. Posizione legittima  ma non mi pare che il nostro ordinamento abbia imboccato la strada di una sua messa in discussione. A suo tempo fu deciso che un’attività libero-professionale fatta da un medico dipendente del Sistema sanitario dentro gli ospedali  a certe regole non fosse di ostacolo alla sanità pubblica.

Lei ha annunciato il ricorso del governo contro la sentenza di Strasburgo sulla Legge 40. Una coppia di portatori di fibrosi cistica, tramite l’associazione Luca Coscioni, in una lettera chiede al Presidente Napolitano di prendere posizione a favore della diagnosi preimpianto…

Io ho il massimo rispetto per le posizioni di queste persone e la massima attenzione verso chi è in sofferenza. Ma qui bisogna evitare di confondere il dibattito sulla Legge 40 e sulla diagnosi preimpianto con la vicenda specifica della Corte europea dei diritti dell’uomo. Fin dalla prima lettura della sentenza ho detto che, a mio parere, per ragioni di tipo processuale-tecnico-giuridico io avrei proposto l’appello, per promuovere un chiarimento, perché la Corte non risponde ad alcune domande decisive per il nostro ordinamento. Un ragionamento analogo al mio l’ha fatto Massimo Luciani su l’Unità. Sviluppando quello che io, a caldo, avevo tentato di dire, ovvero che ci sono dei problemi di fondo. Per esempio il diritto ad avere un figlio sano nel nostro ordinamento non esiste. La pronuncia di Strasburgo in questo senso è ambigua. Seconda questione: ma la Corte di Strasburgo ha considerato il bilanciamento che il nostro sistema ha trovato dopo che la Corte costituzionale ha rivisto e corretto la Legge 40? Perché l’argomento dell’incoerenza è double face. Anche nel merito la sentenza di Strasburgo presenta una serie di profili problematici. Non capisco perché chiedere chiarimenti susciti reazioni così forti. È utile a tutti.

Alcuni giuristi rilevano che una sentenza o la si rigetta o la si accetta, non esiste la terza via del chiarimento…

Non vogliamo usare la parola “chiarimento”? Intendiamoci però, stiamo parlando di una giurisdizione particolare. Il vincolo delle sentenze di Strasburgo è morale. Non è dello stesso tenore di quelle della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Maria Antonietta Coscioni,

Siamo Europa non solo per le questioni economiche ma anche per una comune adesione al Consiglio d’Europa e alla Carta che tutela i diritti dell’Uomo, non crede?

Attenzione, questo è un altro equivoco. Non “siamo in Europa”. In realtà qui siamo in una prospettiva allargata che ha dentro anche la Turchia, l’Ucraina la Russia, Paesi che non stanno dentro l’Ue. È è un ordinamento diverso che ha come obiettivo la maggiore tutela e garanzia dei diritti dell’uomo. Siamo proprio sicuri che il modo in cui il nostro ordinamento tutela i diritti sia inferiore a quello della Corte di Strasburgo?

Ci sono almeno 17 sentenze di tribunali italiani che vanno nella stessa direzione di quella della Corte europea (Cedu). Scienziati di fama internazionale affermano che le Legge 40 è antiscientifica rilevando che anche la Cedu accusa la norma del 2004 di confondere feto e bambino: nella tutela dell’embrione la Legge 40 va contro la legge 194 che stabilisce invece una precisa gerarchia fra i diritti della madre e quelli del nascituro. 

Certo. Fu una sentenza della Consulta del 1975. Ora è anche possibile che la Corte costituzionale ritorni in campo. Ma dobbiamo chiederci se la soluzione di temi così delicati possa essere affidata a sentenze problematiche o se invece dobbiamo chiedere a Strasburgo  di pronunciarsi in maniera più forte e limpida.

Il Pdl preme perché il Ddl Calabrò riprenda l’iter in Aula. Dall’altra parte il senatoreFurio  Colombo del Pd presenta una sua proposta per un vero biotestamento chiamandola “legge Martini”. E il governo Monti che posizione prende?

Il governo lo ha già detto: è disponibile a concorrere a una soluzione purché questa non crei ulteriori divisioni e contrapposizioni. Il punto è trovare una soluzione che unisca.

da left avvenimenti del  15-21 settembre

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La 194 all’esame della Consulta

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 19, 2012

l’avvocato Filomena Gallo

Un giudice solleva dubbi di costituzionalità sulla legge. L’avvocato Filomena Gallo: «È un attacco alle donne» 

Qualche anno fa lo si sarebbe ritenuto impossibile, tanto era forte la consapevolezza nel Paese delle conquiste di civiltà portate dalle legge 194, che ha cancellato la piaga mortale degli aborti clandestini. Ora, nel silenzio dei maggiori media, il 20 giugno la norma del ’78 va all’esame della Consulta, che deve decidere della legittimità dell’art. 4, quello che stabilisce le circostanze in cui è consentito abortire entro i primi 90 giorni. E anche se esperti come l’avvocato Filomena Gallo dell’Associazione Coscioni (che ha assistito molte coppie che hanno fatto ricorso contro la legge 40) dicono che la Consulta «non potrà che confermare la legge», resta la preoccupazione per un atto altamente simbolico in questo contesto «di attacco a diritti consolidati, dati per certi, come la 194, una legge a contenuto costituzionale vincolato». Ricordiamo, aggiunge Gallo, che la 194 «è una norma per la tutela della maternità, una tutela che diventa diritto concreto quando è a rischio la salute psicofisica della donna. In quel momento il diritto a interrompere la gravidanza passa in primo piano. Dunque una legge ben bilanciata sotto ogni riguardo». Ma come si è arrivati a metterla in discussione? Tutto è nato dall’iniziativa del giudice tutelare di Spoleto, durante un procedimento riguardante una minorenne che voleva abortire senza l’autorizzazione dei genitori. Chiamando in causa una sentenza della Corte di giustizia europea dell’ottobre del 2011, Il giudice ha ritenuto di vedere un conflitto con la 194: per incompatibilità con la definizione e la tutela dell’embrione enunciate dalla Corte europea. «Un atto sbagliato nel merito e che si basa su una interpretazione strumentale di quella sentenza di Strasburgo», commenta l’avvocato Gallo.

