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Archive for Maggio 2009

Il saccheggio dell’archeologia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 23, 2009

Complici le case d’aste e certa politica. 25mila opere ritrovate , un milione di pezzi ricettati, ladri e mercanti che agiscono indisturbati. Le pagine più nere del patrimonio archeologico italiano raccontate da Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira)


di Simona Maggiorelli


maschera di avorio II sec a.C.

maschera di avorio II sec a.C.

«Quale obbligo avevamo di restituire il torso di Mitra di Bassano romano mai dichiarato rubato?» domanda seraficamente la ex curatrice delle collezioni del Getty museum di Los Angeles, Marion True, durante l’udienza dello scorso marzo del processo che a Roma la vede imputata, insieme al mercante d’arte Robert Hecht, per 35 reperti d’arte che l’accusa sostiene essere stati trafugati in Italia e acquistati dal Getty. Fra questi anche il marmo dipinto, detto Trapezophoros del IV secolo a.C.  restituito dal Getty nell’agosto 2007.
Il processo True  ha avuto un’ennesima udienza in questo mese di maggio ma di fatto, a causa della solita lungaggine dei procedimenti giudiziari in Italia, va avanti da anni e non si sa quando  su questa brutta storia si potrà mettere la parola fine. Nel frattempo la domanda della signora True (mentre la dice lunga sulla sua attività di direttrice di museo) riporta in primo piano le gravi falle del sistema di tutela del patrimonio archeologico italiano, di cui si avvantaggiano da sempre tombaroli, mercanti di frodo, collezionisti, case d’aste e perfino importanti musei come hanno rivelato di recente l’affaire Getty e le ammissioni di colpa di musei come il Fine Arts di Boston. Falle, va detto subito, non certo ascrivibili a cattiva volontà e a scarso impegno da parte dei nostri archeologi e storici dell’arte, che ogni giorno fanno salti mortali in soprintendenze territoriali sempre più depauperate di ogni mezzo da parte del governo.

«Il primo strumento di prevenzione dei furti è la catalogazione dei reperti» ricorda utilmente l’ex presidente del Consiglio superiore dei beni culturali Salvatore Settis (mesi fa frettolosamente sostituito dal ministro Bondi). Un rilievo, quello del professore, che in ogni altro Paese europeo suonerebbe ovvio. Non così in Italia, dove – come ricostruisce puntualmente Fabio Isman nel suo I predatori dell’arte perduta (Skira) – dal dopoguerra a oggi hanno agito e agiscono quasi indisturbati ladri, ricettatori e mercanti d’arte “anfibi”, capaci di muoversi altrettanto bene nel mercato nero come nelle alte sfere del mondo ufficiale dell’arte. Grazie a porti franchi di stoccaggio dei reperti in Svizzera e in alcuni altri Paesi compiacenti.

Ma anche e soprattutto grazie alla complicità di grandi case di aste che, così come la mafia fa con i soldi sporchi, danno una nuova identità ai pezzi d’arte di dubbia provenienza, “battendoli” pubblicamente. Di fatto un sistema di riciclaggio, per un giro di soldi da capogiro. Per queste vie, scrive Isman, è avvenuto «un sistematico saccheggio del sottosuolo della penisola», una razzia che «dal 1970 alla metà degli anni 2000 ha coinvolto forse 10mila persone, e milioni di reperti». Un fenomeno che non ha eguali in nessuno Stato occidentale: una depredazione capillare, “di massa” che ha arricchito vari grandi musei al mondo, dagli Usa al Giappone, nonché facoltosi collezionisti italiani, “incoraggiati”, dal 1994 in poi, dalla incultura dell’illegalità sostenuta dai governi Berlusconi con condoni e disegni di legge su archeocondoni e su proposte di vendita o di noleggio di opere conservate nei depositi dei musei. E le cose potrebbero peggiorare ancora se dovesse passare il divieto delle intercettazioni a scopi investigativi proposto dal ministro Alfano. Senza uno strumento di indagine così importante il lavoro dei carabinieri del nucleo di Tutela del patrimonio risulterebbe pressoché impossibile. Senza intercettazioni, per esempio, non si sarebbero potute sventare le frodi di un insospettabile “Mozart”, un anziano signore austriaco che faceva la guida per comitive straniere fra Roma antica e l’Etruria, e nel frattempo radunava «a Linz, dove Hitler voleva fare il suo museo, una collezione di 600 reperti trafugati in Italia». L’operazione Mozart è una delle tante storie di cronaca nera del patrimonio d’arte che attraversano il libro inchiesta di Isman, costruito dal cronista de Il messaggero collazionando una folta messe di documenti e di riscontri. «Ho seguito 15 processi e ho sentito 306 persone coinvolte in processi sul saccheggio del patrimonio culturale degli ultimi decenni», racconta Isman stesso. In alcuni casi si tratta di vicende sottratte allo stillicidio di notizie quotidiane di furti e ritrovamenti per essere ricomposte in quadri organici. In altri casi, come quello clamoroso che riguarda il Getty e i furti di un mercante d’arte come Giacomo Medici, Isman prosegue e completa con piglio da giallista il lavoro di due colleghi, Peter Watson e Cecilia Todeschini, autori di The medici Conspiracy un libro uscito nel 2006 per Public affairs press e stranamente non ancora tradotto in italiano.

