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Biennale 2013. Lo strano mondo di Gioni

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 9, 2013

Massimiliano Gioni

Massimiliano Gioni

Visioni futuribili e antichi miti. Messaggi esoterici , stregonerie e opere come reperti etnografici. Nel suo Palazzo enciclopedico il direttore della 55esima Biennale di Venezia crea una bizzarra  camera delle meraviglie anni Duemila

di Simona Maggiorelli

Il ricciolo monumentale di Roberto Cuoghi, barocco omaggio a una natura ancestrale e possente, ci introduce nell’atmosfera magica e atemporale di questa 55esima Biennale d’arte di Venezia che affida la mostra internazionale a Massimiliano Gioni, curatore under 40 con alle spalle esperienze importanti come la Biennale di Berlino del 2006 ( curata insieme a Maurizio Cattelan) e la codirezione del New Museum di New York.

Accanto alla scultura totem di Cuoghi intitolata Belinda (2013) che sembra precipitata al centro dell’Arsenale di Venezia come una misteriosa pietra di un’antica civiltà scorrono opere grafiche e serie fotografiche che con mezzi espressivi opposti tracciano mappe di paesaggi sconosciuti, che ci invitano ad esplorare luoghi lontani, orizzonti di fantasia creati da artisti da ogni parte del mondo. Sono più di centocinquanta, infatti, gli artisti invitati da Gioni: di questi la stragrande maggioranza non ha mai partecipato alla Biennale di Venezia. E in queste sale si trovano ad esporre accanto a nomi affermati, del passato e del presente da Bruce Nauman a Cindy Sherman, da Jimmie Durham a Paul McCarthy e Steve McQueen. Fino agli italiani Enrico Baj e Domenico Gnoli, scomparsi da anni, e a superstiti maestri dell’arte povera come Diego Perrone, Giulio Paolini e Marisa Merz ( Leone d’oro alla carriera).

Cuoghi, Belinda (2013)

Cuoghi, Belinda (2013)

Tutti insieme senza gerarchie o contestualizzazioni temporali in questo strano e stravagante castello dei destini incrociati dell’arte mutuato dalla bizzarra idea di un artista dilettante, un meccanico italo americano Marino Auriti che attorno al 1950 immaginò un Enciclopedico Palazzo, ovvero un museo che nel cuore di Washington avrebbe dovuto raccogliere tutto il sapere del mondo.

Ed è come se Gioni avesse indossato gli stivali delle sette leghe per percorrere in lungo e in largo la storia dell’arte, raccogliendo reperti di ogni epoca per comporre questa sua personalissima wunderkammer, una camera delle meraviglie che mette insieme le ricreazioni di miniature moghu del pakistano Imran Querishi e i manichini in stile hollywood dell’americano Charles Ray, il bestiario fantastico alla Borges dell’ebreo Levi Fisher Ames e le colorate opere di arte etnica e naïf dell’africano Frédéric Bouabré, la reinvezioni di mito del Golem dell’esperta di filosofie esoteriche Hilma af Klint e le divagazioni sul tema del doppio del fotografo belga Norbert Ghisoland.

Jung, libro rosso

Jung, libro rosso

E ancora le visioni di Aleister Crowley, esoterista tra i fondatori dell’occultismo accanto ai deliri del Libro rosso di Jung, esposto qui, fra bandiere vudù haitiane e bambole semoventi, come uno dei tanti assurdi cimeli che ci hanno lasciato in eredità Ottocento e Novecento insieme allo spiritismo da salotto, i soldatini di piombo e tragici scalpi di un Occidente imperialista che riduceva a curiosità etnografica l’arte razziata nella grande Africa.

Massimiliano Gioni in questo suo Palazzo enciclopedico gioca con i pregiudizi, ne espone i feticci, per mostrare come ormai siano solo delle pellicce da carnevale. Lo fa buttando a gambe all’aria compartimentazioni di saperi, di generi, di linguaggi. Facendosi entomologo dell’arte che appende al muro con spilloni come fossero farfalle rare opere raccolte in giro per il globo oppure create ad hoc per questa sua raccolta delle meraviglie distribuita senza soluzione di continuità per tutti i 10mila metri quadri dell’esposizione.