In primis perché quella sentenza europea (dovuta a un ricorso di Greenpeace) trattava di brevettabilità dei risultati di ricerche su staminali embrionali. Ma anche e soprattutto perché la definizione di embrione che si legge in quella sentenza europea «non ha contenuto scientifico». Basta dire, spiega Gallo, «che quella decisione qualifica come embrione anche l’ovocita attivato per partenogenesi, ovvero che si autofeconda. In natura ciò avviene solo in casi rarissimi e la scienza ancora studia questi fenomeni». Inoltre, aggiunge l’avvocato, «nell’evidenziare che quel principio entra in contrasto con un principio del nostro ordinamento il giudice di Spoleto dimentica il margine di apprezzamento previsto per  tutti gli stati membri che hanno già leggi come la 194. Una legge, ribadisco, conforme alla Carta perché tutela la vita, la vita della donna». Quanto ai movimenti pro life che cercano, in base a dogmi religiosi, di attribuire personalità giuridica all’embrione «se sono davvero contro l’aborto», chiosa Gallo, «dovrebbero fare informazione sulla contraccezione, impegnarsi per l’applicazione della 194, verificare che le Regioni vigilino». La legge sull’aborto, però, non è solo attaccata dalla Chiesa e da movimenti teocon ma è anche disapplicata a causa di livelli record di medici obiettori. «In strutture pubbliche dove tutti sono obiettori la legge prevede che si possano fare concorsi dedicati», dice Gallo. «Dunque gli strumenti per applicare la 194 e fare corretta informazione ci sono, ma in Italia l’unica volta che si è parlato di preservativi è stato in una campagna contro l’Aids, poi più niente. La legge 194, anche questo va ricordato, prevede l’aborto a tutela della salute della donna, non come contraccettivo. E con lungimiranza prevede anche l’aggiornamento dei metodi di interruzione di gravidanza, ma ancora l’uso ru486 trova mille ostacoli in Italia».

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L’ultimo Calibano

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 1, 2009

di Simona Maggiorelli

Tra la fine del 1997 e la primavera del 1998, dopo la tracheostomia a cui fu sottoposto suo malgrado e l’esperienza della rianimazione, Piergiorgio Welby concepì l’idea di un romanzo autobiografico. Un’opera che sarebbe stata il suo cantiere aperto fino alla fine, quando ormai senza voce, senza più la possibilità di scrivere o dipingere, la sua vita era diventata «solo un doloroso guardare il bianco del soffitto». Una tortura feroce per lui che era stato fin da giovanissimo poliedrico artista convinto che la creatività nasce dalle esperienze, dai rapporti, dalle passioni e non standosene rinchiuso ermeticamente in uno studio.

Proprio lui che – come ricorda Francesco Lioce che in casa di Welby trascorse gli anni dell’università – amava scrutare i cieli «quelli che gli richiamavano alla memoria certi dipinti di Cézanne e…i cieli di Renoir, morbide epifanie di corpi femminili,sensuali, carnosi…». Le donne., appunto. Sono le vere protagoniste di questo romanzo di una vita.

Con il titolo Ocean Terminal esce ora per Castelvecchi. Postumo, non finito. Piergiorgio non aveva voluto che il romanzo fosse pubblicato  prima, perché lì accennava a una brutta esperienza con la droga e aveva pudore a parlarne. Specie da quando il giovane Lioce, venuto a Roma dalla Sicilia, lo aveva eletto a fratello e amico. «Nei miei primi anni a Roma ho attrversato un aforte crisi,  sono stato sul punto di spezzarmi – ricorda lo stesso Lioce nella postfazione -.  E anche in questo fu decisivo il rapporto con Piergiorgio. La sua stanza era stata per sei anni una finestra aperta sul mondo. Lui si accorgeva delle mie debolezze, delle mie difficoltà…mi stimolava di continuo con l’ironia dei suoi paradossi».

Parole che evocano un Piergiorgio “maestro”, attento a sollecitare la parte migliore del  ragazzo. Diversissimo da quello che compare dalle torrenziali pagine del romanzo in cui Welby non nasconde la sofferenza che gli procura la distrofia muscolare, ma al tempo stesso non smette di interrogarsi su ciò che vede e legge. Così frugando fra queste sue righe (che lasciano trasparire un grande amore per Céline, per Lucrezio e la poesia) s’incontrano dolorose considerazioni, ma anche invettive e improvvise schiarite.

Amaro, Piergiorgio Welby si rivolge ai poster di Ho Chi Min e del Che appesi in camera: «che cazzo ne sapete voi- scrive – della guerra che combatto ogni giorno! Delle ritirate, delle imboscate, delle umilianti rese incondizionate. Mi hanno fatto prigioniero il giorno stesso che sono nato. Io ancora non lo sapevo ma i miei cromosomi malati sì che lo sapevano…regalo di un Dio logico, di un Dio sadico, il Dio degli imbecilli che quando tutto va bene lo ringraziano  pregando, ma se le cose vanno male se la prendono con l’umanità».

E poi inaspettati frammenti di leggerezza come quando, alla Bianciardi, Piergiorgio Welby si diverte a discettare sulle forme femminili su «culi come pianeti aristotelicamente perfetti, rotonde epifanie dell’esistenza di Dio…».

Più in là, lasciando sullo sfondo pensieri più importanti, fantastica su cosa sarebbe accaduto se Hitler nel 1906 fosse stato ammesso all’Accademia di Belle Arti e i suoi acquerelli fossero  finiti in mostre. «Probabilmente il logorroico Adolf – annota Welby – invece di scrivere Mein Kampf avrebbe scritto Mein Kunstkampf con grande sollievo del popolo eletto e degli elettori di mezzo mondo». E non sono pochi i passi di Ocean Terminal in cui emerge con chiarezza il pensiero non violento e profondamente democratico del leader Radicale che dal 2002 scelse di fare della sua malattia uno strumento politico per la conquista di diritti civili per tutti. Emblematiche le sue considerazioni sulle bombe «intelligenti» scaricate sulla Serbia: «L’hanno chiamato disastro umanitario – annota- e tutti ci credono, anestetizzati dai Lerner, dai Vespa, dai Costanzo. Ma a parte l’ossimoro, che cazzo vuol dire… se è un disastro non è umanitario, se è umanitario non è un disastro…». E ancor più sul sogno americano di Enola Gay: «Quella era una bomba dimostrtiva! – scrive – Una bomba democratica! Una bomba a Stelle&strisce che assicura la pace! Come diceva quel vecchio puttaniere di Kant, Zum ewigen Frieden, iscritti a forza nel club della pace eterna».

dal settimanale left-avvenimenti  dicembre 2009

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Ru486, un’attesa infinita, fra anatemi e assurdità

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 31, 2009

La riunione fiume dell’Aifa per l’autorizzazione al commercio della pillola abortiva si chiude a tarda sera con l’attesa approvazione. Con Portogallo e Irlanda eravamo l’unico Paese in Europa in cui non è consentita l’interruzione volontaria di gravidanza anche per via farmacologica

di Federico Tulli

Mirella Parachini

Mirella Parachini

Con il via libera del Cda dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) al protocollo sulla pillola abortiva Ru486 si aprono finalmente anche nel nostre Paese le porte a un farmaco usato in quasi tutto il mondo per le Interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg). La definitiva autorizzazione al commercio del medicinale è arrivata nella tarda serata di ieri, a larga maggioranza, con quattro voti favorevoli e uno solo contrario. Si mette così la parola fine su di un iter che definire biblico è un eufemismo (oltre 24 mesi invece dei sei previsti dalla legge a partire dalla richiesta di autorizzazione inoltrata dall’azienda produttrice Exelgyn), e che ha scatenato una nuova ondata di polemiche che, del resto, accompagnano il farmaco sin da quando il ginecologo Silvio Viale avviò nel nostro Paese la sperimentazione alla clinica sant’Anna di Torino. Era il lontano 2005.