da Terra del 26 maggio 2009

Il libro

Il sacco del Belpaese

Pubblicato sul settimanale left: E’ la cronaca di un impressionante saccheggio di siti di primaria importanza. E non parliamo dell’Iraq invaso dalle truppe anglo-americane, né dell’Afghanistan dove i talebani hanno distrutto antiche statue di budda. Parliamo dell’Italia e dei furti di tombaroli che, da generazioni, “lavorano” nel centro sud. Sotto l’occhio indulgente dei clienti del mercato nero dell’arte: da politici firmatari di archeo condoni a direttori di musei come il Getty che, per anni, ha acquistato pezzi di arte trafugati in Italia e “ripuliti” nel giro delle aste. Fabio Isman ne I predatori dell’arte perduta (Skira) scrive che si tratta di un milione gli oggetti trafugati e ricettati. Fra l’inchiesta e il reportage la sua è una ricostruzione appassionata di molte pagine nere della tutela dell’arte. Accanto alle vicende, ai personaggi inquisiti, un utile apparato di rassegne stampa e di documenti dei nuclei di carabinieri specializzati.

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Sui sentieri incrociati di arte e vita

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 22, 2009


A Bergamo due occasioni per conoscere più da vicino l’opera di un grande maestro dell’Arte povera

di Simona Maggiorelli

Kounellis

Kounellis

Capotti abbandonati, disseminati sul pavimento. Sullo sfondo un sordo rullare di tamburo. Nell’ex oratorio di San Lupo quasi una scena teatrale che, insieme alle opere radunate da Annamaria Maggi negli spazi della Galleria Fumagalli di Bergamo, rinnova la memoria di storici allestimenti realizzati dall’artista greco Janis Kounellis negli anni Sesanta, all’epoca in cui nasceva l’Arte povera. Quando dominava il pensiero unico della Pop art con i suoi sgargianti oggetti e le sue apologie del consumismo un gruppo di artisti, tra Torino e Milano, scelse con coraggio la strada di una poetica decantata dall’euforia, puntò su un linguaggio intimo e profondo per raccontare indirettamente i drammi del fascismo, della guerra, ma anche per curare poeticamente le ferite aperte di una società come quella italiana che da povera e contadina d’un tratto si trovava al centro del boom economico. Uscito di prigione dopo la Liberazione fu Mario Merz a dare il la al nuovo movimento con i suoi primi disegni.

Ma presto “il gruppo” dell’Arte povera (che poi in senso stretto gruppo non fu mai) cominciò ad allargarsi. E artisti come Pistoletto, Fabro, Anselmo, Zorio, Paolini e molti altri cominciarono a sviluppare ognuno una propria cifra espressiva a partire da un punto comune: l’uso di materiali poveri come legno, stracci, pietre, ferro, fuoco, terra, scegliendo «la naturalità come matrice esistenziale», ma soprattutto, fuori da ogni artificio, cercando di riavvicinare l’arte e la vita. Nascono così quegli “Atti unici e irripetibili” con cui l’esule Kounellis diventò negli anni Sessanta uno dei protagonisti dell’Arte povera, arrivando a portare dei cavalli in un museo per denunciare la perdita di rapporto fra luoghi di cultura e il flusso vitale, quotidiano, di vita. Da qui sarebbero scaturite performarces come tingersi il volto con il carbone, fino a raggiungere l’inquietante fissità di una maschera, ma sarebbero nate anche le sue installazioni fatte di oggetti, indumenti, tracce che evocano chi non c’è più e nella storia ufficiale non ha avuto voce. Proprio come chi indossò quei cappotti laceri che si fanno materia viva nell’opera site specific realizzata a Bergamo da Kounellis.

Da Terra, 23 maggio 2009

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Kounellis, atto unico irripetibile

di Simona Maggiorelli

Kounellis Biennale di Vnezia

Kounellis, Biennale di Venezia

Dopo la grande retrospettiva al museo Madre di Napoli, la Fondazione Arnoldo Pomodoro ospita, fino all’11 febbraio, Atto unico, un nuovo, importante, allestimento di Jannis Kounellis.
Che qui a Milano torna a giocare con lo spazio e la fisicità del teatro. Richiamando, fin dal titolo, l’idea dell’evento, unico, irripetibile, irriproducibile.Come spesso sono state le opere di questo maestro dell’arte povera, fin da quando, facendo scalpore, all’inizio degli anni Sessanta portò la vitalità ribelle di alcuni cavalli dentro lo spazio museificato di una nota galleria romana.
Qui, nell’enorme spazio vuoto e nel silenzio della Fondazione Pomodoro, invece, Kounellis mette in scena un Atto unico beckettianamente senza parole. Sono le immagini, spesso folgoranti delle opere, che campeggiano sul fondo dell’immensa sala a farsi linguaggio, racconto, attraverso un’articolazione di pieni e di vuoti, di installazioni di grandi dimensioni, d’impronta architettonica che fanno balenare sotto le alte volte della Fondazione il ricordo di alte e robuste colonne, di poderosi frontoni, di vertiginosi labirinti, fra corridoi e fughe di stanze e il ripetersi di triangoli trasparenti come vele. Evocando la memoria di quando Kounellis stesso, giovanissimo, negli anni Cinquanta salpò dalla Grecia, dove è nato, per venire in Italia, a Milano, in particolare, la città che lo ha accolto e dove ha vissuto molti anni.

Ma, come sempre nei progetti di Kounellis non c’è solo la leggerezza del sogno, della poesia, il fascino potente dell’epos, di una tradizione antica, qui evocata da una gigantesca parete piena di libri, quasi una membrana che separa e unisce al mondo esterno. Ma c’è anche la materialità della vita ruvidamente appesa, come tranci di carne di bue, presi dai ganci robusti di una macelleria, richiamando la quotidianità più rozza e insieme un’immagine simbolo del “repertorio iconografico” dell’artista greco, negli anni riproposta in forme diverse, rielaborando il celebre bue squartato di Rembrandt.

