Archive for the ‘Letteratura’ Category
Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 13, 2010
Dopo la prematura scomparsa di Roberto Bolaño dai suoi archivi sono uscite migliaia di pagine inedite. La raccolta Tra parentesi uscita per Adelphi propone una scelta dei suoi testi saggistici e di riflessione sull’esilio e sulla letteratura
di Simona Maggiorelli

Roberto Bolano
Si sono spesso scomodati nomi di autori già “classici” come Borges e narratori di tendenza, scuri e seducenti come Villa Matas o Gutierréz per raccontare la prosa visionaria, senza margini quanto onnivora di generi letterari di Roberto Bolaño (Santiago del Cile, 1953 – Barcellona, 2003). Anche se il paragone, per quanto lusinghiero per lo scrittore cileno che ha attraversato come una meteora l’orizzonte del secondo Novecento lasciando una scia di migliaia di pagine, riesce a chiarire solo in parte la sua figura di outsider.
Con Borges, è vero, Bolaño ha in comune una sterminata cultura, ma non ne ha ereditato la geometrica freddezza, l’andatura labirintica e caustrofobica. Ad avvicinare Bolaño al cubano Juan Gutièrrez (l’autore de La trilogia sporca dell’Avana), invece, sono la scrittura ruvida e l’amore incondizionato per le donne, ma anche il successo tardivo nonché una miriade di lavori umili per campare. Ma nella torrenziale scrittura del cileno non c’è traccia di quel furor sordo e rabbioso che ha meritato a Gutierrèz l’etichetta di Bukowski dell’Avana. E ancora. Con lo spagnolo Enrique Vila Matas, l’autore di 2666 (Adelphi) e di Notturno cileno (Sellerio) ha in comune la capacità di raccontare piccole sovversioni quotidiane, il gusto di mescolare commedia e tragedia, di scegliere come personaggi inconsapevoli funamboli della vita.Ma Bolaño non ama il non sense, al gesto surrealista fine a stesso come il disincantato collega spagnolo. Una profonda fiducia nell’umano e nel valore positivo dell’arte non abbandonano mai il suo lavoro.
E si potrebbe continuare a lungo in questo gioco di avvicinamenti e prese di distanza perché l’universo letterario di Bolaño è sotterraneamente abitato da tutti gli autori che ha letto e amato. A molti di loro ha dedicato anche appassionate note letterarie, articoli, brevi saggi che, grazie alla cura di Ignacio Echevarrìa, ora si possono leggere tutti di un fiato nella raccolta Tra parentesi edita da Adelphi. Un appassionante quanto imprevedibile zibaldone di note autobiografiche, pezzi di critica letteraria, tuffi nel mondo dell’arte e riflessioni sulla scrittura e sul senso della letteratura. Ma vi si scovano anche pagine di storia personale, quasi diaristiche, in cui racconta rocambolesche vicende come quelle che lo portarono ad attraversare mezza America latina per raggiungere, con mezzi di fortuna, il suo paese natale, il Cile. Bolaño vi fece ritorno nel ‘73 per appoggiare le riforme socialiste di Salvador Allende. Ma riuscì ad arrivare solo alcuni giorni dopo il colpo di stato di Pinochet.
Senza esitare Bolaño decise di unirsi alla Resistenza ma fu subito arrestato. Riuscì poi a uscire di prigione otto giorni dopo grazie a un vecchio compagno di scuola fra le guardie di vigilanza. Una vicenda che racconta della sua passione civile, della sua generosità, ma anche di quella disarmante curvatura picaresca che assunsero alcune vicende cardine della sua vita e che colora tutta la sua vicenda letteraria, dai primi esperimenti di avanguardia al Café dell’habana di Città del Messico dove Bolaño fondò il movimento infrarealista, al torrenziale romanzo, 2666 che lo scrittore cileno, (scomparso prematuramente a cinquant’anni) non riuscì a portare a termine. Uscito postumo 2666 è diventato quasi subito un caso editoriale a livello internazionale. Protagonista di quelle mille e passa pagine è il misterioso Benno von Arcimboldi, già personaggio sullo sfondo di un altro libro cult di Bolaño, I detective selvaggi. Ma, come se i libri dello scrittore cileno fossero pezzi di un’unica grande trama, vi si possono ritrovare rimandi anche ad Anversa (Sellerio), l’esordio in prosa di un Bolaño allora ventisettenne e in fuga da una feroce dittatura, finito in Spagna, a Barcellona, senza permesso di soggiorno. Anversa si presenta come un’opera rapsodica, frammentaria, scritta quasi di spigolo, tanto quanto 2666 è, invece, generoso e vitale. Ma entrambe appaiono contrassegnate da una cifra visionaria, da continui cut up. Bolaño scrive mosso da un’urgenza profonda, come se avvertisse che non ha tempo da perdere. Odia le maschere, i manierismi, gli infingimenti. E anche se scrive divinamente non ama la bella scrittura: «Non significa nulla scrivere bene- annotava- perché questo può farlo chiunque, e neppure scrivere meravigliosamente bene, perché anche questo può farlo chiunque. Allora cos’è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: saper cacciare la testa nel buio… sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso».
Dal quotidiano Terra del 12 febbario 2010
Dalla raccolta Tra parentesi di Roberto Bolaño, ecco alcuni flash della sua cartografia personale:
sulla scrittura. Nella mia cucina letteraria ideale abita un guerriero che alcune voci chiamano scrittore.Questo guerriero non fa altro che combattere. Sa che alla fine qualunque cosa faccia verrà sconfitto.Eppure percorre la cucina letteraria che è di cemento, e affronta il suo avversario senza dare né chiedere quartiere.
sul cubismo: “ Breaque. insieme a Juan Gris e a Picasso, formò la santissima trinità del cubismo, nella quale il ruolo di dio padre era appannaggio assoluto di Picasso, e il ruolo del figlo, un figlio ancora oggi un po’ incompreso, era affidato al sorprendente Juan Gris, che in un’altra opera teatrale avrebbe potuto interpretare senza problemi un ciclope, mentre il destino riservava a Braque, il solo francese del trio, il ruolo di spirito santo che, come si sa, è il più difficile di tutti e quello che strappa al pubblico meno applausi”.
sul surrealismo: “In quale misura incise, insieme al situazionismo,sul Maggio del ’68 c’è stato un surrealismo clandestino negli ultini trent’anni del Novecento? Il raggio d’azione del surrealismo delle cloache si estese unicamente all’ambito europeo o vi furono ramificazioni americane, asiatiche, latinoamericane?…non sarà che il surrealismo entrò davvero in clandestinità e lì, nelle cloache, morì davvero in clandestinità e lì, nelle cloache, morì O che solo una parte del surrealismo entrò in clandestinità, mentre la vecchia guardia copriva la ritirata con cadaveri squisiti e objects trouvès per dare un’impressione di quiete quando in realtà si stava effettuando una manovra di ripegamenyo?”
