Può vantarsi di aver conosciuto Italo Svevo e di essere stato amico di Lucio Fontana. Come racconta nel libro intervista volume “Gillo Dorfles. Gli artisti che ho incontrato” curato da Luigi Sansone, e appena pubblicato da Skira editore.
Classe 1910, Gillo Dorfles ha inaugurato di persona la bella retrospettiva “Essere nel tempo” che gli dedica il Macro di Roma fino al 30 marzo 2016 (accompagnata da un denso catalogo Skira). Dialogando con i giornalisti e raccontando le sue opere preferite lungo tutto il percorso, in più sale della mostra curata da Achille Bonito Oliva, con quadri, fotoografie, libri e poi lettere, scritti autografi, schizzi, che testimoniano il suo incessante cercare e interrogarsi sulle estetiche e su questa esigenza profonda, irrinunciabile: la libera espressione artistica del fare arte.
Medico, specializzato in neuropsichiatria, dice di non aver mai voluto esercitare per rispetto dei pazienti, “sapendo di non essere un buon medico”. Molto invece si è dedicato all’arte, dpiingendo, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta. “Ufficialmente poi ho smesso”, racconta. ” Ma ultimo quadro risale alla scorsa estate”.
Il physique du rôle è sempre quello, asciutto, dritto, solo il volto appare un più scarno e scavato. Con un’espressione ancora di attenzione e di meraviglia verso il mondo e gli esseri umani . Intorno a lui nelle sale del museo romano scorrono gli anni di speramentazione, che lo portarono a partecipare alla storica Esposizione italiana di arte astratta di Milano, nel 1945 e nel 1948 a fondare il Movimento per l’arte concreta (Mac).
Dopo essersi avvicinato al surrealismo giovanissimo, rifiutò ogni forma di arte figurativa, mimetica del reale, per cercare un linguaggio nuovo che si esprime soprattutto attraverso il linguaggio dell’arte astratta. Una scelta dirompente, davvero d’avanguardia, nell’Italia del dopo guerra, in cui a prevalere fu una pittura figurativa pesante, vetero classicista in ambienti post futuristi e accademici, tanto quanto in quelli di sinistra che, nell’era togliattiana, si allineavano ai dettami del realismo socialista.
Le forme colorate, dinamiche, cangianti che popolano le tele di Dorfles hanno invece il ritmo pulsante di chi non accetta ideologie e steccati di genere, spaziando dalla pittura, alla scultura, alla fotografia, al design.
Accanto a questa poliederica attività creativa che la mostra al Macro ripercorre lungo ottant’anni di attività, è fiorita quella di critico d’arte e saggista. Docente di estetica in più università italiane, Gillo Dorfles ha scritto decine e decine di libri, alcuni dei quali, diventati dei classici, come Il divenire delle arti (1959), L’architettura moderna (1954); Il Kitsch (1968); La moda della moda (1984); Il feticcio quotidiano (1988); Horror pleni. La (in)civiltà del rumore (2008). Senza dimenticare la sua folgorante sintesi delle avanguardie del secondo Novecento, racchiusa nelle 250 pagine di Ultime tendenze nell’arte di oggi, uscito nel 1961 nelle edizioni Feltrinelli, aggiornato nel 1995 e ancora oggi una delle guide più incisive e illuminati per chi voglia avventurarsi nel mondo dell’arte dei nostri giorni.