E c’è la morte e il rito che accompagna la fine della vita degli esseri umani in una sorta di quadrilatero con al centro il lutto di una macchia nera, come la stilizzazione di una tomba con sopra il colore raggrumato del dolore.
Giocando sempre su un doppio registro: da un lato il fascino evocativo del mito, dei simboli, dei totem dall’altra il pugno allo stomaco e l’immediatezza del realismo più brutale. Fra suggestioni del passato e assoluta modernità.
Come in quella sorta di mostra nella mostra che è accolta nella struttura labirintica che Kounellis ha posto al centro dell’esposizione. Un percorso annodato che fa perdere le coordinate spaziotemporali al visitatore lasciandolo ancora più indifeso di fronte allo stupore di trovarsi davanti a immagini mai viste, opere inedite, accanto a opere che ci riportano al passato dell’artista. Disposte senza un ordine cronologico, con il piacere del gioco, di una meraviglia e di uno stupore infantile, lo stesso, immaginiamo, che Ermanno Olmi racconta di aver scoperto negli occhi di Kounellis quando crea. E il film che il regista ha girato sull’allestimento di questa mostra milanese, creata ad hoc da Jannis Kounellis per la Fondazione Arnaldo Pomodoro, si annuncia già come un’altra opera d’arte.

Da Europa,2007

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Marc Quinn nella casa di Giulietta

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 20, 2009

di Simona Maggiorelli

Marc Quinn, Siren

Marc Quinn, Siren

Siren, ovvero sirena ma anche sfinge e icona dei nostri tempi. L’artista inglese Marc Quinn porta la sua Kate Moss in oro zecchino nella Verona di Giulietta e Romeo invitando gli spettatori a riflettere suoi miti che abitano le nostre vite quotidiane. «La vera Kate Moss e la sua immagine sono state separate e conducono vite diverse» nota l’artista nell’intervista che Jason Shulman gli fatto in occasione della mostra nella città veneta (dal 23 maggio, catalogo Charta).  «La persona Kate – prosegue Quinn – è come la Casa di Giulietta: una persona reale, con una vita vera, e nello stesso tempo un’astrazione. La casa di Giulietta rappresenta un tempio vivente dedicato all’idea dell’amore…».

Forse più della Marilyn seriale di Warhol, la modella inglese che Marc Quinn ha plasmato in posa da contorsionista si presenta come una sorta di totem: bellissima, levigata, ieratica, con un volto sinistro perché senza espressione. Sotto l’oro abbagliante, nessuna traccia di vita. La celebrata Siren di Quinn è uno scintillante e freddo manichino, che evoca una maschera funeraria egizia. (Non a caso Quinn ha dichiarato che la sua opera simbolo è il busto di Nefertiti del museo di Berlino). Del resto, al di là dell’eleganza stilistica e della preziosità dei materiali impiegati, la riflessione sulla bellezza che questo artista della young british art va svolgendo da alcuni anni ha ben poco di rassicurante. Come nella più classica tradizione inglese la bellezza l’opera di Quinn non è mai disgiunta da un pensiero di morte, di malattia, di caducità.

“La carne, la morte, il diavolo” era la triade per eccellenza del Romanticismo inglese, secondo l’anglista Mario Praz. E il discendente di Mary Shelley, Marc Quinn, oggi rilegge quella tradizione, alla luce delle inquietudini, delle paure, dei tabù che percorrono l’oggi. Così nella Casa di Giulietta e sparse per le strade e per le piazze di Verona, ecco un tripudio di piante carnali e sgargianti, mostruosamente belle al punto di sembrare artificiali. Ma nel percorso curato da Danilo Eccher (che a Marc Quinn ha dedicato già una mostra al Macro di Roma), accanto alle opere più à la page non mancano le sculture che ritraggono persone handicappate o menomate, che molto hanno fatto discutere. I famosi marbles con cui Quinn aprì un fortissimo dibattito pubblico a Londra, svelando tutta la violenza nascosta in una certa idea di bellezza classica.