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 13, 2009
La magia di una città trasfigurata dallo sguardo di un bambino. Un racconto intenso e poetico come raramente capita di leggerne in pagine di autobiografia. Il cuore della Berlino fra fine Ottocento e inizi Novecento è ancora vivo oggi grazie all’Infanzia berlinese (Einaudi) di Walter Benjamin. E a questo straordinario classico, così come alla flânerie a cui il filosofo tedesco si affidò per raccontare la Parigi dei Passages, si è ispirato lo scrittore Eraldo Affinati per il suo Berlin (Rizzoli), viaggio letterario nel passato e nel presente della città e non solo banale pellegrinaggio ai varchi del muro. Cercando nelle molte metamorfosi anche urbanistiche di Berlino ciò che le fonti scritte non raccontano.
Due giornalisti, partiti dalle opposte “sponde” dell’Inghilterra e dell’Italia, invece, si sono dati a raccontare la trasformazione di Berlino Est e i cambiamenti che in vent’anni hanno rimesso in moto i Paesi dell’Europa ex comunista; è diventato anche una fortunata serie tv il viaggio inchiesta del giornalista della Bbc Peter Molloy, edito in Italia da Bruno Mondadori con il titolo La vita ai tempi del comunismo: una serie di interviste che, insieme, affrescano una straordinaria galleria di ritratti di persone per le quali andare oltre cortina ha rappresentato una vera propria cesura nella propria vita, dividendola in un prima e un dopo, nel bene o nel male. Berlino, Lipsia, Varsavia. Ma anche Praga, Bratislava, Budapest. Sono le tappe del reportage che il giornalista Matteo Tacconi ha scritto per Castelvecchi. Nel suo C’era una volta il muro si ritrovano la passione e la voglia di capire di un cronista di razza che nel 1989 aveva solo 11 anni. Niente ideologie e appartenenze di allora a ingombrargli il passo e, nella scrittura rapida, suggestiva, per immagini, di questo libro, le speranze realizzate e quelle naufragate di intellettuali e operai ungheresi costretti a emigrare per lavorare. La Praga di Charta77 e di Vaclav Havel ma anche quella del processo a Milan Kundera. E ancora la Danzica e le istanze di libertà di Solidarnosc, presto deluse.
Riavvolgendo il filo della storia, torna a prima del muro Gianluca Falanga con il libro Non si può dividere il cielo (Carocci) che ricostruisce le vicende di persone che quando il muro (e la guerra fredda) esercitava tutta la sua oppressiva presenza osarono sfidarlo. Testimone diretto dell’89, lo scrittore ungherese György Dalos ricostruisce gli eventi che portarono alla caduta del muro nel libro Giù la cortina (Donzelli) dando voce ai protagonisti di allora, a uomini politici come Dubcek e Havel ma anche a gente comune. Con pagine inedite sulla fuga in massa dei cittadini della Ddr oltre il confine ungherese. Delle vicende degli intellettuali e degli attivisti politici che nel Novecento hanno fatto di Berlino una fucina di idee e un laboratorio di nuove culture si occupa in modo particolare Gian Enrico Rusconi in Berlino, la reinvenzione della Germania (Laterza), mentre fra i molti nuovi titoli che affrontano il ventennale con strumenti di analisi politica, da segnalare il lavoro di Angelo d’Orsi, 1989,(Ponte alle Grazie). Un libro fuori dal coro delle grandi celebrazioni, che esplora zone d’ombra e promesse rimaste lettera morta. A cominciare dalla speranza di un futuro senza ideologiche contrapposizioni in blocchi e senza guerre. Infine, fresco di stampa, L’anno che cambiò il mondo (Il Saggiatore) di Michael Meyer, che dal 1988 al 1992 diresse la redazione di Newsweek per l’Europa dell’Est. Un documentatissimo libro che sfata l’idea che sia stata la fermezza Usa a dar la spinta decisiva allo smantellamento del muro.
BERLINO EST CAPITALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA
Nel 1989 probabilmente nessuno ci avrebbe creduto che dai grigi e seriali palazzi dell’Est sarebbero sbocciati i più innovativi laboratori d’arte e di tendenza degli anni Duemila. E che le fabbriche dismesse sarebbero presto diventate cantieri giovanili dove si mettono in scena opere totali che mescolano i linguaggi delle arti visive e quelli della danza, del teatro, della musica e della videoarte. Anticipando la tendenza al recupero di suggestivi spazi di archeologia industriale che negli anni 90, in Europa, ha permesso finalmente di rottamare gli spazi museali algidi e minimalisti di un decennio prima. Ma tant’è, a vent’anni dalla caduta del muro – complice un mercato immobiliare più abbordabile – possiamo ben dire che la parte Est non è diventata soltanto quella più bella della città ma anche la più creativamente viva d’Europa. Da qualche anno, infatti, artisti da tutto il mondo fanno tappa a Berlino (e non più a Londra e Parigi) o decidono di viverci. La street art, i graffiti, i murales che tappezzano l’Est ne sono l’effetto più macroscopico, a cominciare dall’esplosione di colori della famosa Est side gallery all’aperto. Nel frattempo tutta la rete delle gallerie si è molto allargata verso Est. Tanto che dalle circa 250 gallerie che si contavano 15 anni fa oggi si è passati a più di 500. Frutto d’iniziativa privata ma anche merito delle intelligenti politiche culturali tedesche, locali e non, che investono molto su mostre, biennali, premi e offrono agevolazioni agli artisti. s.m.
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 12, 2009
A Roma per presentare il suo nuovo romanzo Solo per desiderio lo scrittore Richard Flanagan racconta come fede e ratio si allearonoper distruggere i “selvaggi” aborigeni della sua terra, splendida isola dell’Australia «Si parla di difesa dei valori occidentali, di infedeli, di islamofascisti. Cambiano le parole ma le persone sono ridotte a astrazioni come nel XIX secolo»
di Simona Maggiorelli

arte aborigena
Il pittore deve aver pensato che quei piedi nudi che spuntavano da sotto il vestito rosso poco si addicessero a un ritratto destinato a una casa inglese. Così fece in modo che la cornice li escludesse dal quadro. Occhi grandi, pieni di infinita malinconia, «la ragazzina ritratta sulla tela era una delle poche sopravvissute al genocidio di aborigeni perpetrato in Tasmania dagli occidentali. L’ho saputo dopo un bel po’ di ricerche» racconta Richard Flanagan che ha costruito il suo nuovo romanzo, Solo per desiderio (Frassinelli) proprio intorno a quell’immagine. Venti anni fa lo scrittore vide quel ritratto coloniale dello Hobart Museum restandone profondamente colpito. Poi la scoperta che la bambina si chiamava Mathinna e che, per “ghiribizzo”, un bianco aveva voluto prenderla con sé. Dietro a quel quadro, insomma, c’era una storia vera: quella di Sir John Franklin, governatore della Tasmania dal 1837 al 1843 che con la moglie decise di adottare la piccola. Salvo poi abusare di lei e mandarla in un orfanotrofio dove sarebbe stata avviata all’alcol e alla prostituzione. Pedofilo e sospettato di cannibalismo, al suo rientro in Inghilterra, Franklin fu al centro di uno scandalo. Ma il fatto che più ha colpito la fantasia dello storico e romanziere Flanagan è che Charles Dickens, già affermato e nel pieno della attività letteraria, si lanciò in sua difesa con un articolo su una rivista ma anche rileggendone la vicenda nel dramma The frozen deep. Da un lato un colonialista colpevole di uno dei peggiori crimini al mondo, dall’altro uno scrittore sposato e in crisi che proprio in quel periodo cercava di resistere all’attrazione per una giovanissima attrice. Due storie che Flanagan sapientemente racconta in parallelo in questo romanzo storico letterariamente alto e che non vuole essere “solo” un testo di denuncia della ferocia del colonialismo europeo. Attraverso la storia dei coercitivi esperimenti pedagogici che i Franklin tentarono sulla bambina in nome dell’evangelizzazione e della “scienza” positivistica, nel romanzo Flanagan traccia uno spietato ritratto della razionale, pia e ordinata borghesia londinese che arrivava a trattare gli aborigeni come se non fossero esseri umani. «Il rifiuto delle emozioni, il tentativo di controllare il desiderio che raggiunge livelli macroscopici nella società vittoriana e nella vicenda personale di un grande scrittore come Dickens – dice Flanagan che abbiamo incontrato a Roma in occasione della presentazione del suo libro – mi è parso emblematico di un certa malattia e paura di vivere che in altri modi connota oggi la frenetica società occidentale». Così come la paura del confronto con culture diverse. «Viviamo in un periodo in cui tante stupidità e ottusità del passato si ripetono. E le persone – sottolinea Flanagan- rischiano di trovarsi ridotte a un’astrazione, proprio come accadeva nel XIX secolo. Abbiamo solo cambiato le espressioni, i modi di dire: oggi si parla di difesa dei valori occidentali, di infedeli, di islamofascisti ma la sostanza resta la stessa».
