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Sui sentieri incrociati di arte e vita

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 22, 2009


A Bergamo due occasioni per conoscere più da vicino l’opera di un grande maestro dell’Arte povera

di Simona Maggiorelli

Kounellis

Kounellis

Capotti abbandonati, disseminati sul pavimento. Sullo sfondo un sordo rullare di tamburo. Nell’ex oratorio di San Lupo quasi una scena teatrale che, insieme alle opere radunate da Annamaria Maggi negli spazi della Galleria Fumagalli di Bergamo, rinnova la memoria di storici allestimenti realizzati dall’artista greco Janis Kounellis negli anni Sesanta, all’epoca in cui nasceva l’Arte povera. Quando dominava il pensiero unico della Pop art con i suoi sgargianti oggetti e le sue apologie del consumismo un gruppo di artisti, tra Torino e Milano, scelse con coraggio la strada di una poetica decantata dall’euforia, puntò su un linguaggio intimo e profondo per raccontare indirettamente i drammi del fascismo, della guerra, ma anche per curare poeticamente le ferite aperte di una società come quella italiana che da povera e contadina d’un tratto si trovava al centro del boom economico. Uscito di prigione dopo la Liberazione fu Mario Merz a dare il la al nuovo movimento con i suoi primi disegni.

Ma presto “il gruppo” dell’Arte povera (che poi in senso stretto gruppo non fu mai) cominciò ad allargarsi. E artisti come Pistoletto, Fabro, Anselmo, Zorio, Paolini e molti altri cominciarono a sviluppare ognuno una propria cifra espressiva a partire da un punto comune: l’uso di materiali poveri come legno, stracci, pietre, ferro, fuoco, terra, scegliendo «la naturalità come matrice esistenziale», ma soprattutto, fuori da ogni artificio, cercando di riavvicinare l’arte e la vita. Nascono così quegli “Atti unici e irripetibili” con cui l’esule Kounellis diventò negli anni Sessanta uno dei protagonisti dell’Arte povera, arrivando a portare dei cavalli in un museo per denunciare la perdita di rapporto fra luoghi di cultura e il flusso vitale, quotidiano, di vita. Da qui sarebbero scaturite performarces come tingersi il volto con il carbone, fino a raggiungere l’inquietante fissità di una maschera, ma sarebbero nate anche le sue installazioni fatte di oggetti, indumenti, tracce che evocano chi non c’è più e nella storia ufficiale non ha avuto voce. Proprio come chi indossò quei cappotti laceri che si fanno materia viva nell’opera site specific realizzata a Bergamo da Kounellis.

Da Terra, 23 maggio 2009

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Kounellis, atto unico irripetibile

di Simona Maggiorelli

Kounellis Biennale di Vnezia

Kounellis, Biennale di Venezia

Dopo la grande retrospettiva al museo Madre di Napoli, la Fondazione Arnoldo Pomodoro ospita, fino all’11 febbraio, Atto unico, un nuovo, importante, allestimento di Jannis Kounellis.
Che qui a Milano torna a giocare con lo spazio e la fisicità del teatro. Richiamando, fin dal titolo, l’idea dell’evento, unico, irripetibile, irriproducibile.Come spesso sono state le opere di questo maestro dell’arte povera, fin da quando, facendo scalpore, all’inizio degli anni Sessanta portò la vitalità ribelle di alcuni cavalli dentro lo spazio museificato di una nota galleria romana.
Qui, nell’enorme spazio vuoto e nel silenzio della Fondazione Pomodoro, invece, Kounellis mette in scena un Atto unico beckettianamente senza parole. Sono le immagini, spesso folgoranti delle opere, che campeggiano sul fondo dell’immensa sala a farsi linguaggio, racconto, attraverso un’articolazione di pieni e di vuoti, di installazioni di grandi dimensioni, d’impronta architettonica che fanno balenare sotto le alte volte della Fondazione il ricordo di alte e robuste colonne, di poderosi frontoni, di vertiginosi labirinti, fra corridoi e fughe di stanze e il ripetersi di triangoli trasparenti come vele. Evocando la memoria di quando Kounellis stesso, giovanissimo, negli anni Cinquanta salpò dalla Grecia, dove è nato, per venire in Italia, a Milano, in particolare, la città che lo ha accolto e dove ha vissuto molti anni.

Ma, come sempre nei progetti di Kounellis non c’è solo la leggerezza del sogno, della poesia, il fascino potente dell’epos, di una tradizione antica, qui evocata da una gigantesca parete piena di libri, quasi una membrana che separa e unisce al mondo esterno. Ma c’è anche la materialità della vita ruvidamente appesa, come tranci di carne di bue, presi dai ganci robusti di una macelleria, richiamando la quotidianità più rozza e insieme un’immagine simbolo del “repertorio iconografico” dell’artista greco, negli anni riproposta in forme diverse, rielaborando il celebre bue squartato di Rembrandt.

E c’è la morte e il rito che accompagna la fine della vita degli esseri umani in una sorta di quadrilatero con al centro il lutto di una macchia nera, come la stilizzazione di una tomba con sopra il colore raggrumato del dolore.
Giocando sempre su un doppio registro: da un lato il fascino evocativo del mito, dei simboli, dei totem dall’altra il pugno allo stomaco e l’immediatezza del realismo più brutale. Fra suggestioni del passato e assoluta modernità.
Come in quella sorta di mostra nella mostra che è accolta nella struttura labirintica che Kounellis ha posto al centro dell’esposizione. Un percorso annodato che fa perdere le coordinate spaziotemporali al visitatore lasciandolo ancora più indifeso di fronte allo stupore di trovarsi davanti a immagini mai viste, opere inedite, accanto a opere che ci riportano al passato dell’artista. Disposte senza un ordine cronologico, con il piacere del gioco, di una meraviglia e di uno stupore infantile, lo stesso, immaginiamo, che Ermanno Olmi racconta di aver scoperto negli occhi di Kounellis quando crea. E il film che il regista ha girato sull’allestimento di questa mostra milanese, creata ad hoc da Jannis Kounellis per la Fondazione Arnaldo Pomodoro, si annuncia già come un’altra opera d’arte.

Da Europa,2007

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