Dal quotidiano Terra 22 maggio 2009

lA NUOVA ENGLISH ART SECONDO MARC QUINN

Marc Queen, sea ice of portofino

Marc Queen, sea ice of portofino

Al Macro di Roma la bellissima Kate Moss è una moderna sfinge contorsionista, ieratica e distante, come sulle pagine patinate dei rotocalchi.La modella inglese transita dalla moda all’arte à la page di Marc Quinn, giovane artista britannico che ha fatto discutere con le sue sculture di focomelici e donne handicappate, cercando di rompere i tabù della bellezza, con una serie di sculture, di torsi e figure intere che ora giacciono disseminati sul pavimento della galleria.Fino al 30 settembre la galleria romana diretta da Danilo Heccher dedica a Quinn la sua prima importante retrospettiva italiana, squadernando quasi una trentina di opere dell’artista londinese che negli anni Novanta aveva attratto l’attenzione internazionale con un’opera provocatoria come Self, un autoritratto in cui l’artista aveva modellato la propria testa utilizzando quattro litri e mezzo del proprio sangue.In mostra a Roma opere degli ultimi dieci anni dell’attività dell’artista inglese, dalle sculture della serie The Complete Marbles a quelle più recenti raccolte sotto il titolo di Chemical Life Support (ritratti di persone che hanno bisogno di medicinali per sopravvivere), ma anche dipinti e disegni , realizzati con diverse tecniche e in diversi registri espressivi.Ma soprattutto, gusto della provocazione ma in veste di apparente naturalismo. Voglia di spiazzare il pubblico, ma mantenendo una declinazione di forme classicheggianti.
Che qui, in confronto con la serie sgargiante di fiori carnali e dai colori accesi che campeggiano in opere fotografiche di Quinn, appaiono come forme marmoree fredde e inerti.La sensazione è che gli umani scolpiti dall’artista inglese, abbiano perso ogni movimento, fisico e interiore, tanto da apparire come calchi di gesso, cadaveri levigati, quasi fossili.E un certo qual accento di necrofilia, anche se in chiave elegiaca e sviluppato con maggiore capacità affabulatoria, è anche quello che si riscontra nelle opere il francese Christian Boltanski, ospitato nella sede del Macro al Mattatoio. Dal soffitto penzolano decine di abiti, la sala è percorsa da luci e suoni, evocando la traccia di chi non c’è più.
Creando una sorta di potente teatro della memoria.

Dal quotidiano Europa, 2006

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La nuova frontiera della bioarte

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 20, 2009


Intellettuali e artisti  in una due giorni di studi per parlare di creatività, scienza e  nuovo ambiente umano

di Simona Maggiorelli

Love difference di Pistoletto

Love difference di Pistoletto

Derrick de Kerckhove, con l’antropologo Marc Augé e l’artista Michelangelo Pistoletto, ideatore alla metà degli anni Sessanta dei primi quadri specchianti nonché della celebre Venere degli stracci, sono fra i protagonisti di una due giorni dedicata alla bioarte, il 22 e 23 maggio nel museo di palazzo Tornielli, a Miasino e Ameno, in provincia di Novara. Con loro, tra gli altri, ci saranno i critici d’arte Massimo Melotti e Francesca Alfano Miglietti ma anche lo studioso di nuovi media Juan Carlos de Martin.

Con il titolo “Futura. Mutamenti e visioni del contemporaneo” prende il via un dialogo fra filosofi, artisti e scienziati per riflettere sugli sviluppi del biotech ma anche delle sue ricadute, nella realtà e in quello che una volta si chiamava “l’immaginario collettivo”. La due giorni di studi, promossa dall’associazione Asilo bianco, ha un obiettivo preciso: mettere in moto la creatività in ogni campo per migliorare la qualità della vita delle persone senza distruggere il paesaggio. Anzi al contrario mettendo l’arte, la creatività ma anche l’innovazione tecnologica “a servizio” del territorio, per il rispetto della natura, ma anche e soprattutto per creare un ambiente più umano. Così se i protagonisti della land art degli anni Settanta costruivano con terra e sassi spirali sulla superficie dei grandi laghi dello Utah oppure sorvolavano lo Yucatan per andare a mettere frammenti di specchio fra gli alberi, oggi i fautori della bioarte utilizzano le scoperte fatte nei laboratori di genetica per far discutere sulle possibilità positive ma anche sui rischi dell’uso indiscriminato della genetica (vedi l’interessante volume Dalla land art alla bioarte, Hopefulmonster).

«Una visione del futuro – spiega il bioartista Paolo Gilardi – non può che nascere da un’analisi delle mutazioni in atto nella contemporaneità. Ma è qui che si presenta la sfida che consiste nel discriminare le tendenze “vincenti”. La ricerca artistica fornisce a questa analisi la “lente” della soggettività ma anche dei bisogni e delle esigenze collettive più profondi». La ricerca della bioarte, così si fa parente stretta della bioetica e della biopolitica mettendo in rete a livello globale tutti quegli artisti che «si interrogano sul rapporto dell’uomo con la natura e prefigurano esperienze esistenziali nuove sul piano dei comportamenti, delle relazioni e della visione euristica del mondo». Un progetto che Gilardi cerca di realizzare anche attraverso il lavoro dell’Art program del Parco d’arte vivente, la nuova istituzione civica di Torino dedicata al rapporto tra arte e natura.

love difference 2E di ricerca artistica “responsabile”, aperta al sociale, parla anche l’artista Michelangelo Pistoletto, con il progetto Love difference, realizzato a più mani con altri artisti e con una associazione no profit nata proprio per «stimolare il dialogo tra le persone che appartengono a diversi background culturali, politici o religiosi». Un progetto che nella Biennale di Venezia del 2005 sfociò nel progetto Terzo Paradiso. «Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo frangente epocale. Significa – spiega Pistoletto – il passaggio a un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza».

da Terra del 20 maggio 2009

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Monet e il paesaggio interiore