Nato in Tasmania nel 1961 da una famiglia di origine irlandese Flanagan ha il vantaggio di vedere la realtà sentendosi parte della cultura aborigena tanto quanto di quella occidentale. «Vivo in un’isola dove la gente non si affanna per scalare la società, anche perché c’è solo la pesca, ciò che offre la natura e poco più. Da noi quando si mangia in giardino c’è sempre qualcuno che si siede dicendo di essere un amico o un parente! Non dico che sia il migliore dei mondi possibili- abbozza sorridendo- ma è un modo molto umano di stare insieme. Un modo che religione, psicoanalisi o aerobica sfrenata sicuramente non insegnano».
dal quotidiano Terra del 14 novembre 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 11, 2009

La scrittrice Radhika Jha
Nasce la prima rassegna italiana dedicat ai libri che raccontano l’Asia. Per cominciare a conoscerne, anche “da casa”, i suoi molti e affascinanti volti. Dallo studioso indiano Prem S. Jha ai sinologi Edoarda Masi e Federico Masini. Un pieno di tavole rotonde e incontri
di Simona Maggiorelli
Asia di carta, per conoscere i molti volti di un continente vastissimo e affascinante. E che il nostro sguardo occidentale, troppo spesso, coglie su uno sfondo appiattito, come se fosse tracciato su una mappa medievale. Non parliamo solo delle enormi differenze fra India e Cina ma anche fra le regioni, per esempio, dell’Indonesia o della stessa sterminata Cina. Per cominciare ad aprire i nostri orizzonti, anche “da casa”, è nata da AsiaticaFilmMediale a Roma, la prima rassegna dedicata a libri asiatici e sull’Asia. Con un pieno di appuntamenti con scrittori e studiosi di primo piano. Ad aprire il ciclo di incontri, al Tempio di Adriano, il 2 novembre è stato Prem Shankar Jha a colloquio con Giacomo Marramao nella tavola rotonda sul libro Il caos prossimo venturo (Neri Pozza), in cui lo studioso indiano analizza il capitalismo di oggi e la crisi delle nazioni. Un dialogo denso e stimolante in cui da economista e filosofo Jha ha messo radicalmente in discussione la semplicistica formula “Cindia” che «crea un incomprensibile ibrido fra due identità che non potrebbero essere più lontane». Così se Jha parla di capitalismo indiano, auspicando «che la rabbia degli esclusi trovi risposte nelle istituzioni democratiche dell’India», nel caso della Cina, invece, lo studioso sostiene che non la si possa assimilare a un modello capitalistico come lo si intende in Occidente. «Certo – spiega Jha – in Cina oggi ci sono imprese private, ma il 52 per cento della produzione è controllata dallo Stato e addirittura il 90 per cento degli investimenti è statale». Ma l’attenzione del festival non va solo a ficcanti analisi politiche del rapido sviluppo che molti Paesi dell’Asia e del Sudest asiatico stanno vivendo. Ad Asia di carta molto spazio è dedicato anche alla letteratura. E mentre l’editore Neri Pozza, da sempre attento alla letteratura indiana, ha presentato a Roma il nuovo, potente e toccante romanzo della giovane scrittrice indiana Radhika Jha, Il dono della dea, la neonata casa editrice Metropoli d’Asia dal Tempio di Adriano lancia la sfida di una collana di nuovi giovani autori che, come fa Shazia Omar in Come un diamante nel cielo, raccontino la vita underground e il vero volto delle città asiatiche. Giunti alla fine, in così poco spazio,non ci resta che raccomandare i prossimi appuntamenti: il 6 novembre su “il pensiero antico indiano e cinese” e il 7 novembre la presentazione del primo volume della grande opera che Einaudi dedica alla Cina. Curata da Guido Samarani e Maurizio Scarpari, la raccolta di saggi La Cina verso la modernità sarà raccontata dagli autori e dal sinologo Federico Masini. Mentre Edoarda Masi, per l’editore Quodilibet, presenta il suo Cento capolavori della letteratura cinese e due volumi di Lu Xun.
da left-avvenimenti del 6 novembre 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 9, 2009
Lo scrittore portoghese è in Italia per presentare le sue acute riflessioni affidate a un blog. E ora a un libro. Eccone un piccolo assaggio
di José Saramago

Saramago
Una buona notizia, diranno i lettori ingenui, supponendo che, dopo tanti disinganni, ve ne siano ancora. La Chiesa anglicana… ha annunciato una importante decisione: chiedere perdono a Charles Darwin, ora che si commemorano i duecento anni della sua nascita, per il modo in cui lo ha trattato dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie e, soprattutto, dell’Origine dell’uomo... Anche se Darwin fosse vivo e disposto a mostrarsi benevolo, dicendo «sì, perdono», la generosa parola non potrebbe cancellare un solo insulto, una sola calunnia, una sola manifestazione di disprezzo dei molti che gli caddero addosso. L’unica a trarne beneficio sarebbe la Chiesa anglicana, che avrebbe aumentato, senza spese, il suo capitale di buona coscienza. Ringraziamola comunque del suo pentimento, che forse spingerà il papa Benedetto XVI a chiedere perdono… a Giordano Bruno, cristianamente torturato, con molta carità e perfino al rogo su cui fu bruciato. Questa richiesta di perdono non sarà gradita ai creazionisti nordamericani. Fingeranno indifferenza ma è evidente che si tratta di un ostacolo ai loro piani. Un ostacolo per quei repubblicani che, come la loro candidata alla vicepresidenza, inalberano la bandiera di questa aberrazione pseudoscientifica chiamata creazionismo (settembre 2008).
