di Simona Maggiorelli
Culla della civiltà e straordinario melting pot di culture diverse, la Mesopotamia nella storia è stata duramente attaccata dall’Occidente. Tanto che per secoli cronache e dipinti l’hanno raccontata come il Male, come terra di peccato e di perdizione. Negando il valore della civiltà babilonese e le sue straordinarie realizzazioni in campo architettonico e culturale. Ma anche quell’intelligente lavoro di riassorbimento del passato sumerico e di reinvenzione delle altre tradizioni che, invece, aveva permesso a Babilonia di crescere rapidamente, diventando fra il II e il I millennio a C., la capitale di Hammurabi e faro di tutto il Medio Oriente.
Così, mentre i testi cuneiformi la raccontano come città del bene, della convivenza pacifica fra i popoli, ma anche come luogo delle meraviglie, fucina delle arti, della letteratura, della poesia, della astronomia e della medicina, la tradizione biblica ne ha tramandato un’immagine deformata, frutto di una perversa rivisitazione ideologica.
E negli affreschi medievali, ma anche in opere di maestri come Bruegel o Rembrandt, gli svettanti ziqqurrat della capitale pagana appaiono tramutati in diroccate torri di Babele su cui si scaglia la maledizione divina, i ricchi palazzi diventano oscuri harem dove si consuma ogni tipo di violenza, i luminosi giardini pensili appaiono inquietanti e labirintici. E questo è accaduto per un arco di tempo lunghissimo, che va dai Salmi fino a Borges con la sua metafisica Biblioteca di Babele. E ancora oltre.
Come ricostruisce l’archeologo Paolo Brusasco nel libro Babilonia. All’origine del mito (Raffaello Cortina). Un affascinante lavoro multidisciplinare in cui il docente di storia dell’arte del Vicino Oriente dell’Università di Genova ricostruisce la verità storica di Babilonia, mostrando come il mito che l’Occidente ha costruito sia servito «ad esorcizzare le proprie paure» e continui a gettare ombra sul presente. Non a caso uno dei primi capitoli del libro è dedicato a una «autopsia del disastro in Iraq», dopo un ventennio di guerre e l’invasione anglo-americana.
La missione “civilizzatrice e democratica” targata Usa, come è noto, si è tradotta anche nell’occupazione militare del sito di Babilonia, distruggendo ogni possibilità di leggere filologicamente la stratigrafia. Un po’ come se i talebani fossero sbarcati a Pompei, suggerisce il professore. E senza che da parte degli organismi internazionali ci sia stata adeguata attenzione. E oggi, dopo che le truppe anglo-americane hanno lasciato il Paese, cosa sta realmente accadendo? «La situazione è ancora molto inquietante – denuncia Brusasco – Anche perché è impossibile stimare la reale entità dei danni che migliaia di siti archeologici stanno tuttora subendo. Una mia analisi del commercio telematico di antichità mesopotamiche dimostra la presenza di numerosissimi reperti sumerici e assiro-babilonesi verosimilmente finiti sul web in modo illegale. Anche le contrapposizioni etnico-confessionali (tra curdi, sciiti e sunniti etc.) hanno un peso nella mancata tutela del patrimonio culturale: sia la ricognizione dei Carabinieri del nucleo per la tutela che quelle del British Museum sotto l’egida dell’Unesco hanno messo in luce il perdurante saccheggio dei siti sumerici e babilonesi dell’alluvio meridionale (il biblico Eden) da parte di tribù sciite impoverite da anni di embargo e guerre. Per tacere dell’ennesima riapertura “propagandistica” dell’Iraq Museum, cinque mesi fa, in occasione di una mostra sulla scrittura cuneiforme, senza una preventiva messa in sicurezza delle strutture espositi
Nel libro Cultural cleansing in Iraq un gruppo di intellettuali scrive che l’invasione anglo-americana è stata un deliberato attacco all’identità storica dell’Iraq. E ha comportato «l’annientamento del patrimonio iracheno e della sua classe». Ma quale minaccia può mai rappresentare Babilonia oggi?