E se questa sua giocosa macchina del tempo ha il merito , comunque sia,  di liberarci dall’agghiacciante concettualismo che ha dominato le ultime due Biennali dell’arte, sembra però riportarci tout court alle estetiche surrealiste di cui torna ad elogiare il confuso profetismo, gli slogan e le parole d’ordine ( «Ogni cosa può essere arte») e le fantasticherie intorno ai temi del primitivo, dell’originario, della notte , della follia. Che proprio nell’orizzonte surrealista, smise di essere la bella follia, l’originalità rivendicata dagli artisti del Rinascimento per diventare esaltazione della pazzia, della dissociazione ( la scrittura automatica) della violenza («L’azione surrealista consiste, rivoltelle in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso fra la folla» diceva Breton). Un’estetica che, come ha scritto Jean Clair in Processo al surrealismo (Fazi) «ha plasmato milioni di menti ed è entrata a far parte del nostro habitus, dalla pubblicità all’estetica cinematografica». E che forse è venuto il tempo di smascherare.

I SOGNI INQUIETI DELL’ITALIA

Francesca Grilli Mostra Vice Versa

Francesca Grilli Mostra Vice Versa

Il filo della storia italiana è ripercorso per suggestivi frammenti in questo Padiglione italiano dove il direttore del Macro, Bartalomeo Pietromatchi presenta, fino al 24 novembre, la sua mostra dal titolo “Vice Versa”, con molte opere inedite create ad hoc per questa 55esima Biennale di Venezia. Così, dopo la caotica e gridata edizione 2011 del Padiglione italiano diretto da Vittorio Sgarbi, alle Tese delle Vergini e all’Arsenale ci vengono incontro, discrete e silenziose, quasi in punta d piedi, visioni di un’Italia dal futuro incerto e che dorme sonni inquieti per l’impossibilità di riconciliarsi con il proprio passato.

Quello inaccettabile del nazi fascismo stigmatizzato qui da uno scabro reperto in bianco e nero recuperato dall’archivio di Fabio Mauri. E quello della stagione degli anni di piombo evocato da una performance di una giovane artista Francesca Grilli che ha immaginato un microfono capovolto che penzola dal soffitto e che nessuno sembra avere il coraggio di afferrare per dire la verità su quella macchia rosso sangue che si va allargando su una pedana di legno che si fa metafora della pubblica piazza. Verità e censura, memoria e amnesia sono i temi che ricorrono in questi 7 spazi, in cui dialogano a due a due 14 artisti. Fra loro artisti affermati della generazione dei quaranta/cinquantenni come Massimo Bartolini e Luca Vitone, giovani come Piero Golia e Frncesco Arena, ma anche maestri come Giulio Paolini, con i suoi vertiginosi giochi prospettici e Marco Tirelli con le sue diafane scacchiere. La nostalgia struggente per certi scorci italiani, per una bellezza che non lascia scampo, ritorna nele fotografi edi Luigi Ghirri mentre una cassa da morto coperta di schedine del totocalcio realizzata da Sislej Xhafa racconta come ce la siamo giocata. s.m.

LEONE D’ORO ALL’ANGOLA

01_studioazzurroIl Leone d’oro 2013 della 55esima Biennale di Venezia è andato al Padiglione dell’Angola per la mostra “Luanda, Encyclopedic City” che racconta il fermento creativo che sta attraversando la capitale angolana, dopo anni molto difficili. E se la Cina in Laguna brilla per l’ironia con cui rilegge i topoi dell’arte occidentale, fra le new entries, il padiglione del Vaticano si segnala per un trittico che vorrebbe riaffermare il mecenatismo ecclesiastico nel nuovo millennio. Costato 750mila euro, di cui 300mila stanziati dalla Biennale, il Padiglione del Vaticano presenta un’opera di videoarte sulla Genesi firmata da Studio Azzurro (in stile estetizzante alla Bill Viola) alcune opere fotografiche del ceco Josef Koudelka, sul tema De-Creazione, e niente meno che visioni di una Nuova Umanità o Ri-Creazione del pittore americano Lawrence Carrell, esponente dell’Arte Povera.

