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Alle radici di una grande svolta

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 7, 2010


kandinsky

Da Cézanne a Matisse a Kandinsky e oltre. Dai musei  Guggenheim di New York e Venezia all’Arca di Vercelli, i maestri dell’astrazione

di Simona Maggiorelli

Alle origini della rivoluzione dell’arte astratta. Indagando la fertile sperimentazione che, a partire da Cézanne e attraverso la scomposizione cubista, portò la pittura ad affrancarsi definitivamente dalla raffigurazione piatta e meccanica della realtà. In nome di un modo di dipingere più fedele al “sentire” dell’artista, alla sua capacità di cogliere il latente, di creare immagini irrazionali, del tutto nuove.

Un’appassionante avventura dell’arte che, di fatto, attraversa più di due secoli di storia occidentale. E che l’Arca di Vercelli, fino al 30 maggio, propone di ripercorrere con la mostra Le avanguardie dell’astrazione.

Un evento (accompagnato da un denso catalogo Giunti) che porta nella città piemontese una parte significativa della collezione Salomon e Peggy Guggenheim conservata nei musei di New York e Venezia.

Così, “smessi” per un attimo le vesti di direttore del Macro di Roma, Luca Massimo Barbero torna per questa occasione al suo precedente ruolo di curatore Guggenheim facendosi Cicerone di un viaggio complesso quanto affascinante che si snoda attraverso una cinquantina di opere, perlopiù di grandi maestri: da Cézanne a Matisse, ricostruendo in modo particolare il ruolo che il pittore di Aix-en Provence ebbe nel superamento delle riproduzione mimetica della natura.

Da Braque a Delaunay, raccontando come la scomposizione geometrica del reale avviata dal cubismo secondo una molteplicità e simultaneità di punti di vista avesse aperto la pittura europea a un’idea di spazialità non più solo fisica ma interiore. E ancora, per citare alcune delle sezioni più interessanti, da Marc a Kandinsky sottolineando la novità di una ricerca pittorica come quella del Cavaliere azzurro che – per quanto intrisa di elementi spiritualisti e religiosi- portava in primo piano la potenza evocativa del colore ed esplorava la risonanza emotiva suscitata nello spettatore da composizioni dinamiche di colori, forme e linee in movimento.

Per arrivare poi, attraverso il puro geometrismo di Mondrian a Reinhardt, alla fase discendente di questa ricerca sull’arte astratta. Ovvero al ripiegamento delle avanguardie storiche che rimasero incagliate nei cascami del surrealismo. E dopo il ’68, nell’antiestetica di Dubuffet che con l’Art brut azzerò ogni ricerca creativa scambiando per arte dal valore universale manufatti “spontanei”, realizzati da persone senza una formazione specifica e talora da malati di mente. Da un curatore attento come Barbero, in finale, forse ci saremmo aspettati qualche considerazione critica in più su questo fenomeno, nato sotto l’influenza di Foucault e dell’antipsichiatria, e che ancora oggi con la sua ideologia antiautoritaria e, al fondo, nihilista continua a esercitare un peso negativo su ampie aree di ricerca contemporanea.

da left-Avvenimenti 5 marzo 2010

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Un enigmatico Leonardo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 26, 2009

A Milano è in mostra il San Giovanni del Louvre. Con nuove ipotesi sulla sua genesi e storia

di Simona Maggiorelli

Leonardo, San Giovanni Battista Louvre

Lo sguardo magnetico che richiama quello della Sant’Anna nel celebre cartone di Londra. E il sorriso enigmatico che contrasta visibilmente con il gesto della mano, tradizionalmente utilizzato nella pittura sacra per indicare l’Altissimo. Ma che nella concezione umanistica di Leonardo potrebbe anche alludere a una nuova umanità futura.

Gli studiosi per secoli si sono rotti la testa per interpretare questa criptica rappresentazione che Leonardo fece del Battista. E lungamente incerta è rimasta anche la genesi di questa opera conservata al Louvre insieme alla Gioconda, alla Belle ferronnière e a una delle due versioni della Madonna delle rocce, dove un San Giovanni ancora bambino richiama il gesto di questo San Giovanni Battista che, invece, ha l’aria di un giovane Ganimede o di un Bacco pagano (per la pelle di pantera che ha addosso).

Dal 27 novembre al 27 dicembre, eccezionalmente, l’opera sarà esposta in Palazzo Marino a Milano. Le storiche dell’arte Valeria Merlini e Daniela Storti le hanno dedicato una mostra dal titolo Leonardo a Milano.Esposizione straordinaria del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, che offe l’occasione per fare il punto sugli ultimi trent’anni di studi leonardeschi.

Ne emerge che il quadro probabilmente fu iniziato a Firenze, come ha sostenuto fin dal 1977 Jean Rudel, il quale, studiando le prime radiografie del quadro, rilevava: «L’effetto generale di monocromo scuro, reso più ampio dal fondo unito, rafforza l’impressione di un avvolgimento d’ombra, ancora accresciuto dall’invecchiamento delle vernici superficiali: ciò aumenta il senso di mistero, velando alcune indiscutibili imperfezioni, rese meno percepibili, a prima vista, da una superficie spesso riflettente». Uno strato di pittura retrostante, con effetti di morbido e avvolgente chiaroscuro, contribuiva, secondo l’autrice di Leonardo. La pittura (Giunti), a rendere chiara l’autografia dell’opera. Che lungo la sua tribolata storia, fra sparizioni e riapparizioni in collezioni private, più volte era stata messa in discussione. Così, mentre avanzava fin dalla fine degli anni Settanta l’ipotesi di un’anticipazione della datazione del dipinto ai primi anni del Cinquecento – come ricostruisce Pietro Marani nel saggio pubblicato nel catalogo Skira che accompagna la mostra milanese – Rudel aveva aperto la strada al lavoro fondamentale di Martin Kemp.

In Leonardo da Vinci e mirabili operazioni della natura e dell’uomo (Phaidon e ora Mondadori) lo studioso inglese ha suggerito un’ipotesi affascinante, ovvero che il vero tema del dipinto fosse la luce. Servendosi del chiaroscuro Leonardo cercava «di inserire il rilievo nella superficie dipinta» e al tempo stesso di dare movimento alla figura, con una rotazione dai «mutamenti, potenzialmente infiniti».

Oltre a distinguere i danni reali che maldestri tentativi di restauro nei secoli hanno causato al quadro (che si era andato progressivamente scurendo), Kemp ha avuto anche il merito di fissare definitivamente la datazione del dipinto attorno al 1510, cogliendo il nesso con le ricerche sulle velature atmosferiche che Leonardo fece proprio in quegli anni.