«Questo ed altri importanti siti antichi del Paese- spiega Brusasco-«sarebbero una minaccia in quanto simboli della grandezza del regime sunnita dell’ex dittatore Saddam Hussein che ne aveva fatto delle icone della sua propaganda politica :la cosiddetta mesopotamizzazione dell’Iraq. Distruggere questi simboli, con una vera e propria operazione di pulizia culturale, permetterebbe una riformulazione del concetto di nazione irachena più in linea con gli interessi Usa, per il petrolio e il controllo geopolitico del Medio Oriente. Una nazione che, privata della fierezza della propria memoria storica, diverrebbe uno stato vassallo, asservito agli interessi anglo-americani; i quali del resto non possono vantare un passato altrettanto straordinario.
Nella storia occidentale affiora l’immagine di un Oriente seducente e misterioso. Più spesso però il pregiudizio è stato violento. Il mito della torre di Babele lo testimonia?
I Greci lo vedevano come esotico, non senza una forte seduzione. Le invettive dei profeti contro Babilonia, «la madre delle prostitute», sono state amplificate a partire dalla cattività babilonese dal 597 al 538 a.C. E Babilonia è stata investita dal mito della confusione delle lingue dei popoli costruttori della torre di Babele, nella realtà la ziqqurrat Etemenanki, la “Casa delle fondamenta del cielo e della terra”. Fu un ribaltamento effettivo della realtà storica: la torre era il simbolo della prima città cosmopolita della storia alla cui costruzione cooperarono le migliori maestranze dell’impero, che, al contrario, si comprendevano grazie alla lingua franca dell’epoca, l’aramaico. Ma per gli esuli ebrei la torre era un idolo pagano dedicato al dio Marduk e un affronto al dio unico Jahvè.
Babilonia era la grande meretrice. E Semiramide era la lussuria. L’Occidente era scandalizzato dall’immagine e dall’identità che la donna aveva nella cultura babilonese, dove la stessa dea Ishtar rappresentava una sessualità femminile più libera e “attiva”?
La «figlia di Babilonia» dei profeti si materializza in una donna in carne e ossa, «la grande prostituta». Vedere Babilonia come di genere femminile, e come corrotta e peccatrice, è una equazione rivelatrice della mentalità che echeggia nella Bibbia. L’esistenza di donne di grande potere in Mesopotamia doveva avere colpito anche i Greci che costruirono il mito della licenziosa Semiramide, la femme fatale costruttrice di Babilonia. L’eroina è un personaggio leggendario, un concentrato di valenze storiche, ispirato alle regine assire (Shammuramat e Nakija) e mitiche, dietro la quale si cela l’energia sessuale e guerriera della dea Ishtar, assai cara alla tradizione popolare babilonese. I profeti ebrei e i sapienti greci, tra cui anche Erodoto, rimasero scandalizzati anche dal costume babilonese della prostituzione sacra: in realtà si trattava di una unione sessuale (la ierogamia) di carattere apotropaico celebrata a Capodanno per rigenerare le forze stagionali della natura. E sottendeva al potere erotico del femminile come elemento culturale primario, lontano da una semplice valenza istintuale: le prostitute erano considerate le principali educatrici degli uomini non civilizzati, e i miti mostrano una sostanziale simmetria tra i sessi, entrambi emersi dalla terra o da un corpo” androgino” (amilu, “essere umano”).
Che differenziava l’ Afrodite greca, Ishtar/ Inanna sumerico accadica e Astarte fenicia?
Originano tutte da una primigenia divinità madre preistorica, la cui valenza sessuale attiva e procreatrice si unisce ad aspetti distruttivi e ctonii, legati all’oltretomba, man mano che si sviluppano civiltà sempre più complesse. L’Inanna/Ishtar babilonese è l’archetipo da cui si generano tradizioni fenicie, greche, romane ed etrusche indipendenti. L’Astarte fenicia è la trasposizione tout court della Ishtar babilonese, l’Afrodite greca ha una valenza legata alla spuma del mare primigenio, mentre Ishtar è anche la stella del pianeta Venere e ha quindi forti connotazione astrale.
Nel libro lei si occupa del poema d’Agushaya e della danza sfrenata che le era associato. Alcuni aspetti della cultura babilonese possono aver influenzato, direttamente o indirettamente, regioni del nostro Meridione?