Ateismo militante
(…) le religioni non solo non avvicinano gli esseri umani, ma vivono, loro stesse, in stato di permanente mutua inimicizia, nonostante tutte le arringhe pseudo-ecumeniche ritenute vantaggiose da una parte e dall’altra per occasionali e passeggeri motivi di ordine tattico. Le cose stanno così da che mondo è mondo e non si vede alcun indizio di un possibile cambiamento. Salvo l’ovvia idea che il pianeta sarebbe molto più pacifico se tutti fossimo atei. (febbraio 2009).
Dogmi
I dogmi più nocivi forse non sono quelli che come tali sono stati espressamente enunciati, quale è il caso dei dogmi religiosi, perché quelli fanno appello alla fede e la fede non sa né può mettere in discussione se stessa. Il guaio è che si sia trasformato in dogma ciò che, per sua natura, non ha mai aspirato ad esserlo. Marx per esempio, non ha dogmatizzato, ma sono subito spuntati pseudo-marxisti pronti a convertire Il capitale in un’altra Bibbia…(novembre 2008).
Berlusconi e Co.
Secondo la rivista nordamericana Forbes il gotha della ricchezza mondiale, la fortuna di Berlusconi ascenderebbe a quasi diecimila milioni di dollari. Onoratamente guadagnati, è chiaro, sebbene con non pochi aiuti esterni, come ad esempio il mio. Essendo io pubblicato in Italia dall’editrice Einaudi, proprietà di Berlusconi, qualche soldo glielo avrò fatto guadagnare. Una infima goccia d’acqua nell’oceano, ovviamente, ma che gli sarà servita almeno per pagarsi i sigari, ammettendo che la corruzione non sia il suo unico vizio… Ebbene, come di solito si sente dire, i popoli sono sovrani, ma anche saggi e prudenti, soprattutto da quando il continuo esercizio della democrazia ha fornito ai cittadini alcune nozioni utili a capire come funziona la politica e quali sono i diversi modi per ottenere il potere. Ciò significa che il popolo sa molto bene quel che vuole quando è chiamato a votare. Nel caso concreto del popolo italiano – perché è di questo che stiamo parlando e non di un altro (ci arriveremo) – è dimostrato come l’inclinazione sentimentale che prova per Berlusconi, tre volte manifestata, sia indifferente a qualsiasi considerazione di ordine morale. In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto privato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità? ( settembre 2008).
Che fare con gli italiani?
… è appena giunta la notizia delle dimissioni di Walter Veltroni. Ben vengano, il suo Pd è cominciato come una caricatura di partito ed è finito,senza parole né progetti, come un convitato di pietra sulla scena politica… Veltroni è responsabile, certo non l’unico, ma nell’attuale congiuntura, il maggiore, dell’indebolimento di una sinistra di cui era arrivato a proporsi come salvatore. Pace all’anima sua. ( febbraio 2009).
Tratto da José Saramago, “Il Quaderno” (Bollati Boringhieri)
l’intervista: ITALIA SVEGLIATI
Un quaderno di riflessioni acuminate. Nate in margine a fatti di cronaca. Ma non solo. Prima affidate con passione da blogger all’immediatezza della Rete. Poi distillate in libro che, come è noto, ha avuto una travagliata vicenda editoriale. Rifiutato da Einaudi, vede ora la luce grazie a Bollati Boringhieri con il titolo Il Quaderno. E mentre si parla di un trasferimento in blocco di tutta la sua opera nel catalogo Feltrinelli (a partire dal prossimo romanzo Caino), Saramago arriva in Italia per presentare il suo nuovo libro e incontrare il pubblico. Prima tappa il 9 ottobre proprio a Torino, la città di Bollati Boringhieri ma anche dello storico marchio enaudiano acquisito dalla Mondadori di Berlusconi. Alle 21 il Nobel è al circolo dei lettori e il giorno dopo all’università. E poi ancora ad Alba, a Milano ( 12 ottobre) e a Roma (14 ottobre, al Teatro Quirino, con Marramao). In attesa di questi incontri dal vivo, left ha rivolto a Saramago qualche domanda via mail.
Il Partito del premier si chiama Partito della libertà. Che tipo di libertà propone agli italiani?
La libertà di aprire il cammino al fascismo. Molti italiani credono di vivere in paradiso, ma forse si sveglieranno all’inferno. Se, purtroppo, ciò accadesse che non cerchino altri colpevoli.
Freedom House e l’ Economist denunciano che libertà di stampa è venuta meno in Italia. Che ne pensa?
Qualsiasi persona, perfino la meno attenta, lo confermerà. Fredoom House e Economist non ci hanno detto niente di nuovo.
Perché la reazione degli italiani e del Partito democratico alle continue bugie del premier è ancora così debole?
Non chieda a un semplice scrittore portoghese che dica ciò che gli italiani dovrebbero essere i primi a sapere. Sono loro che hanno messo Berlusconi dov’è. Che decidano adesso cosa fare
C’è uno svuotamento della cultura?
La cultura italiana sta resistendo e continuerà a resistere. Si prendano come esempio Saviano, Eco, Fo, Magris, Flores D’Arcais e tanti altri che difendono la fortezza della dignità e della sapienza.
Simona Maggiorelli
(traduzione di Sonia Castillo)
da left-avvenimenti 9 ottobre 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 30, 2009
INCONTRI. Lo scrittore Jason Elliot a Roma racconta il suo lungo lavoro di ricerca sulla tradizione culturale dell’antica Persia. Ritrovandone le tracce nascoste in un Paese oppresso da molti anni di regime teocratico.
di Simona Maggiorelli
Un semplice dettaglio come il nome di una strada. E la curiosità di vedere quante volte, negli anni quella targa è stata cambiata. Per damnatio memoriae nelle tante guerre che punteggiano la storia di quella che un tempo fu la Persia. Per servilismo dello Scià verso gli Stati Uniti. Per impeto rivoluzionario e poi per violenta restaurazione teocratica degli ayatollah. Da un particolare di toponomastica ricostruire un intero mosaico di storia. Rintracciandone i segni nel presente. È il talento originale dell’inglese Jason Elliot: scrittore, studioso di storia, viaggiatore, giornalista culturale e molto altro ancora. Quasi una eclettica figura di letterato ottocentesco a dispetto dei sui quarantaquattro anni ben portati.
E così, come un inattuale flâneur, lasciandosi prendere da ciò che gli viene incontro per le strade e poi prendendosi tutto il tempo per studiare Elliot, per esempio, è riuscito a ricostruire in Specchi dell’invisibile, viaggio in Iran (Neri Pozza) la storia stratificata e complessa della censura iscritta nella mappa di Teheran. Rintracciando anche la sotterranea e sorprendente vitalità di tradizioni eterodosse. Tanto eversive come poteva essere quella dell’antica poesia persiana per Khomeini e oggi per Ahmadinejad.
Così mentre il grande Ciro, fondatore del primo impero persiano (che venticinque secoli fa conquistò Babilonia, Assiria, Macedonia e Cina orientale), finì sotto la scure degli ayatollah che gli preferirono un oscuro personaggio sulla targa di un’importante strada della capitale, quello stesso regime teocratico non cancellò affatto la memoria degli antichi poeti persiani anche se avevano sempre avuto un rapporto assai conflittuale con l’ortodossia religiosa.
