Il lato ”oscuro” della Pop art e del suo guru. Nel diario America e in una serie di interviste edite Hopefulmonster
di Simona Maggiorelli

Andy Warhol versione dada
Oggi è ancora uno degli artisti che riscuotono più successo alle aste, fra i più pagati. Le sue Marilyn seriali, sgargianti e inespressive come una lattina di zuppa Campbell’s, si trovano disseminate nei musei di mezzo mondo. Mentre gli artisti che frequentarono la sua factory – a cominciare da Basquiat – sono celebrati come eroi tragici di una genialità naufragata nella droga e nell’autodistruzione. Ora, trascorsi più di vent’anni dalla scomparsa di Andy Warhol, mentre la Pop art è entrata nei manuali, star internazionali come Francesco Vezzoli e Damien Hirst ne rilanciano l’estetica piatta, commerciale, nihilista.
E mentre si potrebbero dire molte cose sui danni prodotti dalla «Business art» di Warhol che annullava ogni differenza fra artista e imprenditore, due interessanti volumi ci invitano a riconsiderare e a conoscere più da vicino la personalità di Andy Warhol. Parliamo del diario per parole e immagini America che il padre della Pop art pubblicò nel 1985 e che ora Donzelli (per la prima volta) pubblica in Italia, ma anche delle interviste che Alain Cueff ha raccolto sotto il titolo emblematico Sarò il tuo specchio (Hopefulmonster). Un volume che ha il merito di proporre interviste inedite accanto a pezzi celebri come My true story (1966) in cui Warhol diceva di se stesso:«Se volete sapere tutto di Andy Warhol vi basta guardare la superficie: dei miei quadri, dei miei film e della mia persona, ed è lì che sono io. Dietro non c’è niente». Per poi aggiungere: «Non percepisco il mio ruolo di artista riconosciuto in alcun modo come precario, i mutamenti di tendenza nell’arte non mi spaventano. Non fa davvero alcuna differenza, se senti di non avere nulla da perdere».
Qui e nei passaggi seguenti si trova sussunta tutta la filosofia di Warhol fatta di esaltazione del consumismo e di apologia del vuoto. E il discorso si fa ancora più chiaro e, per molti versi, impressionante per la sua palese stolidità nelle pagine di America. «Mai come in questo diario si registra l’obliterazione della prassi artistica» nota Andrea Mecacci nell’introduzione del libro edito da Donzelli. In questo libro, spiega, «non si parla di arte perché, semplicemente, non c’è più arte. Questa assenza non solo testimonia l’apatia di una estetizzazione quasi bulimica, che nell’epoca Reagan era diventata caricaturale, ma annoda Warhol al problema centrale dell’arte contemporanea: la consapevolezza della sua mercificazione, della sua “provvisoria” morte». Ma dalle pagine di questo diario emerge anche qualcosa di altro e di più inquietante: mente Warhol esaltava la merce, faceva della bellezza fisica un feticcio. E persone come il modello Paul Johnson, che Warhol ribattezzò non a caso Paul America, ingaggiato per “sesso a noleggio” e drogato, ne fecero drammaticamente le spese, come racconta il film My Hustler. La violenza nella factory, insomma, non riguardava solo l’imposizione di immagini senza creatività, ma riguardava anche i rapporti interpersonali. La morte prematura di Paul America non fu un caso isolato.
Da Left-Avvenimenti 5 giugno 2009