Ignorando che dal 2003 anche la stessa Oms dichiara sicuro il farmaco abortivo, avendone definito tra l’altro anche le linee guida, i rappresentanti del centrodestra sia prima che durante la riunione dell’Aifa hanno dato sfogo alle più antiscientifiche teorie sulla pericolosità del farmaco. Chi sciorinando dati falsati chi accusando di omicidio le donne che decidono di abortire, la sottosegretaria al Welfare Eugenia Roccella, il leader di Forza nuova Roberto Fiore, e alcuni senatori del Pdl tra cui Laura Bianconi e Raffaele Calabrò hanno tentato in ogni modo di influenzare la decisione dell’Agenzia. Questo, nonostante nelle scorse settimane il Comitato tecnico scientifico si fosse già pronunciato in favore dell’approvazione della Ru486: «La pillola – si legge in una nota dell’Agenzia – può essere distribuita in Italia, in quanto ciò avviene anche in altri Paesi europei e la questione è stata affrontata sia dal Comitato europeo per i medicinali per uso umano (Chmp) sia dalla Commissione europea». L’unico impedimento alla distribuzione potrebbe giungere solo nel caso emergessero «nuove evidenze scientifiche che possano porne in dubbio le conclusioni» del Chmp e della Commissione, sulla base di «rischi potenziali gravi per la salute pubblica». Evidenze che al momento non ci sono. «I 26 decessi dal 1988» di donne che hanno usato la Ru486, che la Roccella in questi ultimi giorni aveva provato a usare come grimaldello per scardinare l’evidenza scientifica che parla di un farmaco sicuro, rappresentano, come ribadito da Viale, un dato infondato: «Se anche fosse vero, e non lo è, che sono morte 26 donne, il tasso di mortalità sarebbe 10 volte inferiore dell’aspirina che chiunque può acquistare in farmacia senza ricetta medica». Dal canto suo Carlo Flamigni, ginecologo ed esponente di Sinistra e libertà, ha sottolineato che la Ru486 costituisce una valida alternativa farmacologica all’intervento abortivo. Intervenire su una questione strettamente medica sulla base di pregiudizi ideologici genera solo confusione e paura». Mentre Fiore è partito a testa basta contro il diritto alla libertà di scelta delle donne definendo l’aborto «un assassinio disinvolto». Secca la replica di Sandra Cerusico della segreteria nazionale del Pdci. «Premesso che l’aborto non è una passeggiata di salute, e che nessuna donna vi ricorre con leggerezza, non si capisce perché in presenza di nuove possibilità offerte dalla farmacologia non si possa scegliere tra due diversi metodi. L’informazione è sempre utile e necessaria per una scelta consapevole ma non può essere presa a pretesto per portare avanti un violento attacco alla 194, che è una legge di civiltà». Dopo l’autorizzazione dell’Aifa la pillola giungerà negli ospedali a fine ottobre. Sulla base delle indicazioni del Comitato la Ru486 potrà essere utilizzata solo tramite i canali ospedalieri attenendosi «alle indicazioni e alla posologia autorizzate, nel pieno rispetto di quanto previsto dalla legge 194 e con un monitoraggio intensivo dell’impiego e degli eventi avversi». Non resta che aspettare.

La storia: VENTI ANNI DOPO

Inserita dal 2005 nella lista dei farmaci essenziali dell’Oms l’Ru486 è un «farmaco sicuro» pure per i più prestigiosi enti pubblici scientifici internazionali. Dall’Agenzia europea del farmaco, al Royal college of obstetricians and gynaecologists, dall’Agence nationale d’accreditation et d’evaluation en santé all’American college of obstetricians and gynecologists tutti concordano sul fatto che il mifepristone è un medicinale che può essere usato in alternativa all’aborto chirurgico. Non è un caso se i ginecologi europei (tranne in Portogallo e Irlanda) e statunitensi lo prescrivano oramai da 10 anni. Mentre sono addirittura 20 gli anni di ritardo dell’Italia rispetto a Francia, Cina, Svezia e Gran Bretagna. Il placet alla Ru486 riguarda, tra le tante, pure l’annosa questione della corretta applicazione dell’articolo 15 della legge 194, che prevede l’aggiornamento «sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Infine, di non poco conto è la questione del risparmio per il Ssn. Si stima che a fronte di un costo medio dell’aborto chirurgico di circa 1.100 euro, il trattamento farmacologico costerà mediamente 425 euro. Considerando una media annua di circa 130mila Ivg che incidono sul Ssn per 184 milioni di euro, e una percentuale di Ivg farmacologica che andrebbe dal 10 per cento del 2009 al 40 per cento del 2011, il risparmio complessivo per la Sanità in tre anni sarebbe di oltre 27 milioni di euro.

da Terra, il primo quotidiano ecologista, 31 luglio

il commento del ginecologo Carlo Flamigni: I timori riguardo all’uso della Ru486 sono un insulto alla donna

I timori sull’uso della pillola RU486 che nessuno e’ obbligato ad assumere sono un insulto gratuito alla donna che una certa cultura e’ una sorta di ianua diaboli. E’ quanto sostiene il pioniere della fecondazione assistita il ginecologo Carlo Flamigni per il quale quello dell’Aifa e’ “un atto dovuto”. Pur se arrivato con qualche mese di ritardo. “Ci sono delle linee-guida eccellenti – avverte Flamigni – per cui l’uso della pillola avverra’ sotto stretto controllo medico: la pillola RU486 e’ da moltissimo tempo impiegata in Europa e ora lo sara’ anche da noi”. Eppure ci sono tanti timori circa il suo impiego. “Dipende tutto da che idea si ha della donna – conclude il noto ginecologo – se la si ritiene, come e’, un essere umano consapevole e capace di decidere o se invece la si ritiene una sorta di ianua diaboli, una porta aperta al diavolo e penso che tutti i timori si leghino proprio a questa credenza millenaria”.   31 luglio 2009