«Le immagini sensuali della loro poesia – nota Elliot – hanno sempre attirato gli strali dei bigotti e le dottrine mistiche esposte velatamente nei loro poemi causarono l’ostilità dei teologi tradizionalisti». Quasi tutti i grandi lirici persiani erano seguaci della mistica sufi che celebrava il rapporto fra uomo e donna e sbeffeggiava il clero, in nome di una relazione diretta con il divino. Ma non solo. «Passi di Khayyam parlavano di vino e di incontri e libagioni. Mentre il poeta Firdausi celebrava la gloria degli antichi re persiani preislamici. Nonostante il biasimo del regime il suo nome non è mai stato cancellato dalla toponomastica né la sua opera è mai stata ufficialmente messa al bando. Un dettaglio da cui si può dedurre – conclude Elliot – l’enorme rispetto che ancora oggi quella tradizione letteraria riscuote anche dalla parte più intollerante del Paese». Un fatto che può apparire paradossale.
Ma non a chi conosca la complessità iraniana dall’interno. Al Festival della letteratura di viaggio a Roma Elliot, presentando Specchi dell’invisibile insieme al precedente libro sull’Afghanistan, Una luce inattesa (Neri Pozza), è tornato a rovesciare il cannocchiale occidentale mettendo a fuoco quei pregiudizi che distorcono la nostra lettura dell’Iran. «L’ostacolo maggiore alla comprensione sottolinea con passione – è quel nostro giudicare nascosto e preventivo che si frappone fra noi e la realtà. Una sorta di schermo invisibile che ci impedisce di vedere il mondo come è realmente. Personalmente- ammette Elliot – ho cominciato a scrivere proprio per cercare di bucare quello schermo. Un sano scettismo anche rispetto a ciò che raccontano i media occidentali oggi mi pare indispensabile».
dal qotidiano terra 29 settembre 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 21, 2009
Festivaletteratura di mantova dedica una retrospettiva allo scrittore indiano Amitav Ghosh, l’autore di Cromosoma Calcutta.
di Simona Maggiorelli
Il battito di ali di una farfalla qui e ora, si dice, possa determinare un cataclisma in una lontanissima parte del globo. Come effetto domino di una lunga catena di cause e conseguenze, perlopiù imprevedibili. Di questi fili “invisibili” che corrono sotterranei nella storia si occupa lo scrittore indiano Amitav Ghosh, autore di Cromosoma Calcutta (Einaudi) di molti altri importanti romanzi, come il recente Mare di papaveri (Neri Pozza), straordinario affresco delle drammatiche conseguenze della guerra dell’oppio, viste da Paesi come l’India che fu schiacciata nella morsa del colonialismo inglese.
Da romanziere ma anche da antropologo, storico e giornalista, fondendo una molteplicità di competenze diverse, Ghosh punta la propria attenzione sulla lunga durata,osservando continuità e rotture che i processi storici incontrano nel passaggio di generazione in generazione. In questo modo riuscendo a ricreare un genere, quello del romanzo storico, che sembrava aver esaurito il suo corso con i grandi romanzieri dell’Ottocento. Ghosh si mette sulle orme di Melville, per la scelta dei grandi temi degni dell’epos e sulla strada di Dickens per la precisa descrizione sociale degli ambienti. Ma senza nessun gusto antiquario. Anzi, con uno sguardo costante sull’oggi: andando a caccia delle radici più remote delle contraddizioni che i processi di globalizzazione squadernano. Così ne Lo schiavo del manoscritto (che dopo l’edizione Einaudi del ’92 a fine agosto uscirà in nuova edizione italiana per Neri Pozza), con un meticoloso lavoro di archivio compiuto fra l’Egitto e l’Inghilterra, Ghosh rintraccia una lettera scritta nel 1148 da un mercante di Aden, un certo Khalaf ibn Ishaq; una lettera contenuta nel manoscritto H.6 conservato nella biblioteca nazionale di Gerusalemme e inviata a un grande viaggiatore di nome Abrahm Ben Yiju (più importante di Marco Polo e Ibn Battuta, anche se meno noto in Occidente). Quella lettera, ricostruisce Ghosh, non solo testimonia la fiorente cultura del porto yemenita di Aden intorno all’anno mille, ma è un documento unico perché vi si accenna alla storia di uno schiavo, probabilmente accolto come collaboratore da Ben Yijiu, del quale- visto il rango sociale- la storia ufficiale altrimenti nulla ci avrebbe tramandato. Un fatto che nel romanzo diventa il grimaldello per ricomporre una fitta trama di rapporti fra India ed Egitto a partire dal medioevo, per arrivare fino al Novecento. Fra similitudini dovute alla comune dominazione occidentale e rotture di dialogo, nella contrapposizione via via sempre più spiccata fra le differenti simbologie religiose dei due Paesi a partire dalla prima diffusione della religione di Maometto.
Armato di taccuino
Con lo Schiavo del manoscritto Ghosh inventa un particolare genere di romanzo, che Festivaletteratura battezza “romanzo di indagine”, dedicandogli il 13 settembre una giornata di studi. All’interno di una ampia retrospettiva sull’opera dello scrittore indiano, che oggi vive fra New York e Calcutta. Dal 9 settembre a Mantova ci saranno incontri e tavole rotonde sulla sua attività di romanziere ma anche sul suo lavoro di giornalista raccolto in volumi come Estremi Orienti (Einaudi) e Circostanze incendiarie.(Neri Pozza). Autore di numerosi reportage per The Nation, The New York Times, The New Republic, Granta, The NewYorker, Gosh ama fare il lavoro del vero cronista: cammina, parla, curiosa fra la gente ma anche negli archivi. “Andare a consultare i documenti- dice- fa parte del piacere del mio lavoro di scrittore. Mi piace andare a verificare come stanno davvero le cose”. Così, Amitav Ghosh era sul posto per raccontare l’esplosione di violenza seguita all’attentato contro Indira Gandhi, nel 1984. Ha raccontato la pazzia di quei giorni di violenza a New Delhi e ha scritto pezzi come “Danzando in Cambogia” documentando il genocidio perpetrato dai khmer rossi in Cambogia. Mentre in un romanzo come Il palazzo degli specchi (Neri Pozza) ha documentato il presente della coraggiosa battaglia di Aung San Suukyi per la liberazione della Birmania. “L’ho incontrata durante il mio primo viaggio a Rangoon – ricorda lo scrittore – e ne ho ancora un ricordo fortissimo. Che ora si rinnova dolorosamente pensando che le hanno dato altri 18 mesi di arresti domiciliari”.