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Anteprima Biennale di Venezia. Pietromarchi: “il mio padiglione italiano, fra arte e storia”

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 2, 2013

Biennale d'arte Venezia, 2013

Biennale d’arte Venezia, 2013

di Simona Maggiorelli

Lontano dall’idea che l’epicentro dell’arte sia, sempre e comunque, in capitali occidentali come New York, Londra e Parigi,  Bartolomeo Pietromarchi, curatore del padiglione Italia 2013 alla Biennale di Venezia è un attento e curioso esploratore anche di culture lontane, come quelle asiatiche.  Come racconta la bella mostra del giapponese Hidetoshi Nagasawa che ha voluto al Macro di Roma da lui diretto e la prossima retrospettiva romana dell’artista Ji Dachun, che riprende l’antica tradizione cinese per leggere il contemporaneo. Ma Bartolomeo Pietromarchi è anche e soprattutto uno studioso di arte italiana contemporanea.

Agli ultimi cinquant’anni della nostra storia il direttore del Padiglione Italia del- la Biennale internazionale di arte 2013 ha dedicato il suo ultimo libro L’Italia in opera, la nostra identità attraverso le arti visive, uscito nel 2012 per Bollati Boringhieri. Un volume in cui, forte dell’esperienza alla Fondazione Adriano Olivetti (che ha diretto dal 2002 al 2007) traccia un’appassionata mappa delle arti visive italiane che narrano il nostro tempo presente. Raccontando come l’Italia sia diventata «il soggetto di opere che con impegno politico e civile scandagliano le cronache quotidiane e i nodi irrisolti della nostra storia». «Opere che – scrive il critico d’arte – s’infiltrano tra le pieghe di realtà sommerse, scuotono le coscienze e aprono squarci di verità scomode o ignorate».

Pietromarchi, il pensiero espresso nel suo libro è anche alla base della collettiva inti- tolata Vice versa nel suo Padiglione Italia alla Biennale che si apre il primo giugno?

Bartolomeo Pietromarchi

Bartolomeo Pietromarchi

E’ un pensiero che giunge da lontano, che fa tesoro della lezione di Olivetti e si è sviluppato in un percorso che ho fatto in questi anni seguendo, con studi e mostre, sia gli artisti della mia generazione, nati intorno al ’68, sia quelli della generazioni precedenti. Il Padiglione italiano rappresenta per me un passaggio ulteriore, un approfondimento ma anche un sostegno e una promozione dell’arte italiana degli ultimi anni. Ci credo moltissimo. Ci sono molti artisti validi nel nostro Paese ai quali però manca un sostegno quantitativo e continuativo. Molto spesso gli artisti italiani devono trovarsi le proprie occasioni andando all’estero. Qui non trovano chi li sostenga con una strategia. Mi piacerebbe che questo mio lavoro potesse essere un segnale di come si può e si deve fare a livello istituzionale. Con un po’ di creatività, che è la cosa fondamentale

Tra il caos della collettiva organizzata due anni fa da Vittorio Sgarbi e l’aristocratica mostra di Ida Gianelli che scelse due soli autori, lei come si collocherà?

Ho scelto 14 artisti. Il progetto Vice versa prevede 7 ambienti: di cui 6 sono all’interno del Padiglione e uno è nel Giardino delle Vergini. Ogni ambiente ospiterà due artisti per volta, accostati in un dialogo ideale sulla base di affinità sia tematiche che processuali. È pensato come una riflessione sulla loro opera. Ma il curatore ha anche il compito di aiutare gli artisti, di metterli nelle condizioni perché possano esprimersi al meglio.

Un esempio di “connessione”?

ca-giustinian-biennale-veneziaQuella fra Fabio Mauri e Francesco Arena sul tema del corpo e della storia, per esempio. Entrambi hanno interpretato passaggi importanti della nostra storia: Mauri, il fascismo, Arena, il terrorismo. Ma filtrati attraverso il proprio corpo.In Mauri la performance. Con Arena ritroviamo quei suoi lavori che fanno riferimento al suo corpo come misurazione delle cose.

L’attenzione al sociale ha sempre connotato fortemente il suo lavoro di curatore. Anche in questo caso?