Riguardo alle rocambolesche vicissitudini del quadro – che dopo la morte dell’artista in Francia “sparì” per tornare alla ribalta solo nel 1630 – nuovi studi ipotizzano che la tela sia rimasta sempre a Firenze. Leonardo non l’avrebbe portata con sé a Milano come si pensava. E neanche nella residenza francese Clos Lucé a Cloux nella quale visse gli ultimi due anni della sua vita.

da Left-Avvenimenti del  27 novembre 2009

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Magia alla Marc Chagall

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 30, 2009

Creature della notte e incontri d’amore negli anni mediterranei del pittore russo in mostra  a Palazzo Blu a  Pisa

di Simona Maggiorelli

«Le ricerche dei cubisti non mi hanno mai appassionato. Riducevano tutto a una geometria di cui restavano schiavi, mentre io cercavo piuttosto una liberazione plastica, non solo della fantasia o dell’immaginazione», così in un’intervista Marc Chagall raccontava la propria ricerca, non riuscendo a dissimulare un certo rodimento verso quella picassiana che negli anni Dieci del Novecento aveva rivoluzionato radicalmente il modo di intendere e di fare pittura. Rivendicando il valore inattuale dell’arte figurativa, il pittore di Vitbsk difendeva un suo personale universo poetico, legato alla cultura ebraica e popolare dei villaggi della Russia, un mondo a parte lontanissimo da ciò che accadeva in Europa.Rivendicando legami con una tradizione che si era fermata nel tempo con un’iconografia quasi raggelata. Non si può dimenticare, senza volerla dire in termini rudemente marxisti che la servitù della gleba fino e oltre la rivoluzione del 1917 era la realtà di larga parte della Russia e la necessità di soddisfare i bisogni primari non lasciava molto tempo per l’arte .  Ma è anche vero che , quella tradizione, Chagall cercava di  rileggerla attraverso una lente deformante, con carica visionaria, personale.

«Io mi sforzo di costruire un mondo dove l’albero può significare altro – diceva – dove io posso immediatamente constatare di avere sette dita nella mano destra, ma cinque in quella sinistra, insomma un universo dove tutto è possibile».

La fantasia di Chagall., come aspirazione,  inseguiva la potenza del sogno, libero dalle griglie rigide del principio di non contraddizione. Cercava la polisemia delle immagini. Ma anche quella palpabile atmosfera di magia che il buio ogni sera porta con sé. E sono epifanie di creature della notte quelle che accendono le sale di Palazzo Blu a Pisa con la mostra Chagall e il Mediterraneo (fino al 17 gennaio, catalogo Giunti) curata da Claudia Beltramo Ceppi e da Meret Meyer. Centocinquanta opere – tra dipinti, sculture, ceramiche e tavole – provenienti dal Pompidou di Parigi, dal museo Chagall di Nizza e dal museo Matisse di Cateau-Cambrésis, in cui Chagall si dedicò allo studio della luce piena del Sud (sulla scia del viaggio in Provenza di Van Gogh) e all’esplorazione di un sentimento più calmo rispetto a quello che connota i quadri del periodo più intensamente orfico.

da left avvenimenti del 30 ottobre 2009

LE FIABE PERDUTE DI CHAGALL
Un immigrato si familiarizza con la lingua del Paese di adozione facendosi leggere  e rileggere dalla  moglie le favole di La Fontaine. Talvolta la ferma al punto in cui i poeta fa la morale. ” Questa puoi saltarla”. Poi quando ormai la conosce a memoria, la dipinge con una fantasmagoria di colori gioiosi, brillanti e sgargianti, quasi pop, che accentuano, anzi fanno esplodere l’elemento ironico, fiabesco, surreale. Lui è già un pittore famoso, non un esordiente, L’editore che gli ha commissionato le tavole, è uno dei più grandi editori dei suoi tempi. Mal gliene incoglie però. Gli rinfacciamo di tradire il più elegante,”il più cartesiano e il più lucido” dei poeti francesi del’600, una gloria della cultura occidentale, facendolo illustrare ” dalla barbarie urlata ispirata al colore di un orientale”. L’immigrato è russo. E per giunta ebreo. Che sarebbe a dire, per quei tempi, peggio che extracomunitario. Nella sua città natale, Vitebsk, ora Bielorussia, era stato registrato all’anagrafe  come Moshva (mosè) Shagal. A Parigi si sarebbe fatto chiamare Marc Chagall. L’editore per cui lavorava si chiama  Ambroise Vollard. Ha già fatto fortuna lanciando Cézanne, Matisse , Guaguin, Van Gogh e un altro immigrato. Picasso. Ma gli rimproverano di aver montato soprattutto artisti ” stranieri e semiti”. Chagall gli ha già illustrato Le anime morte di Gogol, ma con incisioni, in bianco e nero. Gli illustrerà poi, sempre con incisioni, I profeti della Bibbia. Per il progetto La Fontaine si butta invece sul colore, inventando nuovi impasti, ricchi, corposi, talvolta addirittura quasi violenti. Non sono più nemmeno i colori notturni, spenti, tristi della sua infanzia, che pure lo avevano reso celebre. Sono colori solari, che scintillano di allegria, sono i colori del paesaggio francese e del Mediterraneo, che Chagall ha appena scoperto, sono i colori di Cèzanne, di Matisse, dei Fauves, non più quelli dello shtlel, del villaggio-ghetto…. Tra il 1926 e il 1927 Chagall aveva realizzato un centinai di gauches sulle favole. Il libro a colori non sarebbe mai uscito. Non si hanno ragioni convincenti del perché. Si disse che Vollard avrebbe rinunciato perché le prove di stampa a colore non erano riuscite bene. Più tardi Chagall avrebbe ripiegato su incisioni con gli stessi soggetti. Sarà anche andata così. Ma qualcosa non quadra. La Francia continuava ad accogliere immigrati era un polo d’attrazione per gli intellettuali da ogni angolo di Europa. Ma in fatto di avversione agli stranieri tirava una brutta aria… Nell’inaugurare a Monoco nel 1937 la grande mostra “Arte degenerata”, Hitler aveva inorizzato sui dipinti con cieli verdi e mari viola, e proprio la sterilizzazione e il ricovero forzato nei manicomi dei Disgraziati che spingono così perché vedono le cose così, Tra le 730 opere forzosamente  sequestrate e additate all’infamia c’erano diversi Chagall….