I disastri del colonialismo

Lo sguardo di Ghosh, come romanziere ora è soprattutto rivolto ai prodromi della mancanza di libertà che schiaccia la Birmania, così come alle conseguenze che eventi internazionali hanno avuto sull’India e su altri Paesi asiatici. Viste dal punto di vista delle storie personali. “ La mia stessa famiglia- racconta lo scrittore- mi ha aperto gli occhi su questo. Fu divisa non solo dalla separazione fra India e Pakistan, ma anche dalla conquista della Birmania da parte dei giapponesi nel 1942”. Da qui, a partire da un intreccio di biografia individuale e storia collettiva, Ghosh va costruendo quella che si annuncia come la sua opera più importante: una trilogia sulle conseguenze della guerra dell’oppio. Di questo lo scrittore parlerà l’11 settembre in Palazzo Ducale raccontando come è nato il primo volume, Mare di papaveri . Un romanzo che si presenta come una sorta di opera mondo, di indagine su fenomeni sociali che anticiparono negli anni 40 dell’800 alcuni processi di globalizzazione e in cui si racconta il processo di produzione dell’oppio come già perfettamente industrializzato, organizzato e comandato dall’Inghilterra mentre operai indiani e lascari venivano sfruttati come manodopera sotto pagata. Proprio come negli attuali processi di delocalizzazione. “Quando ho cominciato a scrivere Mare di papaveri, in realtà- spiega Ghosh – non pensavo esattamente alla guerra dell’oppio. Mi interessava il tema della migrazione, volevo rintracciare alcune radici della diaspora degli indiani nel mondo. Ma un’ondata massiccia, mi resi subito conto, partì intorno al 1830 dalla cosiddetta India britannica, il nord della regione detta Bihar: sotto il comando dell’Est India Company fu l’area più coinvolta direttamente nella guerra dell’oppio. Dunque, non c’era modo di evitare questo argomento. In quel periodo India, Inghilterra e Cina furono collegate da un mare di oppio”.
I personaggi prima di tutto
Indubbiamente Mare di oppio si presenta come un grande affresco di storia della prima metà del XIX secolo, quando l’India pur fra mille contrasti e di contraddizioni partoriva i primi moti di rivolta contro la dominazione britannica. Una storia che attraversa tre continenti e l’arco di duecento anni,“ma non faccio di mestiere lo storico, il motore della narrazione – rivendica Ghosh- sono le vicende di una manciata di personaggi che si ritrovano in una situazione del tutto fuori dall’ordinario, a bordo della Ibis in mezzo al mare”. La goletta a due vele, lontano dalla terraferma, diventa un microcosmo a parte aprendo una parentesi speciale nella vita di Deeti e degli altri personaggi. Analogamente alla peste per la brigata del Decameron le disavventure vissute a bordo dell’Ibis, compreso un ammutinamento dei lascari, fanno uscire i personaggi dall’isolamento e dalle consuetudini. Tanto che una donna dei villaggi indiani come Deeti si trova “a incespicare sulla parola che per prima le era salita alle labbra: il nome della sua casta era per lei qualcosa di altrettanto intimo del ricordo del viso di sua figlia, ma adesso sembrava appartenere anche esso alla vita precedente, quando era un’altra persona”. Quasi fosse una sorta di trattato di antropologia sociale dei primi dell’800 Ghosh include nel romanzo anche un potente ritratto dei lascari, la ciurma di leggendari marinai di tutte le razze possibili che in comune avevano solo l’oceano indiano e una condizione di sfruttamento. Come in altri suoi romanzi, Ghosh restituisce la loro storia anche attraverso un complesso impasto linguistico che qui va dall’urdu, all’hindi e al bengalese, con alcuni tratti tipici dell’inglese dell’epoca ma anche termini di slang nautico.“Per me il romanzo come genere ha la capacità di inglobare molti aspetti della vita, della storia, della politica. Il romanzo- spiega Ghosh- è una sorta di meta genere, che trascende i confini dei singoli generi”. Quanto al secondo episodio di questa saga a cui sta lavorando, Ghosh accenna: “ Ho qualche idea su dove la narrazione potrebbe andare a parare, ma è un po’ come andare per mare di notte: si intravedono le luci, ma non si sa ancora dove si arriverà e che cosa c’è nel mezzo. L’esperienza mi dice che i libri hanno testa per conto proprio”.
BOX SU FESTIVALETTERATURA
Dal 9 al 13 settembre le strade di Mantova torneranno a riempirsi di lettori e di appassionati di letteratura. L’edizione 2009 di Festivaletteratura si annuncia particolarmente densa di incontri con autori internazionali, di primo piano. A cominciare dal Premio Nobel Nadine Gordimer che sarà in Italia per parlare della sua scrittura, del suo lungo impegno contro l’apartheid, ma anche del futuro della letteratura africana, che sta acquistando sempre più forza e autonomia sulla scena globale. Fra gli ospiti più attesi, poi, oltre all’indiano Amitav Gosh, lo scrittore sudamericano Louis Sepulveda e il francese Georges Didi Huberman con una riflessione fra storia dell’arte e filosofia dal titolo “le immagini accadono”. E ancora in prima nazionale il film che racconta l’opera e l’impegno pacifista dell’israeliano Amos Oz e una tavola rotonda dedicata allo scrittore David Foster Wallace prematuramente scomparso. Fra le nuove proposte di letteratura, da segnalare, la presenza di Anne Marie Garat autrice de Il quaderno ungherese ( Il Saggiatore), un romanzo che, con un pizzico di romanticismo, racconta vicende di una Parigi di inizi Novecento. Fra i momenti di spettacolo, invece, il recital di Lella Costa dedicato ai diritti delle donne e al comizio della rivoluzionaria francese Olympe de Gouges. Per la saggistica Stefano Rodotà presenta a Mantova un nuovo libro targato Feltrinelli, mentre Ignazio Marino, dopo Credere e curare, presenta Nelle tue mani, medicina, fede, etica e diritti, in uscita il 7 settembre per Einaudi. Il programma completo sul sito www.festivaletteratura.it.
da left-avvenimenti 25 agosto 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 18, 2009
di Simona Maggiorelli
Di notte l’Avana è più bella che mai. Le luci gialle dei lampioni attenuano le rughe e le ferite del centro antico e dei palazzi della Bella epoque. Nel caldo umido dei vicoli, sul Malecòn corroso dal salmastro dove arrivano alti i cavalloni, i bambini, scalzi, giocano e ridono a tutte le ore. Mentre le ragazze, poco più in là, si vendono. E’ la Cuba delle molte contraddizioni e «di una bellezza che non lascia scampo» quella raccontata per immagini dal fotografo Sandro Miller in Imagine Cuba 1999-1997 (Charta). Nel suoi scatti l’organismo fragile dell’Habana veja, l’umido sgretolarsi dei palazzi coloniani ma anche l’azzurro abbagliante del mare, la musica che non smette mai, l’allegria delle spiagge dove le famiglie arrivano cariche di frutta e stereo a spalla. Più che i luoghi sono i primi piani a parlare; primi piani di bambini che ridono a gola aperta e ragazzini che guardano l’obiettivo malinconici tenendosi la faccia fra i guantoni. Vecchi che giocano a carte in strada e ragazzine che si fanno fotografare vestite come Rossella O’Hara per la festa dei 15 anni. E ancora ragazzini stipati sui mezzi pubblici (che per risparmiare, in discesa, vanno “in folle”) e che sfrecciano in motorini scassati davanti ai cartelloni con la faccia di Bush con su la scritta “El asasino”. Primi piani di gente povera, ma nello sguardo, non sconfitta.