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Quando la cura è accanimento

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 10, 2009

«Rianimare sempre i prematuri, anche quelli destinati a non sopravvivere, va contro ogni evidenza scientifica». Più di cento medici specialisti scrivono a Sacconi, contestando le indicazioni assunte dal ministero di Simona Maggiorelli

È lunghissima la lista di firme in calce alla lettera aperta, indirizzata da un gruppo di medici al ministro Sacconi e ai vertici del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) e del Consiglio superiore di sanità (Css). Conta più di cento nomi di anestesisti, neonatologi e ginecologi da ogni parte d’Italia. Molti sono cattedratici, ma fra loro c’è anche una larga rappresentanza di quei medici che, quotidianamente, lavorano in ospedale e che – stando a quanto indicato dai documenti ufficiali di Cnb e Css – in caso di parti prematuri, dovrebbero tentare sempre la strada della rianimazione. A prescindere dall’età gestazionale. Senza soffermarsi a valutare in primis le possibilità reali di sopravvivenza del neonato e i pesanti handicap da cui potrebbe essere affetto. «Questa posizione assunta dal Css, e quindi dal ministero della Salute, nega l’evidenza scientifica su cui deve basarsi ogni corretta attività clinica», commenta Giuseppe Gristina, coordinatore della comitato di bioetica della Siaarti che raccoglie gli anestesisti-rianimatori italiani. Un’evidenza scientifica che, come riporta uno studio basato sull’elaborazione dei dati forniti da 15 società scientifiche pediatriche occidentali e pubblicato nel 2008 da Giampaolo Donzelli e Maria Serenella Pignotti sulla rivista Pediatrics, tradotta in cifre significa che l’80-90 per cento dei nati prima delle 24 settimane muore in sala parto, il 2-10 per cento muore durante il trattamento intensivo e il 95 per cento evidenzia gravi handicap funzionali e psichici. «Perciò – spiega Gristina – riteniamo che rianimare comunque anche chi nasce prematuro estremo, e cioè con una elevatissima probabilità di morire dopo inutili sofferenze o di portare per sempre gli esiti drammatici di questa prematurità, significhi fare dell’accanimento terapeutico e non certo il bene di questi nati, contravvenendo, molto spesso, alla volontà dei genitori e infrangendo così una norma essenziale del codice di deontologia».

E se nel 2006 furono proprio i due neonatologi, Donzelli e Pignotti dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, ad aprire il dibattito sui rischi di accanimento terapeutico sui “grandi prematuri” stilando la cosiddetta Carta di Firenze (sottoscritta dalle maggiori associazioni di neonatologia e ostetricia), dopo due anni e molte risposte deludenti da parte di governi pur di colore diverso, ora sono gli anestesisti a riaccendere il dibattito su una questione che, per quanto riguardi un numero piuttosto esiguo di casi, solleva problemi importanti che indirettamente toccano il tema dell’aborto terapeutico e quindi della legge 194. Così oggi dai neonatologi e dai medici anestesisti viene un medesimo giudizio negativo sulle direttive promosse dal Cnb e dal Css: «Nei loro documenti ufficiali – dice Maria Serenella Pignotti – c’è un fatto inaccettabile: vi si legge che i prematuri vanno sempre rianimati se mostrano una parvenza di vita. Così si torna a una situazione che è cinquant’anni indietro rispetto al panorama scientifico internazionale di oggi. All’estero si è molto sviluppata la valutazione medica della prognosi di un paziente. Da noi, invece, si insiste sulla rianimazione, anche quando rischia di essere solo violenza. Senza contare che seguendo il principio “rianimare sempre” non si prende in minima considerazione il parere dei genitori. Così i documenti del Css e del Cnb annullano il problema, dicono: non esiste». Proprio quello che la Carta di Firenze voleva evitare. In quel documento, ricorda Pignotti «individuavamo un gruppo di bambini di bassissima età gestazionale per i quali le terapie intensive risultano inutilmente dolorose. Per questi casi una risposta di buon trattamento può essere la cura palliativa. Con la Carta cercavamo di mettere a punto delle linee guida, volevamo dare risposte scientifiche a quei medici che si trovano a dover prendere decisioni importanti come intubare o meno un bimbo molto prematuro. Ma al tempo stesso cercavamo di rispondere alle speranze, ai dubbi e alle angosce dei genitori. Un bambino che nasce ha diritto alle migliori cure, non possiamo esporlo a rischi di accanimento terapeutico». Ma quand’è che per un prematuro la terapia intensiva è accanimento? «C’è una varietà di situazioni e casi individuali – risponde Pignotti -. Se è femmina, in genere, ha più resistenza di un maschio, così se è meglio nutrito, cose ovvie. Ma ciò su cui tutta la letteratura internazionale concorda è che sotto le 23 settimane non c’è nulla da fare. Si possono solo applicare cure palliative».

Uno studio in via di pubblicazione stilato da Maria Cuttini per il progetto Action ha osservato l’incidenza della prematurità nelle varie regioni d’Italia tra il 2003 e il 2004. Dalla ricerca risulta, per esempio, che in Toscana in 24 mesi sono nati 6 bambini di 22 settimane. Tutti in poco tempo sono morti. Nonostante l’aggressività delle cure. «Di fatto, solo dopo le 24 settimane il feto può essere in grado di vivere fuori dall’utero – precisa la neonatologa dell’ospedale Meyer -. A quel punto ha organi vitali attrezzati, oltre al cuore (che funziona anche nella vita intrauterina), ha polmoni e reni. Ma ancora tra le 22-23 settimane i polmoni non hanno alveoli atti allo scambio di gas. Questo per dire che c’è un limite anatomico biologico ben preciso che non può essere in nessun modo bypassato». A meno che non si preconizzi la costruzione di un utero artificiale che, oggi, è fantascienza. «Sì, c’è chi parla di un futuro per questi bambini al di sotto delle 24-25 settimane, ma a oggi non c’è. Anche con i macchinari – conclude Pignotti – oggi posso aiutare certe funzioni vitali di un prematuro, ma non esistono macchine in grado di vicariare organi tout court». L’età gestazionale (contrariamente a quanto si legge nei documenti di Cnb e Css) è un indice importante nelle mani del medico. «Quello che vale per rene e polmone – spiega Pignotti – riguarda anche la maturazione del sistema nervoso centrale del feto: fra le 22 e le 24 settimane, infatti, cominciano processi di maturazione importantissimi, come la migrazione delle cellule neuronali che nascono e poi migrano nella corteccia. Proprio in quel momento nel feto avvengono alcune di quelle modificazioni che poi lo porteranno a sviluppare, nella sua pienezza, quella cosa meravigliosa che è il sistema nervoso della specie umana.
Purtroppo quale sia l’esatto impatto delle nostre cure intensive su un cervello in via di sviluppo non lo sappiamo esattamente. Fatto è che i bimbi di questa età gestazionale che sopravvivono risultano di frequente segnati da danni neurologici gravissimi».