«Il leone di Ishtar si è calmato, il suo cuore si è placato». Così chiude il poema dedicato alla Ishtar guerriera, ovvero Agushaya, dal sovrano babilonese Hammurabi (1792-1750 a.C.), dopo avere conquistato il mondo allora conosciuto. Il rito aveva lo scopo di placare il furore bellico del sovrano, come pure appianare le tensioni sociali esistenti all’interno della comunità, dal momento che prevedeva una danza catartica collettiva del popolo in festa. Non possiamo postulare un collegamento diretto con rituali del nostro meridione quali, per esempio, il tarantolismo pugliese, anche se la forma cristianizzata del tarantolismo richiama l’antichissimo sottofondo pagano della Magna Grecia, probabilmente debitore di influssi orientali. Negli ultimi anni risulta sempre più chiaramente la profonda ricchezza di contatti nel mondo antico. Per non fare che un esempio: la recentissima scoperta nel santuario fenicio di Astarte a Tas-Silg (Malta) di un amuleto babilonese di agata, recante un’iscrizione cuneiforme del 1300 a.C., testimonia di incredibili contatti tra Oriente e Occidente la cui natura e dimensione restano in via di definizione. Certo non si può disconoscere il ruolo giocato dai marinai e mercanti fenici nell’esportazione verso il Mediterraneo occidentale di culti orientali quali quello di Astarte/Ishtar, con tutte le implicazioni culturali che ne derivano.
da left-Avvenimenti





Dopo l’anteprima al MoMa di New York, dal 13 febbraio ad Amsterdam una mostra racconta la ricerca sul “buio” del genio olandese
Ben sapendo che isuoi quadri non potevano essere spiegati a parole, Van Gogh non poteva o non voleva capire che dall’occhio invidioso (o forse addirittura lucido e freddo) di Theo, che gli dava uno stipendio per sentirsi “sano”, non gli sarebbe mai potuto arrivare nessun vero riconoscimento. Ma per fortuna o sfortuna di Vincent il suo modo di scendere a compromesso nelle lettere e nei rapporti non era quello che usava nell’arte. E già molto prima di Notte stellata e forse prima ancora del più “romantico” Cielo stellato sul Rodano del 1888 Van Gogh aveva già completamente superato la pittura degli impressionisti,che pure a un primo incontro a Parigi era stata di stimolo per queltotale rinnovamento che il pittore olandese fece nel 1886: d’un tratto realizzando una nuova immagine e rinnovando del tutto la tavolozza, sostituendo ai toni scuri e terragni del notturno ritratto in un interno di Mangiatori di patate (1885) un arcobaleno di riflessi brillanti. Nella casa gialla di Arles dove poi l’avrebbe raggiunto Gauguin per una breve e difficile convivenza, Van Gogh aveva maturato pienamente la consapevolezza che quella degli impressionisti era una strada troppo arida e che era tempo di riprendere a sperimentare sulla scorta delle suggestioni vive dalla vita del Sud e studiando il geniale uso di luci e colori di Delacroix. «Non mi stupirei molto – annotava Van Gogh in quegli anni – se tra un po’ gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di fare, che deve alle idee di Delacroix molto più che alle loro. Infatti – aggiungeva il pittore olandese – invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo del colore in modo più arbitrario di loro, per l’intensità dell’espressione». Da qui concretamente parte il lungo viaggio nella notte di Van Gogh studiato da Joachim Pissarro e al centro della mostra di Amsterdam; una ricerca che, dormendo di giorno, in poco più di 48 ore, per esempio, portò il genio olandese a realizzare opere come Caffè di notte (1888 ) in una ridda di gialli, rossi sangue e acidi verdi. E poi il ritratto del poeta Eugène Bloch che si staglia contro la “speranza” di un cielo infinito di stelle. E ancora Paesaggio con coppia che cammina e luna nascente del 1890, l’“onirica” e vibrante Chiesa di Auvers (1890), ma anche l’astratto e violaceo seminatore del quadro intitolato Notte (da Millet) del 1889 che racconta tutta l’enorme distanza che c’è fra le prime opere di Van Gogh (in cui ancora studiava