Da Colombo alle jieneteras
«A metà millennio Colombo sbarcava sulla terra più bella del mondo ancora ignoto, avviando la rapida scomparsa dei suoi indigeni» scrive Danilo Manera nella nuova edizione di Vedi Cuba e poi muori (Feltrinelli). «Con nuove genti venute dall’Europa e dall’Africa, l’isola ha conservato la sua dolcezza d’acque, cieli e fiori e continuato a fumare tabacco, ma ha conosciuto l’urlo della schiavitù e gli scoppi delle rivolte, il rapimento della danza e l’oblio del rum, il sussulto del sesso, i tuoni della storia e il gocciolio della povertà». Un passato, che insieme alla memoria della rivoluzione castrista e alle contraddizioni del presente, distilla umori nuovi nella nuova narrativa cubana. Che ha soprattutto il suo epicentro a ll’Avana, nel quartiere del Vedado dove si trova l’Uneac, l’associazione degli scrittori e artisti cubani che ha già visto crescere più generazioni di autor. Anche negli anni Ottanta quando salì alla ribalta una generazione di narratori caustici, spregiudicati, pronti a denunciare ogni faglia politica e sociale. Erano gli anni delle fughe disperate da Cuba verso Miami, del Periòdo especial. quando per tentare di far fronte all’embargo Usa il governo di Castro imponeva pesanti razionamenti. Anni in cui esplode la Trilogia sporca dell’Havana di Pedro J. Gutiérrez (edizioni e/o), ma anche il successo di Padura Fuentes e il talento di quello che è forse il più grande scrittore di quella generazione, Miguel Mejiedes. Poi, come ci ha scritto Manera nel libro A Labbra nude (Feltrinelli) sarebbe venuta la
generazione degli scrittori nati alla metà degli anni Sessanta, come Yoss (alias José M. Sanchez Gomez), una laurea in biologia e physique du rôle da divo rock; Yoss racconta l’Habana di notte, gli incontri imprevisti, le vite parallele di una gioventù colta, che si divide fra militanti dell’Unione della gioventù comunista e le jineteras cavallerizze) e i jineteros che amano la moda e il carpe diem negli alberghi frequentati da ricchi turisti, «con ironia e non senza un pizzico di nihilismo». Ma oggi rivela Manera con la raccolta La fiamma in bocca. Giovani narratori cubani (Voland) siamo già oltre e spuntano voci nuove nate negli anni Settanta e Ottanta . Scrittori che passano con disinvoltura dal realismo magico, al racconto storico, a derivati da cyberpunk e a impreviste contaminazioni di generi. Cresciuti artisticamente (perlopiù) al laboratorio di tecniche creative dell’Uneac, sostenuto dal Ministero della cultura cubano pubblicano in riviste e i racconti scelti da Manera per Voland sono tutti inediti.
L’ombra del Che
La storia del Che è anche la storia della costruzione letteraria di un mito come ha racconto Alberto Filippi in Guevariana (Einaudi) raccogliendo racconti, saggi, e pensieri che al medico e comandante Che Guevara hanno dedicato scrittori in ogni parte del mondo (da Saramago a Taibo, a Vazquez Montalbàn). Ora, ad arricchire la serie pressoché sterminata di biografie arrivano due nuovi volumi: la monumentale monografia del giornalista del New Yorker Jon Lee Anderson Che Guevara (Fandango), ricca di inediti grazie alla collaborazione di Aleida March e il prezioso, agile, volumetto di Roberto Borroni, Pombo, (Negretto editore) che racconta il Che attraverso la testimonianza di Harry Villegas detto Pombo: quando decise di unirsi alle truppe del Che aveva appena 17 anni.
dal quotidiano Terra 18 luglio 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 17, 2009
Dopo il racconto della Teheran Underground degli anni Novanta Azadeh Moaveni torna con un nuovo romanzo, che è una dura accusa al governo di Teheran
di Simona Maggiorelli

Iran protesta studentesca
Copertina rosa shocking e un titolo d’effetto come Lipstick jihad. L’esordio letterario di Azadeh Moaveni si presentava così in Italia nell’edizione Pisani del 2006. Quasi quattrocento pagine che in quella “confezione” da romanzo scandalo, a dire il vero, non risultavano troppo invitanti. Ma quel tomo ci aveva comunque incuriosito. Una rapida ricerca su internet e dai riverberi internazionali si poteva capire che il libro raccontava una Teheran sconosciuta ai più: il ritratto di una capitale dalla vivace vita artistica, anche se tutta underground.
Poi nella prosa rapida e icastica della giovane giornalista americana di origini iraniane trovammo anche di più: un potente affresco di una generazione non ancora trentenne, che negli anni Novanta a Teheran, si ritrovava in bar clandestini, faceva teatro, cinema, videoarte, piantava paraboliche abusive, leggeva libri censurati e discuteva laicamente in migliaia di blog. Armate di rossetto, come nel titolo del romanzo, in quella scena culturale viva e ramificata le studentesse giocavano un ruolo di primo piano. Nel suo complesso quella realtà giovanile sfaccettata e in movimento faceva sperare in un profondo cambiamento nell’Iran oppresso dal regime degli ayatollah. Fino a che non sono stati resi pubblici i risultati delle elezioni dello scorso giugno che hanno portato alla rielezione di Amadhinejad in molti ci hanno creduto. A cominciare da Moaveni. Anche se mentre scriveva articoli e faceva interviste da inviata del Los Angeles Time cogliendo tutti i segni del cambiamento, lavorava alla stesura del suo secondo romanzo che ha un tono assai più cupo del precedente. Quasi che, con sensibilità d’artista, Moaveni avesse colto l’incipiente escalation di violenza da parte del regime e l’avesse espressa in Matrimonio a Teheran (in uscita in Italia il 6 agosto per Newton Compton).
La storia autobiografica su cui si basa il romanzo, in realtà, è ambientata nei mesi che precedono la prima elezione di Amadhinejad ma alcune vicende che riguardano la corruzione di apparati di Stato, lo strapotere dei fondamentalisti e le violenze esercitate da militari e dai servizi segreti, appaiono del tutto sovrapponibili all’oggi. Dopo il primo viaggio in Iran nel 1999 Moaveni era tornata da inviata nel 2005 proprio per seguire le elezioni. Laureata, giornalista in carriera, single con passaporto Usa, ma al fondo sentendosi «una iraniana e una donna di cultura sciita secolarizzata». Un’identità complessa la sua. Anche più sfaccettata di quella dei propri genitori che, andati a studiare all’estero, dopo la deriva teocratica della rivoluzione del 1979, decisero di rimanere negli Stati Uniti ma pensandosi sempre degli esiliati.
Per lavoro ma anche per capire le radici di quella sotterranea nostalgia di sua madre, Azadeh aveva studiato farsi e aveva deciso di vivere a Teheran. Ma la realtà che si è trovata davanti e che racconta schiettamente in questo libro, l’ha costretta poi a prendere altre rotte. Innamorata di un giovane conosciuto a Teheran, quando è rimasta incinta, Azadeh ha dovuto nascondersi per paura che il regime scoprisse che non era sposata. La Teheran del sole bruciante e dei giovedì notte passati a sfrecciare come tutti i giovani su e giù per le strade con la musica a tutto volume, la Teheran dei ritrovi in casa di scrittori, registi e intellettuali in cui si poteva fumare bere e discutere di letteratura e di politica le mostrava ora il suo volto ufficiale più oscurantista.