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 18, 2009

Un bagno di verde e di azzurro, fra riflessi di luce.   I capolavori del pittore francese

di Simona Maggiorelli

Monet,Impression, soleil levant

Monet,Impression, soleil levant

Tutti discutono la mia arte e affermano di comprenderla come se fosse necessario comprendere, quando invece basterebbe amare», scriveva Claude Monet. E come un tuffo nella sua pittura più creativa è concepita la retrospettiva che fino al 27 settembre gli dedica il Comune di Milano con venti opere provenienti dal museo Marmottan di Parigi. Soprattutto opere degli ultimi anni, quando Monet tentò un superamento dell’impressionismo approdando a una progressiva dissoluzione della forma, grazie all’uso libero del colore.
E un bagno di verde e d’azzurro, in acque calme, fra riflessi di luce, è l’avvolgente visione che accoglie lo spettatore nelle sale di Palazzo Reale in un continuum di scorci e di viste su giardino: l’amatissimo giardino di Giverny, coltivato dal pittore stesso come una sinfonia di colori. Di fatto un appassionato sguardo sulla natura connotò non solo gli anni 1887-1923 (periodo su cui si concentra la mostra milanese) ma tutta la parabola artistica di Monet, che più dei suoi colleghi Renoir, Pissarro, Sisley e Caillebotte, seppe trasformare la pittura di paesaggio, da descrizione oggettiva della realtà, in visione intima e personale. Arrivando fino a farne la trascrizione del proprio vissuto interiore. Una “magnifica ossessione” per paesaggi acquatici e riflessi che, come dirà lo stesso Monet «è una cosa che va al di là delle mie forze di vecchio», catturandolo in una irrinunciabile sfida nel «riuscire a rendere ciò che sento». E se già qualche anno fa la rassegna Monet e le ninfee di Goldin a Brescia aveva offerto spunti su questo tema, la mostra Monet e il Giappone. Il tempo delle ninfee, curata da Beltramo Ceppi ora offre la possibilità di completare la ricerca, esponendo accanto a tele di Monet antiche stampe giapponesi di Hiroshige e Hokusai: due maestri del paesaggio (e non solo) che furono una importante fonte di ispirazione per il pittore francese.

Terra, 2009

Monet, La senna le ninfee

di Simona Maggiorelli

monet ninfee

monet ninfee

Un bagno di verde e d’azzurro, in acque calme, fra riflessi di luce, in angoli riparati dalle fronde. E’ la quieta e avvolgente visione di Claude Monet che si dipana nella  mostra curata da Marco Goldin nel complesso di Santa Giulia a Brescia. Sulle pareti delle otto sale del museo un continuum di scorci e di viste sul fiume: l’amatissima Senna. Uno sguardo costante su una natura apparentemente immobile, sempre uguale a se stessa, quello del grande maestro impressionista che, più dei suoi colleghi Renoir, Pissarro, Sisley e Caillebotte, seppe trasformare la pittura di paesaggio, da trascrizione oggettiva della realtà che si propone allo sguardo secondo le regole della mimesis, in visione intima e personale. Arrivando a farne la trascrizione del proprio vissuto interiore rispetto al passaggio. Un elemento panico, una magnifica ossessione per paesaggi acquatici e riflessi che, come dirà lo stesso Monet già avanti negli anni “è una cosa che va al di là delle mie forze di vecchio”, catturandolo in una irrinunciabile sfida nel “riuscire a rendere ciò che sento”. Un’ossessione che durerà fin quasi alla morte del pittore avvenuta nel 1926 a 86 anni. Un’attrazione fatale che la mostra bresciana ripercorre come una sorta di viaggio, raccontandone la genesi in un ampio capitolo iniziale che squaderna dieci dipinti di Corot e Daubigny come punto di partenza dell’impressionismo sul tema della Senna, per arrivare poi all’ultimo viaggio a Pourville in Normandia dove Monet, compie l’ultimo passaggio: dalla pittura impressionista en plain air ,che egli stesso aveva contribuito a inventare, al ritorno nel chiuso dell’atelier, come luogo riparato dove continuare a distillare la propria visione. Dalla Normandia, dove non aveva potuto ritrovare gli amici del suo primo viaggio, (Paul Graff e sua moglie, gli albergatori che lo avevano accolto dodici anni prima nel frattempo erano morti), Monet se ne partì con una serie di tele non finite che rappresentavano scogliere a picco sul mare, scorci di acque in tempesta, cangianti sotto i riflessi della luce e battute dal vento. Tele che, solo una volta rientrato nel suo buen retiro di Giverny, Monet riuscì a completare, con quel particolarissimo stile di rarefazione, quasi si direbbe, di erosione e progressiva dissoluzione della visione, che caratterizzò i suoi ultimi anni, quando la sua pittura appariva sempre più come un dolce e lento inabissarsi in un mare avvolto da una sottile nebbia, appannato, sempre più pallido e evanescente. A questa evoluzione finale e sottilmente inquietante dello sguardo del maestro francese la mostra Monet. I luoghi della pittura. La Senna, le ninfee, dedica ampio spazio, con prestiti da collezioni pubbliche e private , da ogni parte del mondo. Ma più che il mare, come recita il sottotitolo della mostra, è la Senna l’indiscussa protagonista dell’immaginario di Monet. Lungo la Senna il pittore trascorse gran parte della sua vita e il fiume gli ispirò quasi trecento dipinti. A cominciare dagli anni Sessanta, quando Monet faceva i suoi primi esercizi di pittura alla Grenouillère, “lo stagno delle rane”, un ristorante con spiaggia sulla Senna, dove per la prima volta sviluppava una pittura fatta di rapidi tratti e puntini per catturare la luce, lo scintillio dell’atmosfera, il movimento dell’acqua, i gesti dei bagnanti. (Esperimenti che la mostra bresciana documenta, tra l’altro, facendo venire da Forth Worth il primo dipinto accettato dal Salon del 1865). Erano quadri squillanti di colori, vivaci bozzetti di costume che raccontavano i giorni di festa della borghesia parigina, ma ancora molto tradizionali, legati a uno sguardo esteriore. Alle ultime visioni della Senna, invece, Monet chiede molto di più, chiede di andare oltre la cronaca, la descrizione (ormai esisteva la fotografia), per restituire sulla tela una visione interiore di fronte al paesaggio, un sentire che era sempre più di rallentata malinconia, qualcuno direbbe, di sottile depressione. “Ho sempre avuto orrore delle teorie – scriverà Monet nel 1926 in una lettera a Evan Charteries – Non ho altro merito che aver dipinto direttamente dalla natura cercando di rendere le mie impressioni di fronte agli effetti più fuggevoli. E mi dispiace di essere stato all’origine del nome che è stato dato a un gruppo di artisti che per la maggior parte non avevano nulla di impressionista”. Ma questo sarà materia per un’altra mostra del prolifico Goldin che, da qui al 2008, ha in programma una tetralogia di iniziative bresciane, fra le quali svetta un interessante confronto fra Gauguin e Van Gogh e un viaggio nell’universo coloristico dei Fauves e dell’espressionismo.