Anche per Maria Gabriella Gatti,
neonatologa della terapia intensiva di Siena (vedi left n. 35 del 31 agosto 2007) non c’è possibilità di sopravvivenza prima delle 24 settimane, e quando questa avviene è accompagnata da gravi danni neurologici. Inoltre, come la stessa dottoressa ha detto nel convegno “Né assassine né peccatrici” (del 23 febbraio scorso al Palexpo di Roma), nel nato prematuro prima delle 24 settimane il tracciato elettroencefalografico è indifferenziato. «Solo dopo la 24esima settimana – dice la Gatti – uno stimolo porta a un cambiamento qualitativo del tracciato ed è presente una modificazione dell’attività elettrica nell’area della corteccia occipitale in conseguenza della luce che colpisce la retina». Questo dimostrerebbe che la possibilità di vita umana «avviene dopo la 24esima settimana con l’inizio della reattività corticale agli stimoli».

Left 29/08 – 18 luglio 2008

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La legge 40 di nuovo a giudizio

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 1, 2008

Un’ordinanza del giudice civile Isabella Mariani solleva nuovi dubbi di costituzionalità. Ora la parola torna alla Consulta Intanto Scienza e vita vorrebbe imporre alla donna il curator ventris di Simona Maggiorelli

La legge 40 torna a essere sottoposta al giudizio della Corte costituzionale grazie all’ordinanza emessa dal giudice civile di Firenze, Isabella Mariani. Un’ordinanza lunga 35 pagine e che solleva molti e consistenti dubbi di costituzionalità sulla legge 40 a partire da un punto nodale: l’equiparazione che la legge sulla fecondazione assistita stabilisce fra diritti di un astratto concepito e quelli della madre. Equiparazione che cozza in particolare con una importante sentenza del ’75 che stabiliva una gerarchia fra i diritti di chi è persona e quelli di chi persona lo diventerà solo alla nascita, come riconosce il Codice civile. E questa volta in molti, non solo le associazioni dei malati, ma anche medici, operatori, ricercatori sperano che sia davvero la volta buona. Molti i punti che il giudice toscano ha messo in discussione. Riguardano, oltreché il divieto di diagnosi preimpianto (che le linee guida varate dall’ex ministro della Salute, Livia Turco, non hanno pienamente revocato), il numero fisso di embrioni che per legge si possono produrre in vitro (al massimo tre) e l’obbligo di trasferirli tutti in utero, senza che la donna possa revocare il consenso, ma anche il divieto di crioconservazione degli embrioni. Punti talmente qualificanti che se la Consulta desse ragione alle istanze sollevate dal giudice fiorentino, la legge 40 sarebbe ripulita dalla gran parte dei suoi più odiosi e assurdi divieti, restituendo così ai medici la possibilità di scegliere di caso in caso la terapia adeguata. Ma veniamo ai punti salienti di questa storia. La coppia protagonista di questa vicenda è la stessa che, nel dicembre scorso, ricorrendo al tribunale, era riuscita a vedersi riconoscere il diritto alla diagnosi genetica preimpianto in quanto portatrice di una grave malattia genetica ad alta possibilità di trasmissione ai figli. Già allora il giudice Mariani disse che dopo quel risultato necessario nell’immediato alla coppia, si sarebbe riservata di andare più a fondo. E coraggiosamente lo ha fatto. «Ma grande è stata la sorpresa – racconta l’avvocato difensore della coppia, Gianni Baldini – quando all’udienza si è presentato un esponente di Scienza e vita» con la pretesa di costituirsi parte civile e di essere nominato curatore speciale degli embrioni. «Niente meno che il curator ventris di buona memoria del diritto romano – sottolinea Baldini -. Voleva che il giudice togliesse ai genitori la patria potestà sugli embrioni per assumerla lui come curatore speciale evidenziando il conflitto di interesse fra la madre e gli embrioni. Una cosa che non era mai accaduta prima, che ci ha lasciato tutti basiti». Il curator ventris non a caso era quella figura istituzionale nel diritto romano che interveniva quando una donna incinta era senza pater familias e senza marito, perché vedova o altro. «Per il codice dei latini la donna non era cittadina, ma praticamente una schiava e si pensava che il suo ventre necessitasse di un tutore perché non avrebbe certamente saputo gestirlo da sola», chiosa Baldini, docente di Biodiritto all’università di Firenze. Di colpo un salto indietro di più di duemila anni. Che il giudice, per fortuna, ha prontamente respinto, snocciolando ai rappresentanti di Scienza e vita tutte le ragioni strettamente giuridiche per cui non potevano in alcun modo farsi portatori di interessi specifici, né essere legittimati a estromettere i genitori dalla disponibilità sul materiale genetico che essi avevano prodotto, insomma che non potevano in nessun modo essere nominati parte civile. «Che il giudice chiamato a rispondere a Scienza e vita avesse la competenza e la sensibilità della Mariani è stato importante, temo le cose sarebbero andate diversamente se ci fosse stato qualcun altro» si lascia scappare l’avvocato che da tempo segue le cause che riguardano la legge 40 difendendo i diritti negati delle coppie sterili o portatrici di malattie genetiche che si rivolgono all’associazione Madre provetta. E se per la risposta della Corte costituzionale bisognerà aspettare con ogni probabilità fino a inizio 2009, nelle prossime settimane altri casi di coppie che sono ricorse al tribunale arriveranno a giudizio.

Left 31/08

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La trappola della sacralità

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 7, 2008

Flamigni: in nome di un dogma, prematuri malati destinati a una vita da vegetali
di Simona Maggiorelli

«Una forma un po’ attenuata di stupidaggine». Così Carlo Flamigni, ordinario di ginecologia dell’Università di Bologna, stigmatizza il documento del Consiglio superiore di Sanità che si è espresso sull’opportunità di rianimare i feti estremamente prematuri. Dall’organo consultivo del ministero è uscita la raccomandazione a rianimare sempre, ma stando attenti che le terapie non si trasformino in un inutile accanimento. Il Consiglio presieduto da Franco Cuccurullo evita di imporre paletti temporali per l’aborto terapeutico scansando «schematismi troppo rigidi, per restare in linea con la legge 194», e riporta in primo piano il rapporto medico paziente ribadendo che spetta ai medici valutare «eventuali capacità vitali» e se esistono margini di sopravvivenza del prematuro.