forsennatamente la tecnica del disegno e “copiava” dai maestri del realismo come Millet e Corot) e quelle dell’ultimo periodo, che paiono aver subito una imprevista torsione fantastica; distanza fra l’inizio e la fine della parabola artistica di Van Gogh che si bruciò nell’arco di pochissimi anni e che è stata documentata dalla mostra curata da Marco Goldin Van Gogh, disegni e dipinti nel complesso di Santa Giulia a Brescia, con una nutrita serie di schizzi, bozzetti, acquerelli, litografie dalla collezione del Kröller-Müller museum. «Di solito si pensa che Van Gogh ia stato un pittore audace, istintivo, un po’ naif – commenta Joachim Pissarro – ma anche nei quadri dell’ultimissimo periodo, quelli che appaiono più febbrili e visionari, si vede la sua intelligenza al lavoro. Nonostante l’angoscia e le crisi mentali che lo attanagliavano, Van Gogh non smise mai di avere piena consapevolezza del suo lavoro. E la sua fantasia, nei momenti in cui riusciva a dipingere, non ne fu intaccata». Lo dimostrano, insieme agli accecanti ritratti di contadini che sembrano soccombere alla luce mentre la campagna arde e impazza di gialli, di turchese e di neri, anche le ultime inquietanti e vertiginose visioni di campi di grano solcate sinistramente da corvi neri. «Ma ancor più a mio giudizio lo dimostrano le umbratili e più delicate scene notturne – conclude Pissarro – costruite su una vastissima conoscenza letteraria, sullo studio di Rembrandt e Delacroix, ma anche e soprattutto misurate su una non comune sensibilità d’artista». 

Detestava chi copia, ma citava, alludeva e, soprattutto, ricreava le opere dei maestri.Un trittico di mostre a Parigi ci racconta un genio in dialettica continua col presente e con la storia
E se la serie di varianti dai grandi maestri, sviluppate in modo processuale (come in una sequenza cinematografica aperta) caratterizzò soprattutto gli ultimi vent’anni di attività, «fin da giovanissimo Picasso – ricorda Anne Baldassari – si confrontò con i maestri spagnoli ma anche con classici come Michelangelo e Raffaello. Pur continuando a nutrire un insopprimibile desiderio di libertà e quel piglio sovversivo che lo porterà a realizzare le più radicali innovazioni».
Con uno sberleffo anticattolico. E le traduzioni iconoclaste non risparmiano neanche colui che più di ogni altro, Picasso considerava padre della modernità: Cézanne. Nel riprendere alcuni lavori del maestro di Aix, Picasso ne coglie l’essenza e al tempo stesso ne fa una attualizzazione. Come dimostra il confronto organizzato al Grand Palais fra rispettivi studi sul nudo, ma ancor più il confronto fra due opere che ci sarebbe piaciuto vedere in mostra: Madame Cézanne con ventaglio e la rielaborazione che ne fece il pittore spagnolo, rendendo “tangibile” e vibrante la tensione interna al ritratto originale. E forse è proprio questo modo di ricreazione di un’immagine densa di significati uno degli aspetti più interessanti dell’uso che Picasso fa della lezione dei maestri. Ricreazione che va di pari passo all’uso sapiente dell’allusione. E qui il pensiero va a un’altra opera (purtroppo non in mostra) che dedicò all’amico suicida, La morte di Casagemas, realizzata con i colori prismatici di Vincent Van Gogh e le sue pennellate vorticose e materiche. Accanto alla sua testa del giovane che si sparò nel 1901 Picasso fa comparire una candela uguale a quella che arde sulla sedia vuota di Gauguin dipinta da Van Gogh. Quasi a voler regalare all’amico la sensibilità tormentata del genio olandese, assegnando al contempo a se stesso il ruolo del rude e “selvaggio” Paul Gauguin colpevole di un’assenza (un’indifferenza?) verso l’amico. Ma non solo.
Emblematico da questo punto di vista il rapporto con l’amico e “rivale” Matisse di cui emula lo splendido notturno Vaso di pesci rossi oggi al Pompidou trasformandolo in uno studio di artista essenziale e astratto, dominato dal rosso. Mentre altrove ne critica l’impostazione realizzando opere che ne ribaltano la visione estetica e figurativa.