( estratto da Le fiabe perdute, Chagall, di Sigmund Ginzberg da la Repubblica)

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Le sette vite di Shahrazad

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 27, 2009

di Simona Maggiorelli

mani

Shirin Neshat

Odalische in vesti diafane, uomini con il naso adunco che brandiscono scimitarre, geni e minareti. Un armamentario di figurine degne di Walt Disney. «Quando anni fa giocavo a flipper con uno storico modello della Williams “Tales of the Arabian nights” era proprio questo il panorama di personaggi che mi trovavo davanti» racconta ne La favolosa storia delle mille e una notte l’arabista Robert Irwin. Il suo libro appena uscito per Donzelli – non ingannino le parole dell’autore – è un dottissimo invito a liberarsi delle stereotipie che hanno accompagnato in Occidente la diffusione popolare dei racconti di Shahrazad.  «Oggi- scrive lo studioso inglese – sia da noi che nel mondo islamico, la straordinaria ricchezza delle Mille e una notte è stata ridotta a una manciata di immagini kitsch. Molti occidentali conoscono solo il minaccioso mondo arabo dei titoli giornalistici, che parlano di talebani di fatwa, di kamikaze…». Ma assicura Irwin (che sulla scorta del palestinese Said ha scritto pagine acuminate contro l’Orientalismo), «c’è un altro Medio Oriente ancora da scoprire sugli scaffali di ogni libreria occidentale che si rispetti: un luogo fatto di incanto, passione e mistero». Così in questo suo ultimo libro Irwin ci introduce in questo mondo fantastico, facendo chiarezza sulle traduzioni, sulle manipolazioni e sulle censure che questo grande libro ha subito nei secoli. Una vicenda che, nel nostro Paese, l’editore Donzelli ha contribuito a sbrogliare, pubblicando qualche anno fa la prima traduzione italiana delle Mille e una notte fatta direttamente dall’arabo, sulla base dell’edizione critica stabilita nel 1984 da Muhsin Mahdi. Ma ora tornando a tuffarci in quel mondo di principi tolleranti, donne intelligenti e combattive e maghi misteriosi che ci avevano affascinato da piccoli, impariamo qualcosa di più della cultura araba medievale che è alla base di questa raccolta di storie che i cantori tramandavano oralmente: scopriamo, con Irwin, una cultura araba sorprendentemente «ottimista, tollerante e pluralista». E che proprio per questo – anche in anni non lontani- è stata bersaglio della censura religiosa. Basti dire che nel 1985 un capo della commissione “moralità” del ministero dell’interno egiziano promosse una crociata contro un’edizione libanese del libro, accusata di attentare all’integrità della gioventù egiziana.  E fu proprio il Nobel Nagib Mahfuz – a cui idealmente è dedicata la Fiera del libro 2009  – uno degli scrittori che si batté di più contro l’assurda censura delle Mille e una notte.

is50164lMa che cosa contengono di tanto scandaloso questi antichi racconti della tradizione araba, noti con alcune varianti dal Mali al Marocco, dal Nord Africa, all’India, alla Cina? La studiosa che più si è dedicata a questa ricerca, come è noto, è la  marocchina Fatema Mernissi. In libri che sono già dei classici, come L’harem e l’Occidente (Giunti) ma anche nel recente Le 51 parole dell’amore (Giunti) Mernissi fa piazza pulita dei pregiudizi  che campeggiano nella pittura occidentale da Ingres a Matisse,che ci hanno sempre fatto vedere l’harem come un luogo pacificato di odalische passive e perennemente disponibili. Ma l’obiettivo più appassionato della studiosa di Fes è sempre stato quello di riscattare il personaggio della narratrice Shahrazad da quella etichetta di donna astuta e ingannatrice che le è stata cucita addosso dall’Occidente.  Minacciata di morte dal saltano impazzito di gelosia, il suo parlare gentile nella notte ( in arabo “samar”) suggerisce Mernissi, era un modo per cercare un rapporto più profondo con l’altro, per dialogare su un piano diverso da quello diurno, cercando di capire e di fermare la pazzia. Altro che mera astuzia! Shahrazad usa la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza per leggere la mente dell’altro provando a “curarlo”.  Contrariamente a ciò che lasciano intendere le fantasie occidentali sull’harem «in Oriente- scrive Mernissi – il solo uso del corpo, ovvero del sesso privo della mente, non aiuta minimamente la donna a cambiare la sua situazione. Shaharazad insegna alle donne che la sola arma è coltivare l’intelletto e la sensibilità, acquisire conoscenza, per dialogare con gli uomini invitandoli a confrontarsi con il diverso da sé». Di fatto grazie all’originale lavoro di comparazione fra cultura occidentale e mediorientale, che Mernissi svolge da trent’anni, alcune delle nostre più ferree convinzioni, per esempio, riguardo al modo di vedere la donna e di intendere il desiderio nelle due diverse tradizioni, finiscono a carte quarantotto.

Così, mentre con la raccolta e lo studio di storie orali dalle più remote zone montane dell’Atlante e del deserto del  Sahara, Mernissi porta in luce un patrimonio culturale pre islamico che diversamente dalla legge coranica, non stabilisce affatto il diritto degli uomini di dominare le donne, dalla comparazione fra la tradizione letteraria e iconografica di Oriente e di Occidente la studiosa deduce che, se gli arabi hanno costruito gli harem perché temevano «la forza incontrollabile che c’è nelle donne», l’occidente razionale, nonostante libertà e diritti, l’identità e la diversità delle donne la nega interamente.

Ancora una volta Le mille e una notte e il modo in cui Shahrazad è stata letta in Occidente può aiutarci a capire qualcosa di più.  Il suo “primo viaggio” in Occidente fu grazie a Jean Antoine de Galland, primo traduttore del grande libro di racconti arabo. L’interesse del pubblico colto occidentale fu immediato quando i 12 volumi furono pubblicati tra il 1704 e il 1717. Ma per oltre un secolo, ricostruisce Irwin, furono solo le avventure di Sinbad, di Aladino e Alì Baba a catalizzate l’attezione. Lei avrebbe dovuto aspettare fino a quel 1845 quando Edgar Aallan Poe pubblicò The Thousand and second tale of Shahrazad ma cambiando il finale, e facendola morire. E se l’erotismo fu un elemento di attrazione per un pubblico occidentale «stretto – scrive Mernissi – fra i divieti dei preti e una rigida razionalità», l’immagine che passa, per esempio, attraverso Nijinsky nella Shéhérazade dei Balletti russi fu un misto di «esotismo, androginia, schiavitù e violenza», quando «al contrario- sottolinea Mernissi – l’antico e risoluto messaggio di Shahrazad implicava proprio l’insistenza sulla differenza tra i sessi».