«Ma il documento lascia irrisolto il problema dell’esclusione dei genitori da una decisione così delicata, che li riguarda direttamente» obietta Flamigni. «Da un punto di vista umano è una bestialità – dice il professore -. Sul piano legale poi mi chiedo fino a che punto sia corretto. Perché un bambino che nasce, non potendo custodire i propri diritti, immagino debba vederli custoditi dai genitori». Se è vero che la tecnica è andata molto avanti, a tutt’oggi «la stragrande maggioranza di queste cure che si offrono ai prematuri sono sperimentali. E una terapia sperimentale – sottolinea Flamigni – ha sempre bisogno di un consenso informato particolarmente attento e prudente. Il medico non può procedere da solo». Ma se l’intervento del Consiglio offre ancora margini alla discussione, completamente chiuso in un’ottica dogmatica e antiscientifica è invece il documento uscito una settimana fa dal Comitato nazionale di bioetica (Cnb), contro il quale Flamigni sta affilando le armi, insieme a Demetrio Neri e a altri componenti, in aperto dissenso. Le Note bioetiche sul trattamento dei neonati estremamente prematuri, nate “sotto l’egida” di Francesco d’Agostino, infatti, non ammettono zone grigie e respingono ogni possibilità di interruzione di trattamenti anche quando «la vita del neonato dopo le prime cure rianimatorie possa continuare con un handicap dovuto alla sua prematurità, con danni cerebrali». Per contrastare questa visione cattolico oltranzista di un organismo come il Cnb, che è emanazione diretta della presidenza del Consiglio, «abbiamo preparato un documento di critica, di quelli che vengono chiamati codicilli di dissenso – racconta il ginecologo -. I due documenti verranno pubblicati insieme. Anche se purtroppo questi codicilli non li legge mai nessuno». La contestazione più forte rivolta alla maggioranza riguarda l’uso di un concetto astratto di vita. «Il problema della qualità della vita umana, secondo molti di noi, è più importante della sua “sacralità”».

«Io a questa sacralità non credo – precisa Flamigni -. Credo nella qualità della vita e penso quindi che fare sforzi anche economicamente onerosi per salvare un “bambino-pianta” che poi viene mandato a casa di una famiglia che lo coltiverà come un vegetale sia veramente terribile. Ho fatto molte perizie per i tribunali per casi di questo genere, questi bambini, spesso, vengono affidati ai nonni. Sono loro che poi “annaffiano la pianta”». Ma non sempre i nonni ci sono. E per una coppia o per chi è da solo, il peso di una situazione che richiede perlopiù turni e sorveglianze continue può risultare drammatica. «Ma ci sono anche problemi pratici – prosegue Flamigni -. L’Italia è molto varia. Non si possono dare le stesse indicazioni in Lombardia e in Basilicata. C’è anche un fatto economico. Abbiamo pochi soldi e pochi letti di terapia intensiva. Bisogna riempirli con bambini con buone possibilità di uscirne vivi. Se si riempiono con prematuri con gravissimi handicap si perdono quelli che invece si sarebbero salvati. Insomma, questa storia della sacralità della vita è davvero una grossa palla al piede degli italiani. Ce l’ha attaccata il Vaticano mi chiedo:non possiamo davvero cercare di liberarcene?».

