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Una Rumba per l’Unesco

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 21, 2012

Lo scrittore cubano Miguel Barnet in difesa della Rumba: “E’ patrimonio dell’umanità l’Unesco dovrebbe riconoscere questa musica che è stato per secoli canto di libertà. Agli schiavi era stato tolto tutto, la loro unica rma era la creatività”

di Simona Maggiorelli

Nella storia cubana la Rumba e la sua tradizione orale sono state un elemento aggregante e di identità della comunità nera di origini africane, fin dai primi schiavi portati a Cuba, con violenza, dagli spagnoli. Anche per questo il ritmo sensuale e vitale della Rumba fu spesso censurato.

«Il sistema colonialista che è stato responsabile di quello che l’Unesco ha giudicato un crimine contro l’umanità, ossia la schiavitù, censurò tutte le espressioni culturali che gli uomini e le donne resi schiavi apportarono ai Paesi colonizzati», racconta lo scrittore Miguel Barnet, figura storica della scena culturale dell’Avana. «Le persone che poi furono schiavizzate furono rapite e messe in catene, molti morivano in alto mare a causa del tifo e della malaria. Tutte le espressioni che crearono furono censurate ma gli schiavi riuscirono comunque a sopravvivere grazie alla creatività», denuncia lo scrittore.

«Quanto alla Rumba in senso stretto è uno dei generi creati da uomini e donne neri non esattamente nell’ambito della schiavitù. Ma anche questo genere fu naturalmente censurato. Oggi la Rumba è una parte indissolubile della nostra identità culturale». Tanto che per lo stesso Barnet diventa il respiro profondo e il ritmo della scrittura, in libri come Autobiografia di uno schiavo (Einaudi) che ha rivelato Miguel Barnet al pubblico internazionale anni fa ma anche, e più esplicitamente, ne Le regine dell’Avana (Einaudi), in cui Barnet ci regala ritratti di donne cubane come “quadri musicali”. Lo scrittore cubano  è in questo giorni in Italia per sostenere  la compagna per il riconoscimento della “Rumba patrimonio dell’umanità”. «Io penso che la Rumba, di per se stessa, faccia già parte del patrimonio dell’umanità»,sottolinea. «Questo perché è nata a Cuba ma successivamente si è diffusa in tutto il mondo, internazionalizzandosi e divenendo globale, prima della cosiddetta globalizzazione. La Rumba è suonata in tutto il mondo, con moltissime varianti. Spero che l’Unesco voglia riconoscere tutto questo».

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Le avventure di un geniale grafomane

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 13, 2010

Dopo la prematura scomparsa di Roberto Bolaño  dai suoi archivi sono uscite migliaia di pagine inedite. La raccolta Tra parentesi uscita per Adelphi propone una scelta dei suoi testi saggistici e di riflessione sull’esilio e sulla letteratura

di Simona Maggiorelli

Roberto Bolano

Si sono spesso scomodati nomi di autori già “classici” come Borges e narratori di tendenza, scuri e seducenti come Villa Matas o Gutierréz per raccontare la prosa visionaria, senza margini quanto onnivora di generi letterari di Roberto Bolaño (Santiago del Cile, 1953 – Barcellona, 2003). Anche se il paragone, per quanto lusinghiero per lo scrittore cileno che ha attraversato come una meteora l’orizzonte del secondo Novecento lasciando una scia di migliaia di pagine, riesce a chiarire solo in parte la sua figura di outsider.

Con Borges, è vero, Bolaño ha in comune una sterminata cultura, ma non ne ha ereditato la geometrica freddezza, l’andatura labirintica e caustrofobica. Ad avvicinare Bolaño al cubano Juan Gutièrrez (l’autore de La trilogia sporca dell’Avana), invece, sono la scrittura ruvida e l’amore incondizionato per le donne, ma anche il successo tardivo nonché una miriade di lavori umili per campare. Ma nella torrenziale scrittura del cileno non c’è traccia di quel furor sordo e rabbioso che ha meritato a Gutierrèz l’etichetta di Bukowski dell’Avana. E ancora. Con lo spagnolo Enrique Vila Matas, l’autore di 2666 (Adelphi) e di Notturno cileno (Sellerio) ha in comune la capacità di raccontare piccole sovversioni quotidiane, il gusto di mescolare commedia e tragedia, di scegliere come personaggi inconsapevoli funamboli della vita.Ma Bolaño non ama il non sense, al gesto surrealista fine a stesso come il disincantato collega spagnolo. Una profonda fiducia nell’umano e nel valore positivo dell’arte non abbandonano mai il suo lavoro.