Poi sarebbero venuti gli anatemi talebani e la censura a cui accennavamo, ma la sopravvivenza delle Mille e una notte, per fortuna, segue percorsi carsici e riemerge- ad esempio – anche nelle pagine di scrittrici di oggi, nei racconti delle autrici iraniane che Anna Vanzan ora ha raccolto nel volume Figlie di Shahrazad (Bruno Mondadori). Ma quel che più colpisce, a dire il vero è la sopravvivenza e la penetrazione che ha avuto in Occidente una tradizione meno nota al grande pubblico, ovvero la letteratura medievale sull’amore scritta da maestri sufi (vedi Il Sufismo di William C. Chittick, appena uscito per Einaudi) e la poesia erotica della tradizione araba antica, quella che la scrittrice siriana Salwa Al-Neimi ci ha fatto conoscere attraverso le pagine del suo romanzo La prova del miele (Feltrinelli). Caso letterario esploso in Francia l’anno scorso, il libro sarà presentato alla Fiera del libro il 16 maggio con una conferenza della scrittrice dedicata all’eros  nel mondo arabo. Curiosamente lo stesso titolo della conferenza tenuta dalla protagonista del romanzo . E se la realtà, qui a Torino, invera la fantasia, il gioco di rimandi fra l’autrice e il suo alter ego narrante si fa ancora più serrato, rafforzando la sensazione che La prova del miele sia in parte autobiografico. Al centro del libro un incontro con un uomo che fino alla fine manterrà per il lettore una immagine indefinita, misteriosa Del resto la protagonista stessa non lo chiama mai per nome, ma si riferisce a lui come il Pensatore, facendone una presenza fisica e sensuale, ma senza descrizioni. Il lettore sa quello che basta,ovvero che quello è l’uomo che ha fatto ritrovare il desiderio alla protagonista, colta bibliotecaria di un dipartimento di arabistica (esattamente come Salwa Al-Neimi), ma anche che le ha fatto ritrovare la memoria dell’infanzia a Damasco e il gusto per l’antica letteratura erotica della tradizione araba, letta fin da ragazzina clandestinamente. Un interesse per la filosofia islamica sull’amore che la scrittrice trasmette a sua volta al lettore,che si trova così sedotto ad andare a leggere direttamente Abu Hashin ( autore sufi fra i più antichi che morì nel 772  d.C)  e al -Daylami che teorizzò l’amore come luce sfolgorante, «colui che ama- scriveva – è rischiarato dal suo genio e illuminato nella sua natura», ma anche e soprattutto il pensatore andaluso Ibn Hazm che otto secoli fa scrisse un  trattato che ha influenzato profondamente il pensiero occidentale. E se Mernissi con altri studiosi ipotizza una precisa influenza dei mistici sufi sulla nascita della poesia trobadorica e sul Dolce stil novo, Al-Neimi ci fa conoscere le riflessioni di mistici come Ibn al-Azraq che affermava: «Ogni desiderio che l’uomo asseconda gli indurisce il cuore, eccetto l’atto sessuale» . «Le mie letture segrete mi fanno pensare che gli arabi siano l’unico popolo al mondo per i quali il sesso è una grazia di cui essere riconoscenti a Dio- scrive Salwa Al-Neimi nel romanzo-. L’insigne e prode shykh Sidì Muhammad al- Nifzawì, sia pace all’anima sua, comincia così la sua opera il Giardino profumato: sia gloria a Dio che ha voluto che il più grande piacere dell’uomo fosse la vulva delle donne e che per esse fosse il pene degli uomini.  Che la vulva trovi pace, che si plachi, che trovi soddisfazione solo dopo aver conosciuto il pene e viceversa…».
Ancora nel XIV secolo, il sapiente di Damasco Idn Qayyim al Jawziyya nel trattatto Il giardino degli amanti, scriveva che la lingua araba ha 60  parole per esprimere l’amore e la passione,compresa quella fisica. In barba a Platonee ai suoi discendenti.

da Left-Avvenimenti 15 maggio 2009

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Nella mente di Leonardo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 29, 2009

Dopo l’esordio a Firenze, la mostra  Nella mente di Leonardo è stata  in Giappone , in California e in Ungheria.  Dal primo maggio a giugno approda  al museo nazionale del Palazzo di Venezia a Roma. Il  direttore dell’Istituto e del museo della Scienza di Firenze, Paolo Galluzzi racconta a left come la mostra, nel frattempo, si è arricchita