da Europa 3 novembre 2004

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Gli antidisegni di un maestro

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 15, 2009

Alla Fondazione Pomodoro di Milano , un percorso dedicato all’opera grafica di Lucio Fontana

Lucio Fontana, nudo di donna

Lucio Fontana, nudo di donna

Geniale scultore, innovatore in pittura con la serie dei tagli e dei buchi  che aprivano il quadro a una spazialità interna e nuova, l’opera grafica  di Lucio Fontana non ha mai avuto  una debita attenzione da parte della critica d’arte. Ma ora una mostra alla Fondazione Pomodoro di Milano invita a riconsiderare in particolare l’uso che l’artista italo-argentino faceva del disegno. O meglio dell’«antidisegno», come  chiamava lui stesso,  quell’attività che faceva in punta di matita,  a volte con il solo lapis, altre volte con matite a colori e pennarelli.  Ma sempre con  quel piglio antiaccademico che lo distingueva. Tracciati in modo rapido, nervoso, spesso i disegni di Fontana  hanno un’aria evocativa, di non finito.

Non appena  un’idea o un’intuizione sulla carta prendeva una sua forma e una identità veniva subito abbandonata, seguendo la spinta di una ricerca continua che lo portava sempre verso il nuovo. «I disegni di Fontana danno forma alla tensione emotiva dell’artista, fissano la folgorazione di un’idea e la rendono palpitante ma senza mai diventare progetto per un’opera precisa» nota lo scultore Arnaldo Pomodoro che accanto a Fontana, giovanissimo, mosse i suoi primi passi nel mondo dell’arte».

Quasi per onorare un debito di gratitudine Pomodoro ha voluto fortemente questa esposizione che – grazie ad alcuni prestiti del Csac di Parma – riunisce la maggior parte dei disegni realizzati da Fontana dagli anni Quaranta agli anni Sessanta. Con alcuni interessanti inediti, mai prima esposti e mostrati pubblico. Fontana stesso del resto non aveva mai pensato a raccoglierli e presentarli in una mostra, considerando questa parte della sua opera come marginale rispetto alla sua attività di scultore, di pittore e di creatore di quelle che oggi chiameremmo installazioni. Ma a dispetto della scarsa considerazione che dedicava a questi disegni il loro stesso autore, e ancor più a dispetto del giudizio sferzante che ne dette Giulio Carlo Argan stigmatizzando l’opera grafica di Fontana come fredda, distaccata e inerte, quella che si para alla vista – scorrendo le immagini pubblicate dal catalogo edito dalla Fondazione Pomodoro – è invece il percorso di una originale ribellione al disegno d’accademia, a quelle immagini che a Fontana parevano «inchiodate, senza indizi di vitalità», senza movimento. Come Fontana stesso scrisse nel Manifesto blanco del 1946: «E’ necessaria un’arte maggiore in accordo con le esigenze dello spirito nuovo… L’arte nuova non prende i suoi elementi dalla natura… Il cambiamento è la condizione essenziale dell’esistenza. Il movimento è nello spazio e nel tempo, la proprietà di evolversi e svilupparsi è la condizione base della materia…».

Da left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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La scelta di Rebiya

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 8, 2009


Perseguitata in Cina per la sua lotta non violenta in nome dei diritti umani, la coraggiosa leader dello Xinjiang si racconta.