Left 10/08

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La truffa della legge 40

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 17, 2006

Due anni di applicazione della legge 40: i primi risultati

di Simona Maggiorelli

Il comitato Scienza e Vita guidato da Paola Binetti (ora candidata della Margherita), come molti ricorderanno fece l’anno scorso una fortissima battaglia pro legge 40. Basata su un preciso assunto: il far west procreativo stava imperversando in Italia, a tutto discapito degli embrioni, cattolicamente considerati sacri e intoccabili. E per scongiurare nonne mamme una produzione di embrioni a fini di ricerca, urgevano severi divieti. Ora, a due anni dall’entrata in vigore della legge sulla fecondazione assistita, i dati pubblicati dall’Istituto superiore di sanità dicono che quel far west paventato era una macroscopica bugia. Non che le associazioni di malati, e ancor più i medici, non l’avessero più volte denunciato, ma la smentita arriva ora con tutti i crismi di ufficialità dal Ministro della Salute. Facendo un po’ di storia tutto parte dal Luglio scorso, quando associazioni come Amica Cicogna, Madre Provetta, Unbambino.it, Cercounbimbo, insieme a altre, hanno cominciato a bussare alle porte del ministero perché, come previsto dalla legge 40 (in uno dei suoi pochi articoli condivisi da maggioranza e opposizione), fosse pubblicato il registro nazionale dei centri italiani di fecondazione assistita. Il ministro, nonostante i molti proclami, ha nicchiato a lungo. Ma ora, come ultimo atto prima delle dimissioni, e con un anno di ritardo rispetto ai tempi stabiliti per legge, ha varato l’atteso registro rendendo pubblici i dati del 2004. E che si scopre? Intanto che la percentuale di successo dei trattamenti, in meno di due anni, è passata dal 29 per cento al 25,3 per cento. Fatto grave per una legge che, come qualsiasi altra in campo sanitario, dovrebbe tutelare la salute dei cittadini, assicurando pratiche mediche sempre più efficaci e ai passo con i tempi. Già nei mesi scorsi Luca Gianaroli, direttore scientifico del Sismer di Bologna, uno dei più Importanti centri di fecondazione assistita, aveva lanciato un allarme: con la legge 40 è in aumento il numero degli aborti. «Non poteva essere altrimenti – denuncia il professore – dal momento che da due anni a questa parte è proibita in Italia la diagnosi preimpianto». E le donne possono ricorrere all’aborto terapeutico solo dopo analisi prenatali come amniocentesi e villocentesi. Ma dal neonato registro (che solo da maggio comincerà a accogliere le informazioni che riguardano il 2005) emerge anche che nel normale trattamento dell’infertilità, oggi in Italia, si ottengono molti meno risultati che in passato. Secondo l’istituto Superiore di sanità, nel 2004, sono nati con fecondazione in vitro circa 150 bambini in meno dell’anno precedente. Ma c’è anche un altro dato interessante: dei 3Omila embrioni congelati in 20 anni, nel 2004 ne restano solo 2.100 abbandonati. Tutti gli altri sono stati scongelati e hanno permesso la nascita di centinaia di bambini. «Sono informazioni molto significative – commenta la ginecologa Anna Pia Ferraretti del Sismer e responsabile per l’Italia del registro europeo di fecondazione assistita -. Confermano il quadro delle informazioni che, a titolo volontario e senza essere obblighi di legge, i centri ci inviavano già prima della nuova norma». Contrariamente a quanto sosteneva la propaganda pro legge 40 in Italia è sempre esistita una sorta di autoregolamentazione da parte dei centri di fecondazione assistita. «Ma ciò non toglie – precisa Ferraretti – che un registro nazionale pubblico e obbligatorio sia un fatto importantissimo. Anche per ricreare quel clima di fiducia verso queste pratiche mediche che in Italia si è andato deteriorando. A Fronte di una richiesta crescente da parte delle coppie, che oggi, come è noto, preferiscono andare all’estero». Un turismo dei diritti che, con il trascorrere dei mesi, mostra aspetti di sempre maggiore ingiustizia sociale. » Una ricerca su un campione di 500 coppie che si sono rivolte alla nostra associazione per avere dei consigli – racconta l’avvocato Filomena Gallo di Amica Cicogna – la dice lunga sulle evoluzioni del fenomeno. Nel 2003 ci chiedevano informazioni su trattamenti di fecondazione, sia eterologa che omologa. L’anno dopo ci chiedevano solo a quali centri stranieri potersi rivolgere. Da un anno, invece, sempre più spesso, le coppie si rivolgono a centri europei anche per quei trattamenti consentiti in Italia, come la fecondazione omologa. Semplicemente perché si sentono più tutelati, dal momento che all’estero è consentito il congelamento e la conservazione degli embrioni». Di pari passo va registrato anche un forte incremento dei prezzi. In un noto centro spagnolo – prosegue l’avvocato Gallo – in media, su 1300 coppie straniere, 350 sono italiane. Ma se un trattamento per una coppia spagnola costa 2mila euro, per una italiana ne costa 3mila». E questo senza contare i costi aggiuntivi per i farmaci. Gli stimolanti ormonali, come le gonadotropine, se prescritte in base a protocolli stranieri, non vengono rimborsate dal sistema sanitario nazionale e le pazienti che fanno i trattamenti all’estero devono pagarle interamente di tasca propria. Ma c’è anche un altro aspetto preoccupante che emerge dal registro dell’Istituto superiore di sanità: i 268 centri di fecondazione assistita riconosciuti dallo Stato, negli ultimi due anni, hanno rallentato molto l’attività. Tanto che, se l’Italia prima dell’entrata in vigore della legge 40 era al quarto posto in Europa per cicli di trattamenti, ora rischia di precipitare agli ultimi posti. L’attività dei centri si fa più sporadica, più frammentata, a tutto svantaggio delle pazienti. Mentre il danno alla ricerca italiana potrebbe trasformarsi presto in un gap profondissimo. E a esprimere una forte preoccupazione, non sono solo gli scienziati italiani, ma anche il coordinatore del registro europeo di fecondazione assistita, il ginecologo scandinavo, Karl Nigren.» La situazione italiana – ha raccontato in un convegno romano organizzato dalla Rosa nel pugno – si distacca in modo sempre più netta dal positivo andamento europeo. Oggi in Europa i trattamenti di fecondazione assistita sono in netta crescita, così come il successo dei risultati. In Scandinava, per esempio, cinque bambini su cento nascono grazie a questi trattamenti. Diversamente che in Italia, dove la legge impone di impiantare fino a tre embrioni, in Europa – continua Nigren – si tende a trasferire sempre meno embrioni, tanto che ormai sono quasi del tutto spariti casi di parti plurigemellari, con meno problemi medici, meno rischi per la salute della donna che, una volta, dopo essersi sottoposta alle terapie, poteva trovarsi davanti allo choc di ritrovarsi con tre o quattro gemelli». Ben consapevoli di questo quadro e di fronte al silenzio assordante della Casa della libertà e dell’Unione, nel cui programma non si è sprecata neanche una riga su questi temi, un gruppo di scienziati – da Anna Pia Ferraretti a Luca Gianaroli del Sismer; da Giulio Cossu del San Raffaele di Milano, a Mirella Parachini del San Filippo Neri di Roma, a responsabili di centri di fecondazione assistita come Francesco Fiorentino, Marco Favara e Mimmo Danza – hanno deciso di rimboccarsi le maniche e di scendere direttamente in politica. Candidati nelle liste della Rosa del pugno promettono di dare battaglia in Parlamento sui temi della ricerca scientifica e per l’abrogazione della legge 40. I Ds , invece, hanno candidato l’unico altro scienziato italiano, il chirurgo Ignazio Marino, che insieme a Vescovi si è cattolicamente schierato in difesa della tutela degli embrioni. Rifiutando, paradossalmente, la candidatura a Carlo Flamigni, pioniere della fecondazione assistita in Italia.

Left Avvenimenti 17 marzo 2006

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Hello Dolly

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 17, 2005

Staminali e clonazione terapeutica. Inghilterra, Belgio e Andalusia le punte avanzate della ricerca. Ma a Bruxelles i conservatori gli fanno guerra