di Simona Maggiorelli

“Non fare Leonardo a fette. Ma mostrarlo tutto intero. Non puntare l’obiettivo su ciò osservava, quanto cercare di capire come funzionava il suo pensiero” è l’obiettivovergine_santanna_-bambino_san-giovannino che si è dato il direttore delll’Istituto e del Museo della scienza, Paolo Galluzzi ,nel realizzare la mostra La mente di Leonardo, aperta dal primo maggio al 30 agosto in Palazzo di Venezia a Roma. «La mostra appena approdata nella Capitale – racconta a left il curatore Galluzzi – fra gli autografi di Leonardo presenta tre disegni inediti di Leonardo, appartenenti a una collezione privata e mai prima esposti. Recano testimonianza della scenografia e della macchina teatrale che Leonardo ideò nel 1508, per una messinscena milanese dell’Orfeo di Poliziano.  E per la quale Leonardo realizzò una articolata macchina scenica, che riportava in questo mondo Plutone, dio degli inferi. Ma in mostra in Palazzo di Venezia ci sono anche i dipinti che testimoniano l’impegno di Leonardo su il tema della Leda e il cigno, che si legava a un progetto più ampio sull’ibridazione fra uomo animale e sulla sessualità naturalistica. Opere solo in parte autografe, certamente vicine per ispirazione al cartone che Leonardo realizzò a Firenze e poi portò con sé a Milano. Un lavoro che non finì. Come molte altri.
Un tema mitologico pagano , quello della Leda e il cigno, che già ci introduce a un tratto originale di Leonardo, la sua insofferenza verso dio e la teologia, documentati in vari passaggi dei suoi scritti
Leonardo certamente non era vicino alle forme di riflessione tipica del pensiero religioso tradizionale. Aveva una sua religiosità intesa come ammirazione per la natura come come forza fisica esplosiva, ma anche come forza vitale, come carica.
Studiosi come Batkin, come Pedretti e, più di recente,  Martin Kemp, nel libro Leonardo. Nella mente del genio (Einaudi)hanno decostruito lo stereotipo romantico dell’artista toscano, come genio isolato. Che ritratto ne emerge dalla mostra?
L’immagine di Leonardo come anticipatore chiuso in se stesso, che come un ragno tesse una tela, senza prendere materiali da fuori, purtroppo, è ancora molto diffusa, a dispetto dell’avanzamento degli studi. Chi va a leggere i manoscritti e confronta le fonti, scopre che Leonardo ha letto molto di più di quanto non si pensasse e che è pieno di debiti nei confronti di contemporanei e predecessori. Ma così facendo si scopre anche che Leonardo legge in maniera creativa. Assorbe e trasforma. Non è mai passivo. Ha sempre una reazione personale interpretativa o polemica nei confronti della tradizione o del contesto.  Insomma, che Leonardo vada letto nel suo contesto seguendo lo sviluppo cronologico della sua produzione fa parte di paradigmi acquisiti fra studiosi. Ma se in un saggio si riesce bene a dimostrare tutto questo, la cosa difficile è farlo con una mostra dedicata a un pubblico non di soli specialisti. Non per nulla questo tipo di operazione culturale non era mai stata tentata.
Come siete riusciti a far emergere la mentalità non compartimentizzata di Leonardo e la «trasversalità» del suo sapere?
Non dedicando sezioni separate a pittura, architettura, ingegneria eccetera, ma cercando lungo il percorso espositivo di attivare una visione multipla: dietro a ogni brano di pittura di Leonardo, per esempio, c’è l’anatomia, lo studio della natura, l’ottica. Leonardo non le separa minimamente. Se disegna un cavallo Leonardo istintivamente fa in modo che il suo centro di gravità cada nel punto previsto dalle leggi di meccanica e di statica. Non lo disegna in maniera solo fantasiosa. La mostra sottolinea  queste trame sottese al suo lavoro. Di fatto l’esposizione è una provocazione rispetto al consumo popolare delle mostre di Leonardo, rispetto ai modellini che si vedono nei piccolimusei leonardeschi. E’ una sfida a questo tipo di banalizzazione,  che ha la sua logica nel turismo di massa, nella fretta con cui si consumano gli eventi. E’ il tentativo di restituire dignità a Leonardo, una dignità offesa.
In controtendenza con questo tipo di operazioni “ in stile Disneyland” nella mostra La mente di Leonardo lei è riuscito a dar conto anche degli ultimi studi sullo sfumato leonardesco. In che modo?
Un’ampia parte della mostra è dedicata al Libro della pittura. Di fatto è un libro di scienza con dimostrazioni e esperimenti.  Da qui emerge l’importanza che l’ombra ha per Leonardo. Scrive proprio che l’ombra «è di maggiore potenzia del lume». Senza la gestione dell’ombra non c’è rilievo. È l’ombra che dà l’effetto di tridimensionalità sulla tela. Ma l’ombra è figlia dell’ottica, è la conseguenza della geometria; ha a che fare con la riflessione della luce, con la ricerca scientifica. Poi se ne potrà  fare un uso artistico.
Malgrado Leonardo rivendicasse il primato dell’esperienza, il suo sguardo non appare mai “positivistico”.
Leonardo è un artista che si pone come traguardo di riuscire a rappresentare perfettamente la natura. Per questo la studia. E se non fosse diventato uno “scienziato” non avrebbe potuto fare bene il mestiere dell’artista. Viceversa i suoi studi scientifici – anche quando lo trascinano lontanissimo, affascinato dalle piste che scopre- sono sempre concepiti come strumento per la rappresentazione artistica. Questa sua ossessione di comprendere i meccanismi della natura diventò via via sempre più febbrile, tanto che lui non finiva mai i suoi lavori. Si può sempre fare meglio nell’osservazione della natura. Quindi l’opera rimane sempre imperfetta, necessariamente incompiuta.
Resta anche nel non finito una sua straordinaria capacità di rappresentare l’invisibile, i moti dell’animo, gli affetti. Basta pensare allo sguardo di Sant’Anna nel celebre cartone conservato a Londra.
L’essere umano è al centro dell’opera di  Leonardo, che si interessa anche di fisiognomica e di patognomica. In mostra si racconta il suo interesse per i moti dell’animo, parlando dell’Ultima cena affrescata in Santa Maria delle Grazie (1945- 1948 ndr). Ne è l’espressione più alta e intensa. Leonardo qui mette al centro l’invisibile, ciò che può essere letto solo dall’espressione dei volti, dalla gestualità esterna, la quale però traduce in modo indiretto ciò che muove i personaggi interiormente. Il Cenacolo è il teatro delle emozioni in senso proprio . La cura con cui Leonardo prepara questa straordinaria pittura muraria abbiamo cercato di raccontarla in mostra attraverso il linguaggio del cinema, del teatro, della multimedialità.
È curioso che nelle migliaia di fogli che Leonardo ha lasciato non ci sia un accenno al fatto che il Cenacolo aveva già cominciato a disgregarsi quando lui era in vita. Lo stesso vale per la Battaglia di Anghiari che presto svanì dalle pareti di Palazzo della Signoria, a Firenze
Leonardo era un tipo molto particolare, probabilmente rimuove questi insuccessi, ma non possiamo affermarlo, non abbiamo documenti. Certo è che il Cenacolo gli costò molto di preparazione. Lui non era un pittore intuitivo, preparava le opere con un grande scrupolo. Compresa la Battaglia di Anghiari. Ma Leonardo è un uomo di successo, viene chiamato a Milano e ha una giustificazione anche con sé stesso per abbandonare Anghiari e dedicarsi ad altre cose.
Lei scrisse anni fa nel catalogo Giunti che accompagnava la prima edizione della mostra che Leonardo come scienziato non ebbe influenza sui secoli seguenti perché i suoi manoscritti per molti secoli furono dimenticati e dispersi. Oggi è ancora di quell’avviso?
Il giudizio credo vada bilanciato. Leonardo ha avuto una serie di grandi intuizioni. Nella sua maturità intuì che per capire molte di quelle attività che oggi chiamiamo scienza occorre la matematica, la geometria; è necessario introdurre dei modelli.  Che in gran parte riprese da Archimede a Euclide. Fu un pioniere in questo. Ha poi avuto un ruolo molto importante nell’ottica e ha praticato con cura l’anatomia. Arrivando a vedere dei fenomeni che solo un secolo e mezzo più tardi si potranno capire. Ma la ragione per cui queste sue acquisizioni non furono riprese non dipese solo dalla dispersione dei manoscritti, ma anche dal modo in cui erano concepiti. Ragiona per frammenti. Leonardo morde e fugge. Tocca un argomento e subito lo abbandona per parlare di altro. Nello sforzo di comprensione delle cose, la sua mente non segue  sempre un procedimento lineare, procede per intuizioni. Nei suoi scritti non ci sono quattro pagine consecutive dedicate a uno stesso argomento e questo tipo di materiale era difficilissimo da usare per i filosofi naturali del suo tempo. Il modello usato da Leonardo era in certo modo quello dei ricettari medievali, ispirati al principio della varietà.