di Simona Maggiorelli

Kadeer foto2 copyright of the World Uyghur Congress

Rebiya Kadeer

«Sono contro la violenza. In qualunque forma. Da qualunque parte provenga. Quello degli Uiguri è un popolo pacifico. Noi oggi chiediamo con forza il rispetto dei diritti umani. Vogliamo avere libertà di parola. Vogliamo che la nostra lingua e la nostra cultura non siano cancellate nella nostra terra, il Turkestan orientale, la regione che i cinesi chiamano Xinjiang». Con queste parole, pronunciate con voce ferma e gentile, Rebiya Kadeer si presenta al nostro incontro. Nella sala da tè di un noto albergo romano frequentato da intellettuali e scrittori, la rappresentante del popolo uiguro, più volte candidata al Nobel, non si guarda intorno; ha un’urgenza: far sapere dell’oppressione che la sua gente subisce da parte del governo cinese nella vasta regione dello Xinjiang, vasta regione nel cuore dell’Asia . Con sguardo vivo e grande attenzione verso le persone con cui parla, Rebiya continua così il suo racconto: «La situazione di diritti umani da noi è andata peggiorando, specie dall’estate scorsa».La Cina ha approfittato dei giochi olimpici per un nuovo giro di vite. «Il governo cinese – spiega Kadeer – ha lanciato in tutto il mondo immagini televisive di propaganda mostrando alcuni Uiguri fra coloro che portavano la torcia olimpica. Questo per nascondere il reale stato delle cose, ovvero che 15mila persone sono state tacciate di terrorismo e fatte prigioniere per aver partecipato a manifestazioni pacifiche in favore del nostro popolo. Il terrorismo internazionale purtroppo esiste – prosegue – ma non ha niente a che fare con noi. Il nostro Islam è diverso e non contiene idee di jihad o fondamentaliste». Come la coraggiosa attivista per i diritti umani racconta nel libro La guerriera gentile (edito da Corbaccio, in libreria dal 7 maggio) il popolo uiguro ha sviluppato una propria cultura, fin dalle radici piuttosto laica. Dal decimo secolo in poi, su questa base, gli Uiguri hanno sviluppato «un proprio Islam» sunnita, che sussume e trasforma influenze esterne e substrati autoctoni, in primis la tradizione sciamanica. La via della seta per secoli non è stata solo un’arteria di scambi commerciali ma, per i viaggiatori, anche luogo di incontro di filosofie e culture. Così il popolo uiguro, discendente da un’etnia nomade di origine turca, nei secoli, ha potuto realizzare un’identità indipendente, mantenendo rapporti di osmosi con i popoli vicini, specie sul versante russo.
Negli anni Cinquanta Mao siglò un patto con Stalin, per lo sfruttamento congiunto delle grandi risorse naturali della regione dello Xinjiang, ma «finalmente nel 1955 – ricorda Kadeer che allora aveva solo sette anni – la Cina ci promise di ridarci i nostri diritti. La vostra regione, ci dissero, da ora in poi si chiamerà regione autonoma Uigura». Peccato che il diritto all’autodeterminazione del popolo uiguro riconosciuto sulla carta e scritto nelle leggi cinesi, non sia mai stato rispettato da chi aveva scritto quelle norme. Cominciarono così già negli anni Sessanta massicce deportazioni di Uiguri verso altre aree della Cina, mentre sempre più cinesi salivano ai posti di comando in Xinjiang. Durante la rivoluzione culturale gran parte dei libri della tradizione uigura più antica furono bruciati, mentre ai bambini del Turkestan orientale, fin da allora si nega ogni possibilità di studiare a scuola, insieme al cinese anche la propria lingua, la propria letteratura e musica. «Con la scusa di evitare problemi di separatismo e di terrorismo, di fatto – rivela Rebiya Kadeer – nelle scuole cinesi ai nostri bambini viene fatto una sorta di lavaggio del cervello». Dopo l’attentato alle Torri gemelle, la lotta al terrorismo internazionale è stata la scusa con cui il governo cinese ha ordinato nuovi roghi di libri di storia e di cultura uigura, mentre «i maggiori
intellettuali e scrittori uiguri sono stati imprigionati». E se la diaspora degli uiguri fuggiti all’estero ha permesso comunque la conservazione di parte dei testi della tradizione in Giappone, negli Stati Uniti e in altri paesi del mondo, dal 2001 per impedire che gli Uiguri potessero parlare all’estero della propria causa «lo Stato cinese ha tolto loro i passaporti».Ma la situazione più critica per i dirittiumani in Xinjiang è quella che si riscontra nelle carceri, come Amnesty international e altre organizzazioni internazionali hanno più volte denunciato, ma senza avere risposta dalle autorità cinesi. «In prigione ti costringono a parlare con minacce e torture e tutto ciò che dici viene registrato. Spesso ti fanno spogliare completamente per vedere se nascondi qualcosa. Ma soprattutto – denuncia Rebiya Kadeer – applicano torture feroci, strappano le unghie e torturano i genitali, usando la corrente elettrica». Una realtà quella delle carceri cinesi in Xinjiang che Kadeer, purtroppo, conosce per esperienza diretta. Dopo essere stata indicata a modello dai politici cinesi come imprenditrice e dopo essere stata eletta nell’Assemblea del popolo, la donna è stata accusata di aver tradito segreti di Stato. Il pretesto sono stati alcuni ritagli di giornale sulla condizione del popolo uiguro inviati da Rebiya Kadeer al marito Sidik, poeta e intellettuale uiguro esule negli Usa. Dopo sei anni di reclusione, molti dei quali trascorsi in isolamento e in durissimi campi di rieducazione dove si lavora fino a perdere i sensi, Rebiya Kadeer è stata liberata nel 2005, grazie
a una forte campagna internazionale. Ma ancora oggi tre dei suoi figli sono in prigione nel Turkestan orientale e, per ricattare lei e il marito e fermare la loro battaglia, vengono torturati. Quando era già in esilio volontario negli Stati Uniti Rebiya ha subito un grave attentato e oggi è di nuovo “al centro dell’attenzione” dei servizi segreti cinesi, non solo per la sua intensa attività politica a favore del popolo uiguro, ma anche per questo suo nuovo libro, pubblicato già da qualche tempo in Germania e negli Usa, e ora tradotto in italiano. Una autobiografia forte e coraggiosa, scritto con linguaggio a tratti quasi poetico, ma in cui l’autrice lancia nette e pesanti accuse al governo cinese. Accuse a cui l’establishment politico di Pechino ha risposto accusandola di aver scritto solo menzogne. Ma Rebiya che nella vita ha affrontato situazioni durissime, dovendo più volte ricominciare tutto da capo,
non si arrende e non intende recedere di un millimetro. Dopo aver sperimentato la povertà estrema da bambina nei villaggi di montagna del Turkestan e la ricchezza conquistata come imprenditrice di successo, la schiavitù di sposa bambina e la passione per un uomo a lungo cercato e sognato, una vita libera e indipendente e la deprivazione sensoriale della cella di isolamento, a 62 anni Rebiya Kadeer non accetterebbe di rinunciare alla propria battaglia non violenta per la liberazione del suo popolo. «La Cina non riconoscerà l’indipendenza del Turkestan orientale, di questo sono consapevole. Ma qui non si tratta di fare una battaglia separatista, quanto di fermare la violenza che la Cina esercitasugli uiguri. È un fatto basilare che riguarda i diritti umani».
«Le donne, si dice, dovrebbero obbedire» accenna a un certo punto del libro Siddik, il marito di Rebiya scherzosamente. E poi aggiunge: «Lei non l’ha fatto. Per questo è potuta diventare quello che è». E in questa lunga battaglia per la fine dell’oppressione cinese sugli Uiguri  Siddik le è stato il primo alleato. «Un uomo e una donna si possono incontrare e possono creare una relazione d’amore che può portare a realizzare qualcosa di nuovo» ci dice Rebiya sorridendo. Poi prima di salutarci, aggiunge:”  Mi permetta di fare un ringraziamento. Vorrei dire grazie al Partito Radicale. Perché è grazie al lavoro politico dei Radicali se sono potuta andare al Parlamento europeo e denunciare la violazione dei diritti umani in Turkestan”.