di Simona Maggiorelli

Una distanza siderale sembra essersi aperta ormai fra l’italia e buona parte d’Europa perciò che riguarda la ricerca scientifica. Sul nostro paese grava la zavorra dei divieti alla sperimentazione sugli embrioni, il credo creazionista della ministra Moratti che ha fatto sparire Darwin dai programmi scolastici, pesano i ritardi nell’impiego di farmaci come la pillola abortiva. gli attacchi alla legge sull’aborto che arrivano anche dal comitato nazionale di bioetica che, sotto la guida del professor Francesco D’Agostino, appare come una dépendance della Cei. Ora Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, aspirerebbe a portare sulla stessa linea, cattolica e oltranzista, l’European Group on Ethics (Ege), il comitato di bioetica della Commissione europea del presidente José Manuel Barroso. Casini vi è da poco stato eletto, per il mandato 2005-2009, prendendo il posto dì Stefano Rodota. E già infuriano le polemiche. «Troppo conservatori e senza competenze scientifiche” sono le accuse rivolte da più parti al nuovo organismo. Di fatto l’Ege sarà chiamato a esprimere, su richiesta della Commissione, pareri su questioni etiche nelle scienze e nelle tecnologie. E se è pur vero che in materia di bioetica l’Unione non può legiferare, è facile prevedere che il controllo passerà anche attraverso la concessione dei fondi per la ricerca. In Italia accade già da tempo. In Europa il vento conservatore e cattolico si è tatto sentire con la risoluzione presa. in gran fretta, dalla commissione per bloccare un presunto traffico di ovuli in Romania e con la recente lettera di un centinaio di deputati conservatori e verdi a Barroso perché non finanzi i progetti sulle staminali. E. mentre sì prepara il varo del settimo Piano della ricerca che deciderà le linee Ue dei prossimi anni, e in atto uno scontro fortissimo fra le posizioni oscurantiste di una manciata dì paesi. in testa l’Italia, e la grande apertura alla ricerca biomedica di Inghilterra. Belgio. Spagna e dì altri paesi europei. Per iniziativa dell’associazione Luca Coscioni e dello Sdi Radicali. un importante confronto a più voci su questi temi ha già preso il via la settimana scorsa a Bruxelles. Anche in vista dì un congresso mondiale della ricerca scientifica che si terrà dal 16 febbraio 2006 a Roma. “Le convinzioni religiose non dovrebbero intervenire nelle questioni che riguardano la scienza dice Marco Cappato, presidente della Coscioni -. Eppure assistiamo sempre più a falsificazioni di ipotesi e teorie, alla pretesa di sussumere e imbrigliare una ricerca, per sua natura mobile, dinamica, in un’ideologia. Al punto di arrivare a fare leggi che impediscono ai cittadini accesso alle cure» . E dì una vera urgenza di rendere “transnazionali i valori della speranza e della dignità della uguale dignità di tutti gli individui” parla in un messaggio audiovideo all’assemblea di Bruxelles, Luca Coscioni, il giovane ricercatore universitario che da dieci anni sta combattendo una coraggiosissima battaglia contro la sclerosi laterale amiotrofica. “Essere malato e vivere la politica e la bioetica sulla propria pelle non è cosa facile” dice Coscioni, denunciando “la demagogia politica, quella bassa. bassissima politica che vuol far leva sulla paura e sul senso di colpa e dì peccato”. “Non si possono, per ragioni strumentali – gli fa eco l’inglese Graham Watson, capogruppo dell’Adle, l’alleanza dei liberali e democratici al Parlamento europeo – imporre limiti alla ricerca”. La Carta europea parla esplicitamente di difesa della libertà di ricerca e l’accordo di Lisbona ne prevedeva il finanziamento. Ma i modi per bloccarla possono essere tanti e più indiretti. Basta guardare al conflitto fra il consiglio della Commissione europea e l’Ufficio europeo dei brevetti che spesso hanno espresso posizioni contrastanti. Così anche se una ricerca è stata finanziata, la si può fermare negando ai ricercatori la possibilità di brevettare la propria scoperta. Trasformando uno strumento come il brevetto, nato per tutelare la paternità di una ricerca, in una sorta di cappio per la libertà di ricerca. “E con tutti i contraccolpi che ciò determina sugli investimenti da parte delle aziende – segnala Roberto Defez del Consiglio nazionale delle ricerche – quelle farmaceutiche in particolare, che devono spendere grosse cifre in macchinari e sperimentazioni, per vedersi poi negare la possibilità di brevettare il pro dotto». Ma a questo più o meno subdolo modo di mettere il bastone fra le ruote della ricerca ha. di recente, dichiarato guerra il Belgio, che consente la donazione terapeutica per produrre parti di organi. ma anche la terapia germinale “perché spiega Philippe Monfìs del ministero belga della scienza e dell’economia – con questa tecnica si può intervenire a livello genetico riuscendo a trattare la malattia non solo per il singolo e per i suoi discendenti”. Il Belgio ha dato il via libera, così, a brevetti di biotecnologia germinale. permettendo. per esempio, di brevettare parti del corpo umano e scontrandosi con la direttiva europea del 1998, che invece vieta del tutto questa possibilità. “Ci troviamo in una posizione paradossale spiega Monfis -. possiamo fare ricerca avanzata in terapia germinale, ma poi non possiamo brevettare le scoperte” . E ribadendo gli intenti del governo belga, avverte: “Siamo convinti che quella europea sia una norma ormai superata e che rimetterla in discussione sia utile all’Europa”. Libertà di ricerca a trecentosessanta gradi, precisa il senatore belga Antoine Duquesne, più volte ministro, “ma con alcuni paletti. In Belgio – dice la ricerca deve avvenire in laboratori omologati, sotto il controllo di medici specializzati e di comitati di bioetica composti da altri colleghi scienziati. E per quanto riguarda le tecniche, in accordo con la risoluzione Onu. non è permessa la clonazione umana, né si possono utilizzare embrioni per fini commerciali o intervenire nella selezione di caratteri che non riguardino strettamente la cura di una malattia». I due cardini della ricerca per Duquesne e il suo governo sono la dignità umana e l’autonomia. “Per questo, se fosse possibile – aggiunge – non esiterei a denunciare per omissione di soccorso chi si batte per togliere i finanziamenti a questo tipo di ricerca”. Ma se in Belgio, come del resto in Inghilterra dove è possibile la clonazione terapeutica (fissando al quattordicesimo giorno il termine di sperimentazione sugli embrioni), la ricerca scientifica più avanzata vanta parecchi decenni di storia, la vera sorpresa sulla scena europea degli ultimi anni è rappresentata dall’Andalusia: il sud povero e agricolo della Spagna. di recente, ha avuto il suo riscatto, anche economico, grazie alla scelta lungi mirante di puntare sulla ricerca scientifica. «Da più di venti anni il governo autonomo progressista racconta la ministra andalusa della Sanità Maria Jesus Montero – punta sul welfare e sul sistema sanitario. Il risultato è che oggi abbiamo uno dei più forti e strutturati sistemi di assistenza sanitaria d’Europa, con 1500 centri. 36 ospedali, servizi integrati di emergenza. Ma la parte più viva e produttiva precisa – è il settore di ricerca biomedica, che riguarda la medicina rigenerativa e la clonazione terapeutica. ovvero il trasferimento del nucleo da una cellula all’altra». Senza dimenticare che la prima banca di linee cellulari europea è nata proprio in Andalusia. «Abbiamo anche costretto il governo nazionale a fare una legge più avanzata su questi temi e, quando Zapatero è andato al governo, ha esteso il modello andaluso a tutto il paese creando la prima banca nazionale spagnola di linee cellulari». Un bel salto per la regione che è stata sempre considerata la più arretrata di Spagna: “All’inizio la decisione fu scioccante per una parte della popolazione, ma, nel tempo, ha funzionato bene la comunicazione, il lavoro di informazione che hanno fatto gli scienziati aprendo i laboratori. E ora c’è un patto sociale fortissimo fra chi fa ricerca e chi ha bisogno di cure”.

Avvenimenti – 17 novembre 2005

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