da left-Avvenimenti primo maggio 2009

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Roma, 16:00

LEONARDO DA VINCI: GALLUZZI, SUO PENSIERO PER INTUIZIONI

Leonardo da Vinci , Macchina volante

Leonardo da Vinci , Macchina volante

(AGI-repubblica.it) – Ragiona per frammenti. Morde e fugge. E tocca un argomento e subito lo abbandona per parlare di altro. Nello sforzo di comprensione delle cose, la sua mente non segue sempre un procedimento lineare: procede per intuizioni. Lo dice in un’intervista al settimanale ‘Left’ in edicola e curata da Simona Maggiorelli, il direttore dell’Istituto e del Museo della scienza, Paolo Galluzzi, uno degli artefici della mostra aperta ieri e fino al 30 agosto a Roma, ‘La mente di Leonardo’. Subito viene messo in chiaro l’obiettivo della mostra: “non fare Leonardo a fette. Ma mostrarlo tutto intero – spiega Galluzzi – Non puntare l’obiettivo su cio’ osservava, quanto cercare di capire come funzionava il suo pensiero”. E di Leonardo saranno presentati tre disegni inediti appartenenti ad una collezione privata e mai prima esposti che recano testimonianza della scenografia e della macchina teatrale che ideo’ nel 1508, per una messinscena milanese dell’Orfeo di Poliziano. E per la quale realizzo’ una articolata macchina scenica che riportava Plutone il dio degli inferi in questo mondo. Dipinti che testimoniano l’impegno di Leonardo su il tema della ‘Leda e il cigno’, che si legava a un progetto piu’ ampio sull’ibridazione fra uomo ed animale e sulla sessualita’ naturalistica. “Un tema mitologico pagano, quello della Leda e il cigno, che gia’ ci introduce a un tratto originale di Leonardo – osserva Galluzzi – la sua insofferenza verso dio e la teologia, documentati in vari passaggi dei suoi scritti. Leonardo certamente non era vicino alle forme di riflessione tipica del pensiero religioso tradizionale. Aveva una sua religiosita’ intesa come ammirazione per la natura come come forza fisica esplosiva, ma anche come forza vitale, come carica”. (02 maggio 2009)

http://www.repubblica.it/ultimora/24ore/LEONARDO-DA-VINCI-GALLUZZI-SUO-PENSIERO-PER-INTUIZIONI/news-dettaglio/3659159

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Nicla Vassallo: La fantasia non è la pazza di casa

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 19, 2008

La religione cristiana ha ucciso le antiche dee della fertilità e ha creato Eva. L’islam obbliga le donne al velo dimenticando che Sherazade era una donna intelligente e colta, cancellando la donna idealizzata cantata dai poeti arabi preislamici, come racconta Fatema Mernissi nel suo nuovo libro Le 51 parole dell’amore in uscita per Giunti. Ma qual è il motivo più profondo di tanta violenza delle religioni contro l’immagine femminile? «Tutte le religioni monoteiste propongono un dio maschile che pretende di essere unico; un dio possessivo, egocentrico ma, soprattutto, onnipotente e creatore» nota la filosofa Nicla Vassallo che il 23 settembre a Milano discute di religioni e donne con Corbellini, Ferraris, Lerner e altri su invito dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna. «Che la donna possa generare infastidisce le religioni – spiega Vassallo -. Perché rende meno onnipotente Dio. Ovviamente non parlo solo del fare figli, ma della creatività femminile che si può esprimere in letteratura, nell’arte nella ricerca e così via. Per questo le donne intelligenti e quelle colte, nella storia sono state ostacolate. Specie in Italia. Non a caso il nostro Paese viene dopo il Botswana per le opportunità che abbiamo come donne di emergere nei vari campi».
Nel suo Filosofia delle donne (Laterza) scritto con Garavaso ricorda che per Aristotele le donne sono maschi menomati. E non va meglio con Kant, con Hegel e altri. Per Malebranche «l’immaginazione è la pazza di casa». Il cultori del Logos ostracizzando il femminile hanno perso la fantasia?
Temo di sì. Il problema è nato con l’idea che l’uomo è, o deve essere, razionale. Per cui le donne, si dice, sono irrazionali e dunque non sono esseri umani.
E con loro i bambini.
In filosofia c’è stato anche chi ha detto che fino a 6 o 7 anni non sono esseri umani e che non hanno un’identità. Un discorso terribile se pensiamo a quali rischi i bambini così potrebbero essere esposti.
«Ben venga Ipazia a ricordare a Cartesio e a Kant che non si può fare buona filosofia senza tener conto sia della mente sia del corpo», lei scrive. Il pensiero dunque non è di origine divina e non può essere scisso dal corpo?
Il dualismo mente-corpo, porta con sé anche il pensiero errato che le donne siano solo con il corpo. Ma forse non bisogna prendersela troppo con Cartesio, che al contrario di altri teneva in alta considerazione le donne. Pensiamo al suo rapporto con Elisabetta di Boemia e Cristina di Svezia. Nei suoi scritti non ho mai letto nulla contro le donne. Il cogito ergo sum, per lui, non è solo degli uomini.
È peggiore Spinoza che parla di naturale inferiorità delle donne e fa del pensiero astratto un assoluto annullando ogni realtà materiale?
Sì, perché il dualismo di Cartesio, per quanto sia da contestare, prova a cercare un rapporto fra mente e corpo. Quello che fanno i filosofi che annullano completamente la corporeità è tutt’altra cosa, arrivano a non far riconosce all’essere umano una parte fondamentale di se stesso.
Il filosofo che svolge il suo pensiero in modo astratto e solipsistico, lei scrive, «dà un’immagine distorta dell’essere umano». Una teoria della mente che sia scientificamente fondata non può che partire dal rapporto con l’altro, con il diverso da sé?
Non solo una teoria della mente ma una teoria più complessivamente della persona. La relazione con l’altro è fondamentale per il nostro sviluppo psicofisico. E poi pensiamo a quanto dipendiamo dagli altri anche dal punto di vista conoscitivo. Dall’affettività, dalla ricchezza della nostra vita emotiva dipende il fatto che noi possiamo avere meravigliose intuizioni, fare arte ma anche scoperte scientifiche. Simona Maggiorelli