Ma ciò che più pesa a Moaveni è non poter scrivere ciò che sa e pensa del moderato Kathami e delle sue promesse di liberalizzazione, quel che sa e pensa della stretta fondamentalista imposta da «un presidente senza qualità» come Amadhinejad la cui autorità dipende interamente dalla Guida suprema,l’ayatollah Khamenei. Un agente del Ministero delle informazioni che per tutto il romanzo Moaveni chiama Mister X da anni cercava di impedirglielo con ricatti sotterranei e un pressing psicologico da far tremare le vene e i polsi : «Non deve preoccuparsi. Torni in America e dica a tutti che siamo democratici» le ha sempre raccomandato con modi “gentili”. Ma ora Moaveni è riuscita a mettere tutto nero su bianco. «MrX ora esiste anche su carta- dice- e questo gli ha portato via per sempre il potere della segretezza».
da left-avvenimenti del 31 luglio 2009
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Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 15, 2009
Esce il Meridiano Mondadori dedicato a Kapuscinski, il grande giornalista e scrittore polacco. Nel frattempo Feltrinelli pubblica Giungla polacca che contiene i lavori degli anni 50 che ebbero una travagliata storia editoriale, andando incontro a censura. Ora escono in edizione integrale
di Simona Maggiorelli
“Viaggiare per scrivere un reportage esclude qualsiasi curiosità turistica. Esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica. A cominciare dalla conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di relax, in continua concentrazione… In un’ora dobbiamo registrare l’atmosfera e la situazione, vedere, sentire più cose possibili. Il viaggio per reportage esige un surplus emotivo e molta passione. Anzi la passione è l’unico motivo valido per farlo. è per questo che così poche persone praticano il reportage» raccontava Ryszard Kapuscinski in un’intervista pubblicata nel 2003 nel libro Autoritratto di un reporter (Feltrinelli). Per poi constatare con un pizzico di malinconia: «Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni Sessanta ci sono rimasto solo io. Gli altri sono diventati stanziali».
Coraggioso reporter di guerra e instancabile viaggiatore, curioso non tanto di conoscere nuovi fatti ma persone, storie, culture diverse, Kapuscinski (1932-2007) apparteneva a un tipo di giornalismo oggi, purtroppo, in estinzione: quello che passa settimane e mesi a studiare e documentarsi prima di partire. E poi impegna settimane e mesi per conoscere a fondo la realtà che vuole raccontare. Con un taccuino in tasca. Che Kapuscinski non tirava mai fuori. Perché prendere appunti in certe circostanze suscitava diffidenza e irrigidiva la conversazione. Ma soprattutto perché gli interessava conservare l’emozione e il senso più profondo di ciò che le persone gli regalavano di sé, per strada, nelle locande, nei quartieri più fuori mano, nei luoghi più imprevisti.
Anche quando si trovava in teatri di guerra, Kapuscinski non era tipo da scrivere i suoi pezzi standosene chiuso in albergo. «Il vero reporter – diceva- non abita all’Hilton: dorme dove dormono i personaggi dei suoi racconti. Mangia e beve con loro. è l’unico modo per scrivere qualcosa di decente».
Insomma se «ogni reportage degno di questo nome deve avere un pizzico di romanticismo» è vero che nella sua scrittura colta e insieme immediata, l’importante era la fedeltà al vissuto. Le date, le nozioni, i dettagli si possono ricostruire anche una volta rientrati a casa con valigie zeppe di libri. Torna in mente quando Kapuscinski annotava:« Con Kish potremmo dire che la descrizione delle difficoltà incontrate per arrivare sul posto a volte era più interessante dell’argomento in sé. Ma questo tipo di reportage è ormai finito. Ma non è finito il reportage d’autore, in cui approfondisce il problema, lo filtra attraverso la propria personalità, lo rende sfaccettato. Di questo ci sarà sempre bisogno».
Con questo “metodo” sono nati libri indimenticabili come Ebano (1998) dai reportage realizzati nell’amata Africa. Ma anche un capolavoro di inchiesta e letteratura come Shah-in-Shah (1982), frutto di un anno passato in Iran quando l’ayatollah Komeini prese il potere. Insieme a Imperium (1993) dedicato al dissolvimento dell’impero sovietico e a Il Negus (1978), il libro che lo segnalò al pubblico più ampio, Ebano e Shah-In-shah formano il nucleo centrale del Meridiano che Mondadori dedica al giornalista e scrittore polacco. A fare da filo rosso di questa ininterrotta narrazione di oltre 1.600 pagine la ricostruzione puntuale di spaccati di storia del Novecento e un convincimento profondo: «Quello del reporter è un mestiere troppo difficile per i cinici, richiede troppo sacrificio e impegno», sconfessando ogni stereotipo da giornalista d’assalto.
«Parole che traeva dal suo modo di essere”, ha detto Silvano De Fanti presentando il Meridiano Mondadori che ha curato insieme alla traduttrice Vera Veridiani. «Aveva una grandissima capacità di comunicare, di entrare in sintonia con gli altri – ricorda il docente di polacco dell’università di Udine -. Era convinto che dentro ogni uomo ci fosse una bontà; talvolta nascosta, ma che riuscendo ad arrivare a questo nucleo originario si possa stabilire un dialogo con chiunque, a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze religiose».
Un tratto che si ritrova già sorprendentemente incarnato nelle pagine di Giungla polacca, la raccolta di scritti realizzata quando – dopo gli studi in storia a Varsavia – Kapuscinski già lavorava per l’agenzia di stampa Pap e decise di raccontare la Polonia più profonda. Basta leggere lo scambio di battute all’apparenza surreale, di fatto radicalmente spiazzante fra Kofi e , Kwesi e il grande Nana, capo di una tribù del Ghana che si incontrano con Kapuscinski nel pezzo omonimo del libro. Camminando nella giungla Kofi aveva spiegato all’autore: “Per cento anni ci hanno inculcato che i bianchi erano il meglio del meglio, degli esseri superiori… Sapevamo che al mondo c’era solo l’Inghilterra, che Dio era inglese… sapevamo solo quello che loro volevano che noi sapessimo. Adesso è difficile disabituarsi».
Ma a Kapusinski arriva dritta al cuore anche la domanda di un ragazzo che tagliando la legna gli chiedeva a bruciapelo: « Come si chiama il tuo paese?” “Polonia”». La Polonia, gli spiega Kapuscinski, «è lontana, oltre il Sahara, oltre il mare, verso il Nord, l’Oriente…Il mio Paese non ha colonie. Anzi c’è stato un tempo in cui era una colonia. Con tutto il rispetto per le vostre sofferenze… Da noi, però, sono successe cose spaventose: c’erano tram, ristoranti e quartieri solo per tedeschi. Ci sono stati i campi di concentramento… Si chiamava fascismo la peggior specie di colonialismo mai esistita».
Un libro, Giungla polacca,uscì per la prima volta nel 1962 dopo una storia editoriale travagliata di stop e censure. Ora utilmente Feltrinelli lo pubblica in italiano facendoci scoprire anche un Kapuscinsky anticlericale che denuncia la violenza delle suore e della religione su una studentessa. Nel pezzo “Ratto di Elzbieta” il giornalista ricostruisce l’agghiacciante sistema psicologico usato in una scuola cattolica per “convincere” una giovane a farsi suora. Facendo leva sulle sue fragilità e paure.
dal quotidiano Terra del 16 luglio 2009
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