@simonamaggiorel
la recensione della mostra Essere nel tempo
Archittettura, design, musica, teatro, grafica, pittura, critica. L’opera di Gillo Dorfles attraversa una grande molteplicità di ambiti del sapere e dell’arte. Medico e neuropsichiatra che ha scelto di non esercitare («per rispetto dei pazienti», sapendo di non essere in grado di curare), con grande onestà e coraggio, ha attraversato tuto il Novecento continuando a sperimentare con inesausta curiosità nuovi linguaggi. La retrospettiva Gillo Dorfles, essere nel tempo, curata da Achille Bonito Oliva, permette di coglierlo con immediatezza in una travolgente sequenza di sale che al Macro di Roma (fino al 30 marzo 2016, catalogo Skira) ospitano opere datate dagli anni 30 a oggi. E se quadri come Paesaggio con volto umano (1934) mostrano ancora ascendenze simboliste e l’influenza di Munch nell’uso quasi spettrale di lingue dai colori vorticosi e freddi, già con vivaci opere come Senza titolo (1940) e Guanto a spirale (1940) Dorfles dimostra di aver sviluppato un proprio linguaggio astratto originale, che si esprime attraverso il dinamismo delle forme e una ridda di rossi, blu, viola. gialli e verdi. Alla fine della guerra fioriscono, inaspettate, le terracotte dipinte e, in parallelo, composizioni con creste, dove le linee colorate si fanno più nette e definite, tracciando forme astratte che sembrano crescere sotto il nostro sguardo come fossero organismi viventi. L’egemonia del Pop che svuota le immagini riducendole a piatte icone non ha sedotto l’artista triestino, classe 1910, che nel anni 60 era già un uomo maturo, e un artista che aveva scritto capitoli importanti della storia dell’arte, fondando nel 1948 Il Movimento per l’arte concreta (Mac) con Soldati, Munari, Monnet e altri. Avendo ben chiaro che un’arte progressita deve essere innovativa anche dal punto di vista formale. Erano gli anni in cui a sinistra dominava ancora il pesante realismo socialista di marca togliattiana. Ma Dorles e compagni intuirono che, dopo il cubismo e la svolta delle avanguardie storiche, non si poteva tornare a una piatta raffigurazione della realtà, ma che era necessario promuovere un’arte non figurativa, ed in particolare un tipo di astrattismo libero da ogni imitazione del mondo materiale. Dal Mac avrebbero preso le mosse poi artisti più giovani come Accardi, Dorazio e Perilli. Ma importante nell’opera pittorica di Dorfles è anche il rapporto ininterrotto con i movimenti artistici stranieri come racconta lui stesso nel volume Gli artisti che ho incontrato (Skira, 2015), uno sguardo che ha regalato un respiro cosmopolita ed europeo a tutto il suo lavoro. (Simona Maggiorelli, settimanale Left)









«È la violenza l’humus dei miei quadri», rivendicava 






Nel 1914 il teorico della «guerra igiene del mondo» andò in Russia. E Majakovsky gli organizzò un’accoglienza ostile. Al Mart un “illuminante” confronto fra avanguardia nostrana ed europea
E in un primo momento anche Antonio Gramsci guardò con simpatia a questo svecchiamento della cultura italiana promesso dal futurismo con un’apertura internazionale. Ma di lì a poco l’inconciliabilità delle diverse posizioni esplose in modo deflagrante. E se gli interessanti tentativi di creare una arte progressista che si saldasse a una sinistra politica del costruttivista Pannaggi e dell’immaginista Paladini (artisti che ebbero qualche risonanza internazionale e rapporti costanti con l’avanguardia russa) finirono per arenarsi e rimanere isolati, con l’accordo fra Mussolini e i futuristi ogni velleità di sperimentazione, anche di Marinetti, dovette cedere il passo alla trinità “ordine, gerarchia, tradizione” imposta da Prezzolini e dal gruppo dei vociani. Ma già molti anni prima della definitiva normalizzazione del movimento futurista che avvenne negli anni 30 (con il suo leader assurto ad accademico d’Italia e gli ultimi futuristi mutati in picchiatori) durante il “leggendario” viaggio in Russia di Marinetti del 1914 si sarebbero potuti leggere segni di una fredda presa di distanza da parte di quella avanguardia russa che poi Lenin ingaggiò per dipingere i treni della rivoluzione del ’17. Pagine di storia che ora, in occasione della mostra al Mart, si possono leggere nel resoconto di uno storico dell’arte russo Vladimir Lapšin, pubblicato in catalogo. Di fatto i pittori cubo-futuristi russi snobbarono il tour marinettiano mentre artisti come Mikhail Larionov, Natalia Goncharova a Olga Rozanova guardarono alla Francia non all’Italia. Senza dimenticare che fu soprattutto il poeta Majakovsky a organizzare un’accoglienza apertamente ostile alle conferenze di chi, come Marinetti, teorizzava la necessità della violenza e parlava della guerra come «sola igiene del mondo». 