Sì, per me l’arte è inscindibile da una prospettiva sociale. E i veri artisti interpretano il loro tempo. Questo nel Padiglione sarà estremamente evidente. Da curatore penso sia importante arricchire il lavoro degli artisti con la sociologia, con la storia, con la politica, in senso alto. Anche con la geografia. A Venezia ci sarà, per esempio, Luigi Ghirri che ha lavorato tantissimo sull’idea di paesaggio. Così come Luca Vitone. Saranno insieme nella stessa stanza. In tutto il mio percorso è sempre stato vitale questo tipo di approccio.

Già questo è un elemento di novità rispetto al main stream che va per la maggiore nei musei occidentali…

Forse sono meno visibili di altri ma ci sono artisti che affrontano questioni a livello globale, non solo a livello locale. Parlo di un’arte che ha riflettuto sulle tematiche del territorio, del sociale, a livello politico. Un tipo di arte con cui molti della mia generazione sono cresciuti. Il tipo di arte di cui lei parla è ascrivibile a una dimensione di mercato. E in effetti in questi anni a prevalere sono state altre logiche, legate a derive di quel sistema. Il mercato in sé non sarebbe un male ma negative sono le derive del mercato, quando il mercato diventa speculazione, quando diventa pura finanza e alcuni musei, gallerie e molti collezionisti hanno rivolto l’attenzione a quell’aspetto. Con la crisi, oggi, questo sistema si è molto ritratto. Un tipo di arte di “successo” fa già parte di un panorama passato. E un altro modo di fare arte penso abbia ora la possibilità di essere più visibile.

La crisi, paradossalmente, ha avuto effetti positivi?

Positivi fra virgolette. Virtualmente positivi. Anche questo sarà evidente a Venezia. Gli interventi saranno molto secchi, le opere non voglio dire che siano dure, ma avranno un aspetto di grande impegno. Anche rispetto allo spazio, che sarà molto forte, molto caratterizzato. Gli artisti stanno sviluppando dei progetti che reagiscono al contesto. Visivamente sarà un percorso teso. Di certo non farà leva sulla decorazione.

Nelle ultime tre edizioni della Biennale d’arte, nella mostra internazionale, ha prevalso l’arte concettuale, quella più autoriflessiva, razionale, disseccata. Al confronto le ultime edizioni delle Biennali architettura sono apparse più ricche di fantasia, “calde”, coinvolgenti. Forse perché l’architettura deve tener conto dell’abitare umano.

C’è una distinzione da fare: mentre i padiglioni nazionali presentano delle monografiche o comunque contano su un numero limitato di artisti e lì si può fare un discorso curatoriale, la mostra principale, quella internazionale, ha a che fare con più di cento artisti; ha a che fare con tutto e con tutti, l’obiettivo è far vedere, documentare ciò che sa accadendo. Con titoli molto ampi. Per usare un eufemismo. Titoli del tipo “Fare mondo”, “Illuminazioni”…

Massimiliano Gioni

Massimiliano Gioni

Ma non è responsabilità anche di quelli che Bonito Oliva chiama «curatori camerieri»?

Certo, c’è chi tenta di dare una propria visione e chi fa un lavoro più di servizio. Non è il caso di Massimiliano Gioni (il direttore della Biennale 2013, ndr) a mio avviso, che invece ha individuato un tema molto interessante e guarda anche fuori dal mondo dell’arte recuperando aspetti antropologici, sociologici, intorno al tema dell’archivio e della classificazione.

Con uno sguardo al mondo della moda?

No, decisamente.

Lei ha sempre detto che le piace collaborare. Con Gioni avete avuto modo di confrontarvi in questi mesi?

Collaborare è una parola grossa in questo caso. Il tempo è pochissimo. Però ho trovato molti punti di contatto nella scelta dei temi, c’è un contesto che ci unisce. La collaborazione invece si è sviluppata nel grande team che sta lavorando al padiglione e per la realizzazione del catalogo: ho invitato più autori – fra loro Marco Belpoliti, Elena Volpato e Stefano Chiodi – ad affrontare le tematiche sviluppate dagli artisti nelle varie stanze. Questa riflessione sfocerà in un convegno ad ottobre dove riprenderemo i fili di quanto succederà in Biennale.

dal settimanle left

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