Left 38/08

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Nuove mappe letterarie

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 10, 2005

Il canone occidentale scricchiola. Sulla scena internazionale una carica di nuove autrici: le voci più interessanti vengono dall’Asia, dal Medioriente, dall’Africa e dai Caraibi. Molte di loro sono state ospiti di Lingua Madre alla Fiera del Libro di Torino: Simona Maggiorelli ne ha raccolto il messaggio

Un luogo quasi magico, fatato. Carico di frutti. Uccelli multicolori sugli alberi. E fontane da cui sgorgano gocce di diamante. Montagne svettanti, cariche di neve e nel mezzo dell’altopiano assolato, la città di Kabul, cosparsa di ville e minareti. Così raccontava il paese in cui la famiglia aveva vissuto da oltre 900 anni il padre della scrittrice e giornalista Saira Shah. “Da bambina mi faceva narrazioni straordinarie di quella terra, per me, lontanissima”, ricorda la giovane autrice e giornalista, nata in Inghilterra e solo di recente, dopo la guerra, tornata a ritroso sulle strade dell’emigrazione della sua famiglia. Il suo L’albero delle storie (Rizzoli, pag. 309, 16,50 euro), presentato alla Fiera del libro di Torino il 7 maggio, è uno straordinario racconto di viaggio, evocativo, pieno di poesia e, insieme, di forte denuncia. “Questa volta non mi interessava fare la cronaca dei fatti, non volevo fare un intervento giornalistico – dice Saira, autrice nel 2000 del documentario scandalo Sotto il velo – , ma trasmettere al lettore un po’ di quel fascino che emana da quella terra antichissima, dalla sua millenaria cultura, dalla visione del mondo e dai valori di quell’Islam moderato in cui sono stata allevata”. Valori, dice, come la tolleranza, lo spirito di indipendenza, il coraggio, la dignità. “L’islam che mio padre mi ha trasmesso è quello di un maestro afgano come Baghawi di Herat – dice ad Avvenimenti. Sosteneva che un’ora di riflessione vale più di una notte di preghiera e che le donne sono la metà gemella degli uomini, con le stesse opportunità”. Un contrasto durissimo con ciò che accade oggi, con storie come quella, feroce, toccata qualche giorno fa a una giovane afgana, lapidata, come vuole la religione dei talebani, perché adultera. (Mentre il suo amante se la cavava con qualche frustata sulla pubblica piazza). Che dire allora dei talebani? E come sono riusciti a prendere il potere? “Certamente ancora oggi i talebani controllano larga parte del paese, ma non tutto – spiega Saira – . Non sono gruppi omogenei fra loro, ma hanno avuto mezzi economici per imporre la legge della violenza. E dal punto di vista religioso sono d’accordo con quei musulmani che denunciano l’analfabetismo dei talebani. Non conoscono veramente l’Islam. Solo alcuni sono persone colte, ma la gran parte di loro è di un’ignoranza abissale”. Ne L’albero delle storie racconta di loro, dei loro scempi, registrati viaggiando attraverso il paese devastato dalla guerra, percorso a bordo di un camion, con indosso il burka e con il cuore in gola per la paura; aiutata dalle attiviste della “Revolutionary association of the women” che, al suo fianco, rischiavano la vita come lei e più di lei: “prima la tortura e poi una pallottola in testa o più semplicemente la scomparsa nel nulla di Pul i Charki”. Saira non risparmia accuse, ai talebani, ma anche agli invasori stranieri. “Se gli Stati Uniti avessero davvero voluto – accenna – avrebbero potuto sgominare una volta per tutte i talebani. Ma non l’hanno fatto”. E, con amarezza, aggiunge: “Nella sua storia l’Afghanistan ha dovuto registrare due devastazioni. Due superpotenze, l’Urss prima e poi gli Usa, l’hanno invaso, devastato e poi se ne sono andate, lasciando il paese, come è oggi, in ginocchio, senza che l’opinione internazionale più se ne curi”.