E si potrebbe continuare a lungo in questo gioco di avvicinamenti e prese di distanza perché l’universo letterario di Bolaño è sotterraneamente abitato da tutti gli autori che ha letto e amato. A molti di loro ha dedicato anche appassionate note letterarie, articoli, brevi saggi che, grazie alla cura di Ignacio Echevarrìa, ora si possono leggere tutti di un fiato nella raccolta Tra parentesi edita da Adelphi. Un appassionante quanto imprevedibile zibaldone di note autobiografiche, pezzi di critica letteraria, tuffi nel mondo dell’arte e riflessioni sulla scrittura e sul senso della letteratura. Ma vi si scovano anche pagine di storia personale, quasi diaristiche, in cui racconta rocambolesche vicende come quelle che lo portarono ad attraversare mezza America latina per raggiungere, con mezzi di fortuna, il suo paese natale, il Cile. Bolaño vi fece ritorno nel ‘73 per appoggiare le riforme socialiste di Salvador Allende. Ma riuscì ad arrivare solo alcuni giorni dopo il colpo di stato di Pinochet.

Senza esitare Bolaño decise di unirsi alla Resistenza ma fu subito arrestato. Riuscì poi a uscire di prigione otto giorni dopo grazie a un vecchio compagno di scuola fra le guardie di vigilanza. Una vicenda che racconta della sua passione civile, della sua generosità, ma anche di quella disarmante curvatura picaresca che assunsero alcune vicende cardine della sua vita e che colora tutta la sua vicenda letteraria, dai primi esperimenti di avanguardia al Café dell’habana di Città del Messico dove Bolaño fondò il movimento infrarealista, al torrenziale romanzo, 2666 che lo scrittore cileno, (scomparso prematuramente a cinquant’anni) non riuscì a portare a termine. Uscito postumo 2666 è diventato quasi subito un caso editoriale a livello internazionale. Protagonista di quelle mille e passa pagine è il misterioso Benno von Arcimboldi, già personaggio sullo sfondo di un altro libro cult di Bolaño, I detective selvaggi. Ma, come se i libri dello scrittore cileno fossero pezzi di un’unica grande trama, vi si possono ritrovare rimandi anche ad Anversa (Sellerio), l’esordio in prosa di un Bolaño allora ventisettenne e in fuga da una feroce dittatura, finito in Spagna, a Barcellona, senza permesso di soggiorno. Anversa si presenta come un’opera rapsodica, frammentaria, scritta quasi di spigolo, tanto quanto 2666 è, invece, generoso e vitale. Ma entrambe appaiono contrassegnate da una cifra visionaria, da continui cut up. Bolaño scrive mosso da un’urgenza profonda, come se avvertisse che non ha tempo da perdere. Odia le maschere, i manierismi, gli infingimenti. E anche se scrive divinamente non ama la bella scrittura: «Non significa nulla scrivere bene- annotava- perché questo può farlo chiunque, e neppure scrivere meravigliosamente bene, perché anche questo può farlo chiunque. Allora cos’è la qualità della scrittura? È quello che è sempre stato: saper cacciare la testa nel buio… sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso».

Dal quotidiano Terra del 12 febbario 2010

Dalla raccolta Tra parentesi di Roberto Bolaño, ecco alcuni flash della sua cartografia personale:

sulla scrittura. Nella mia cucina letteraria ideale abita un guerriero che alcune voci chiamano scrittore.Questo guerriero non fa altro che combattere. Sa che alla fine qualunque cosa faccia verrà sconfitto.Eppure percorre la cucina letteraria che è di cemento, e affronta il suo avversario senza dare né chiedere quartiere.

sul cubismo: “ Breaque. insieme a Juan Gris e a Picasso, formò la santissima trinità del cubismo, nella quale il ruolo di dio padre era appannaggio assoluto di Picasso, e il ruolo del figlo, un figlio ancora oggi un po’ incompreso, era affidato al sorprendente Juan Gris, che in un’altra opera teatrale avrebbe potuto interpretare senza problemi un ciclope, mentre il destino riservava a Braque, il solo francese del trio, il ruolo di spirito santo che, come si sa, è il più difficile di tutti e quello che strappa al pubblico meno applausi”.

sul surrealismo: “In quale misura incise, insieme al situazionismo,sul Maggio del ’68 c’è stato un surrealismo clandestino negli ultini trent’anni del Novecento? Il raggio d’azione del surrealismo delle cloache si estese unicamente all’ambito europeo o vi furono ramificazioni americane, asiatiche, latinoamericane?…non sarà che il surrealismo entrò davvero in clandestinità e lì, nelle cloache, morì davvero in clandestinità e lì, nelle cloache, morì O che solo una parte del surrealismo entrò in clandestinità, mentre la vecchia guardia copriva la ritirata con cadaveri squisiti e objects trouvès per dare un’impressione di quiete quando in realtà si stava effettuando una manovra di ripegamenyo?”