da left-Avvenimenti, 8 maggio 2009

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Classici del futuro

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 1, 2009

di Simona Maggiorelli

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Fontana, attese

E se quel taglio netto e vitale che attraversa la tela Concetto spaziale attesa di Lucio Fontana non fosse solo un gesto di rottura, ma una ricreazione di antiche forme d’arte orientale basate sulla linea e sulla scrittura? Oppure andando ancora più a fondo un taglio su sfondo rosso che evoca un’immagine di donna?

E che dire di quel Sacco di Burri, opera scandalo negli anni Cinquanta e che oggi ci appare piuttosto come una armoniosa composizione di pezzi di juta, colore rosso puro e catrame?  «Ogni epoca per trovare identità e forza ha inventato un’idea diversa di classico» suggerisce Salvatore Settis nel suo Il futuro del classico (Einaudi).Ma se con il professore possiamo certo dire che un’opera non nasce mai del tutto avulsa dalla storia, ma sempre in dialettica con capolavori del passato (come modello da reinterpretare oppure come ostacolo da abbattere) è anche vero che una buona parte dell’arte oggi sembra essere il prodotto di un annullamento totale della tradizione. Astratta o figurativa che sia. In questo senso basta pensare a certa avanguardia iper- razionalistica che trova un esempio estremo nelle cloache meccaniche del belga Wim Delvoye. Oppure nella Body art che mette in scena interventi di estetica chirurgica.  Ma qui il discorso sarebbe lungo.

E sta di fatto che nel costruire la mostra Costanti del classico nell’arte del XX e del XXI secolo il curatore Bruno Corà, fin dal titolo, fa una precisa scelta di campo, lasciando fuori dalla porta questi spicchi di contemporaneità per rivolgere la sua attenzione  a modi più alti di reinterpretare il passato. Nel restaurato Palazzo Valle di Catania ( fino al 29 giugno, catalogo Silvana editoriale),

Rothko, Nr.16

Rothko, Nr.16

s’incontra una serie straordinaria di opere, in un percorso che talora riesce a suggerire rapporti inediti fra autori di diversa provenienza. Accanto ai due capolavori di Fontana e Burri a cui accennavamo, sono esposte sculture di Brancusi che riprendono la statuaria classica in forme via via sempre più suggestive e essenziali, ma anche esili figure di Giacometti che evocano stilizzate immagini primitive. E se alcuni artisti dell’Arte povera come Giulio Paolini hanno scelto la strada di citazioni esplicite dal passato o quella della sua attualizzazione (vedi la Venere degli stracci di Pistoletto), più interessanti sono le sezioni della mostra dove sono esplorati nessi meno scontati con la tradizione pittorica. Specie là dove Corà si occupa di artisti che hanno fortemente innovato l’uso del colore. Ecco allora tele di Matisse che reinventano l’uso del colore puro, insieme a già classici esempi di uso timbrico della tavolozza firmati Malevich e Kandinsky.  Sul versante di un uso tonale del colore, invece, ecco un’opera chiave di Rothko come Nr.16 (1961): Chiaroscuro, profondità, movimento sono espressioni che il pittore russo americano riusciva a ottenere attraverso modulazioni di colore, rileggendo in modo originale la tradizione che comincia con lo sfumato leonardesco. Modulazioni che nella pittura di Rothko possono toccare gli effetti più vibranti ma possono anche arrivare ad annullarsi nel grigio e nero di un cupo allunaggio finale, come accadrà poco prima del suicidio dell’artista.

Qui, nell’opera scelta da Corà per la mostra, siamo ancora in una fase aperta alla ricerca, anche se con sempre maggiore insistenza negli scritti Rothko parla di morte e torna sulla centralità della tragedia classica e sulla interpretazione che ne dette Nietzsche ne La nascita della tragedia. La tela Nr.16, di fatto presenta un classico schema tripartito per rappresentare «una scala dei sentimenti umani» ci ricorda il curatore Bruno Corà. «I miei dipinti attuali – scriveva Rothko- hanno a che fare con il dramma umano, per quanto riesca a dipingerlo».

da Left- Avvenimenti 1 maggio 2009

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