Giacometti versus Bernini
Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 15, 2014
Nelle sale della Galleria Borghese a Roma va in scena un inedito confronto fra l’opera dello scultore svizzero Alberto Giacometti e la statuaria classica e barocca
di Simona Maggiorelli
Come accadde qualche anno fa con la mostra Caravaggio e Bacon alla Galleria Borghese, il confronto fra autori appartenenti ad epoche e culture diverse e lontanissime fra loro suscita sempre il sospetto di una ricerca di sensazionalismo, che si rivela poi senza sostanza e costrutto.
E un certo stridore, a tutta prima, si leva anche dall’ardito accostamento fra uno scultore esistenzialista come Alberto Giacometti (1901-1966), esponente di punta del surrealismo tra il 1926 e il 1935, e un campione dell’arte barocca come Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), maestro di un realismo immaginifico e levigato alla corte romana del cardinal Scipione Borghese con capolavori come il gruppo Apollo e Dafne.
Possono due autori essere più distanti fra loro, non solo per contesti storici e culturali ma anche per poetica? Domanda pleonastica. Ma che con nostra sorpresa, ci appare già pallida e sfuocata, attraversando le prime sale della mostra Giacometti, la scultura ( aperta fino al 25 maggio 2014, catalogo Skira). In primis per l’elegante selezione di una quarantina di bronzi, marmi, gessi e disegni dello scultore svizzero operata dal curatore Christian Klemm, insieme alla direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva.
Ridotta a un paio di pezzi, fra i quali Femme égorgée (una mostruosa e “raffinata” figura di donna insetto-mutilata, che ricorda una mantide religiosa) l’esemplificazione di quella cifra di bizzarria capziosa e inquietante che Giacometti sviluppò nel periodo di stretto sodalizio con André Breton, Michel Leiris e altri surrealisti, sono state privilegiate qui alcune delle sue più vibranti figure filiformi, esili e beckettiane, che caratterizzano la fase più matura dell’indagine giacomettiana sulla condizione umana, che per lui aveva sempre un fondo tragico. E accanto a possenti sculture della statuaria antica appartenenti alla collezione della Galleria Borghese s’insinuano frammenti di sculture, braccia e mani, che per metonimia evocano una tormentata e inquieta dimensione esistenziale, lontana anni luce dall’ideale di un’aurea e pacificata classicità. Più in là l’equilibrio instabile de L’homme qui chavire (1950) fa da controcanto alla torsione eroica del David che Bernini, diversamente da Michelangelo e da Donatello rappresenta in azione, all’acme della lotta. Ma ecco anche l’Homme qui marche (1960), con la sua falcata leggera e che idealmente ricrea l’omonima scultura di Rodin, criticandone il trionfante e muscolare vitalismo.
E passando dalla sinteticità dinamica della Femme couchée qui rêve (1929) alle suggestioni dell’arte cicladica evocate da sculture quasi piatte, a visione frontale in marmo bianco come Tête qui regarde (1929) con buchi e impronte ovali che animano leggermente la superficie, è come se Alberto Giacometti ci invitasse in queste sale ricche di testimonianze del passato, a passare in rassegna e a rivedere secoli e secoli di scultura. Risvegliando la nostra curiosità per la statuaria egizia e africana con la sua selva di statue essenziali e arcaizzanti. E poi facendoci vedere come l’agonismo muscolare e l’eroismo celebrativo dei monumenti ottocenteschi suoni ormai retorico e tronfio. Varcata la soglia del Novecento è come se quella lunga e robusta tradizione fosse diventata impraticabile. I dinoccolati viandanti di Giacometti, corrose ombre della sera che si stagliano contro le sontuose pareti della Galleria Borghese, ce lo rendono, se possibile, ancor più evidente.
dal settimanale left-Avvenimenti
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