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La Habana di notte. La nuova onda di scrittori cubani

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 18, 2009

habana-noche-413x450di Simona Maggiorelli

Di notte l’Avana è più bella che mai. Le luci gialle dei lampioni attenuano le rughe e le ferite del centro antico e dei palazzi della Bella epoque. Nel caldo umido dei vicoli, sul Malecòn corroso dal salmastro dove arrivano alti i cavalloni, i bambini, scalzi, giocano e ridono a tutte le ore. Mentre le ragazze, poco più in là, si vendono. E’ la Cuba delle molte contraddizioni e «di una bellezza che non lascia scampo» quella raccontata per immagini dal fotografo Sandro Miller in Imagine Cuba 1999-1997 (Charta). Nel suoi scatti l’organismo fragile dell’Habana veja, l’umido sgretolarsi dei palazzi coloniani ma anche l’azzurro abbagliante del mare, la musica che non smette mai, l’allegria delle spiagge dove le famiglie arrivano cariche di frutta e stereo a spalla. Più che i luoghi sono i primi piani a parlare; primi piani di bambini che ridono a gola aperta e ragazzini che guardano l’obiettivo malinconici tenendosi la faccia fra i guantoni. Vecchi che giocano a carte in strada e ragazzine che si fanno fotografare vestite come Rossella O’Hara per la festa dei 15 anni. E ancora ragazzini stipati sui mezzi pubblici (che per risparmiare, in discesa, vanno “in folle”) e che sfrecciano in motorini scassati davanti ai cartelloni con la faccia di Bush con su la scritta “El asasino”. Primi piani di gente povera, ma nello sguardo, non sconfitta.

Da Colombo alle jieneteras

«A metà millennio Colombo sbarcava sulla terra più bella del mondo ancora ignoto, avviando la rapida scomparsa dei suoi indigeni» scrive Danilo Manera nella nuova edizione di Vedi Cuba e poi muori (Feltrinelli). «Con nuove genti venute dall’Europa e dall’Africa, l’isola ha conservato la sua dolcezza d’acque, cieli e fiori e continuato a fumare tabacco, ma ha conosciuto l’urlo della schiavitù e gli scoppi delle rivolte, il rapimento della danza e l’oblio del rum, il sussulto del sesso, i tuoni della storia e il gocciolio della povertà». Un passato, che insieme alla memoria della rivoluzione castrista e alle contraddizioni del presente, distilla umori nuovi nella nuova narrativa cubana. Che ha soprattutto il suo epicentro a ll’Avana, nel quartiere del Vedado dove si trova l’Uneac, l’associazione degli scrittori e artisti cubani che ha già visto crescere più generazioni di autor. Anche negli anni Ottanta quando salì alla ribalta una generazione di narratori caustici, spregiudicati, pronti a denunciare ogni faglia politica e sociale. Erano gli anni delle fughe disperate da Cuba verso Miami, del Periòdo especial. quando per tentare di far fronte all’embargo Usa il governo di Castro imponeva pesanti razionamenti. Anni in cui esplode la Trilogia sporca dell’Havana di Pedro J. Gutiérrez (edizioni e/o), ma anche il successo di Padura Fuentes e il talento di quello che è forse il più grande scrittore di quella generazione, Miguel Mejiedes. Poi, come ci ha scritto Manera nel libro A Labbra nude (Feltrinelli) sarebbe venuta la che-guevaragenerazione degli scrittori nati alla metà degli anni Sessanta, come Yoss (alias José M. Sanchez Gomez), una laurea in biologia e physique du rôle da divo rock; Yoss racconta l’Habana di notte, gli incontri imprevisti, le vite parallele di una gioventù colta, che si divide fra militanti dell’Unione della gioventù comunista e le jineteras cavallerizze) e i jineteros che amano la moda e il carpe diem negli alberghi frequentati da ricchi turisti, «con ironia e non senza un pizzico di nihilismo». Ma oggi rivela Manera con la raccolta La fiamma in bocca. Giovani narratori cubani (Voland) siamo già oltre e spuntano voci nuove nate negli anni Settanta  e Ottanta . Scrittori che passano con disinvoltura dal realismo magico, al racconto storico, a derivati da cyberpunk e a impreviste contaminazioni di generi. Cresciuti artisticamente (perlopiù) al laboratorio di tecniche creative dell’Uneac, sostenuto dal Ministero della cultura cubano pubblicano in riviste e i racconti scelti da Manera per Voland sono tutti inediti.

L’ombra del Che

La storia del Che è anche la storia della costruzione letteraria di un mito come ha racconto Alberto Filippi in Guevariana (Einaudi) raccogliendo racconti, saggi, e pensieri che al medico e comandante Che Guevara hanno dedicato scrittori in ogni parte del mondo (da Saramago a Taibo, a Vazquez Montalbàn). Ora, ad arricchire la serie pressoché sterminata di biografie arrivano due nuovi volumi: la monumentale monografia del giornalista del New Yorker Jon Lee Anderson Che Guevara (Fandango), ricca di inediti grazie alla collaborazione di Aleida March e il prezioso, agile, volumetto di Roberto Borroni, Pombo, (Negretto editore) che racconta il Che attraverso la testimonianza di Harry Villegas detto Pombo: quando decise di unirsi alle truppe del Che aveva appena 17 anni.

dal quotidiano Terra 18 luglio 2009

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