La lingua dei sensi

Il suo primo libro, Caffè Babilonia (Pomegranate soup) è già stato tradotto in 8 lingue, ai capi opposti del mondo. «Una risposta davvero inaspettata», esclama Marsha, occhi luminosi e grandi, su un volto ancora da ragazzina che dimostra meno dei suoi 28 anni. «Tutto è successo così all’improvviso – dice la scrittrice iraniana presente alla Fiera del per presentare il libro edito da Neri Pozza -, una vera sorpresa, del tutto inaspettata».
A conquistare è stata la freschezza con cui Marsha Merhan racconta di tre sorelle che, con prelibatezze persiane, creano scompiglio in un paese irlandese. «L’unico vero scopo che mi ero data – racconta – era dare un po’ di gioia ai lettori». E puro piacere sensuale, che mobilita tutti e cinque i sensi, si sprigiona dalle pagine di questo romanzo, in parte autobiografico: di vero c’è la fuga con la famiglia dalla rivoluzione kohmeinista, l’infanzia in Argentina dove i genitori di Marsha avevano aperto un caffè persiano, e poi l’Irlanda dove ora la scrittrice vive. «Una storia un po’ complicata la mia – accenna-, con molti approdi fra diverse culture. Quando lasciai l’Iran – racconta – avevo due anni. E la maggior parte dei mie ricordi si legano agli odori, ai sapori. Il profumo delle spezie e dell’acqua di rose, l’odore dei gelsomini, i cancelli scolpiti di casa dei miei nonni, piccole cose, delicate. A Teheran non ho dovuto subire persecuzioni o violenze, come è accaduto a molti della mia famiglia». Nei primi anni 80 era cominciata la rigida imposizione del velo, e le vessazioni della polizia su chi dissentiva dai principi del neo stato teocratico. Ma in Iran oggi molte cose potrebbero cominciare a cambiare, sostiene Mehran: « Basta dire che il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. In Iran oggi moltissimi sono i ragazzi educati, colti, esigenti, inquieti, alla ricerca». Notizie che filtrano anche attraverso la rete, frequentatissima dai giovani iraniani. «Un paio di anni fa comunicavo via internet con una ragazza iraniana. Con immagini d’arte fotografava l’underground di Teheran e i locali di ritrovo, dove i giovani vanno per un caffè, per fumare e parlare. Discutono di filosofia, di politica, di arte, con lo stesso fervore con cui il loro coetanei occidentali parlano delle ultime tendenze di moda e di attori. Non servono a nulla, mi disse un giorno, scoraggiata: “le mie foto non cambiano nulla”. Il pensiero che il talento di giovani come lei possa andare sprecato mi pare tristissimo. Ma penso che un cambiamento pacifico possa avvenire, spero che accada nel tempo di una generazione» Tornare là però, per Marsha Mehran è più impossibile. Una solida e stratificata tessitura di differenti culture è il segno della sua scrittura. Esuberante, seducente, con ricette persiane a fare da stuzzicante incipit ad ogni capitolo. «Anche l’arte culinaria è un linguaggio – assicura la scrittrice-. Non c’è niente che curi e che unisca di più di un pasto preparato con cura». E poi parlando di “lingua madre”, uno dei fili rossi di questa fiera del libro, racconta: «scrivo in inglese, sogno in inglese ma la mia “anima” è persiana. E questo dualismo mi ha accompagnata da quando sono nata. A Buenos Aires – racconta -frequentavo la Scottish Accademy. Così fin da piccolissima ho imparato ad esprimermi in tre ritmi diversi: spagnolo nella strada, inglese a scuola e lingua farsi a casa. Ogni sera i miei genitori pretendevano che prima di andare a dormire dicessi: “Shab-e kher! Buenas Noches! Goodnight!” Non c’è possibilità per me di separare questi tre elementi, l’est, l’ovest, il persiano, l’inglese. La considero una gran fortuna».
Una ricchezza multietnica e moderna contro cui cozzano gli opposti fondamentalismi: del terrorismo islamico e del governo Bush. «Sono tempi precari, quelli che viviamo – suggerisce Meheran -, ma anche stimolanti. Negli Usa ho abitato per anni in città multiculturali come Miami e New York. Non ho mai visto un tale miscuglio di colori, tanta bellezza nelle differenze, come a NY. Certo ci sono anche tensioni, problemi. Ma la città attrae proprio perché è aperta, inclusiva. C’è di che riflettere. Si può sviluppare un forte senso di identità e di tradizione, anche accogliendo una molteplicità di altre tradizioni forti. Ci vuole tempo, pazienza e rispetto. Ma, forse, anche coraggio».

La lingua della ribellione

«Scrivo in inglese. Ma ho sempre avuto un rapporto molto complesso con questa lingua. Continuo a lottare per farle dire ciò che io vorrei. Perché, come ogni altra lingua contiene i residui della sua storia. Ma, come ogni altra lingua, non può opporre resistenza alla forza dell’esperienza e del pensiero». Così, con dolorosa passione, racconta il suo corpo a corpo quotidiano con la lingua del potere la scrittrice, poetessa e saggista caraibica Dionne Brand a Torino per presentare il suo nuovo romanzo Il libro dei desideri (What we all long for) edito da Giunti. La sua storia, ma anche uno dei suoi romanzi più forti e intensi, Di luna piena e di luna calante (Giunti), hanno radici a Trinidad, dove Brand è nata nel 1953. Una storia quella del romanzo che ce l’ha fatta conoscere, scandita da mattini lussureggianti nel verde e nel rosso dei campi di cacao. Di un rosso che “sa di sangue marcio” come dice la protagonista Marie Ursele, arrivata come schiava dall’Africa. Un giorno, deciderà di giocarsi la vita per far arrivare, ai “sordi” latifondisti, la protesta sua e dei compagni. «La storia di Marie si basa su fatti realmente accaduti a Trinidad – racconta Brand – Una donna che si chiamava Thisbe nel 1802, progettò un suicidio di massa fra gli schiavi di una piantagione. Per questo impiccata, il suo corpo mutilato, fu arso, la testa portata in giro come trofeo.“Questo è un sorso d’acqua rispetto a ciò che ho dovuto sopportare”, disse mentre le mettevano il cappio al collo».Una storia che è anche un grande affresco della storia di Trinidad, raccontata attraverso 150 anni. Terra amatissima da Brand nonostante l’esilio volontario, da 35 anni a Toronto.«La mia eterogeneità, il mio senso di libertà – racconta – lo devo all’essere cresciuta a Trinidad fra culture diversissime». Esperienza poi continuata nella ancora più multicultare Toronto. E dal cuore della città canadese è nata l’ispirazione per questo nuovo Il libro dei desideri, storia di emigrazione e di un’interminabile fuga dagli anni 70 agli anni 90 di una famiglia vietnamita. «Un romanzo – racconta la stessa Brand – che parla delle vite che si incrociano nella metropoli, del caso che le fa ritrovare, di passione giovanile e oblio….». Una storia forte e romantica, ma che non fugge da uno sguardo critico sul presente. «È difficile per me avere speranze positive sugli scenari internazionali» accenna Brand passando ala politica, l’altra sua passione. «Viviamo in tempi segnati dall’imperialismo americano, da corporazioni capitalistiche che controllano la sfera pubblica. Mentre nuovi razzismi richiamano vecchi razzismi. Non so cosa potrà accadere – dice con preoccupazione -. Il gap che va crescendo fra paesi poveri e ricchi non è un fenomeno naturale, né si tratta di un frutto del capitalismo che possa essere corretto e controllato da organismi come l’IMF o la banca mondiale. È un gap è deliberato e atroce”. Ma subito aggiunge: “Detto questo, in questo momento mi trovo a scrivere un libro di poesia. Una contraddizione assoluta. Ma c’è una parte di me che pensa che scrivere sia importante. Una parte di me insopprimibile, malgrado l’evidenza dica esattamente il contrario».

La lingua del viaggio

La lingua madre? «Ognuno ha la sua, originale», racconta Anita Rau Badami, autrice del romanzo rivelazione Il passo dell’eroe (Marsilio). Epos familiare, ironico e avvincente, che curiosamente ha fatto, di lei nata 38 anni fa in India, una delle voci emergenti della letteratura nordamericana. «Il passo dell’eroe – racconta Badami – è un passo classico nella danza indiana, quello dell’eroe nell’ora dell’attacco da parte dei demoni». Ma a guardar bene, suggerisce, «anche un uomo qualunque, un padre di famiglia, ha il suo passo dell’eroe. È lo stile, assolutamente personale, con cui ognuno di noi affronta le prove, le sfide, i drammi che la vita ci mette davanti». Accade così nel corale affresco di una famiglia indiana che Badami racconta in questo suo affascinante romanzo, in cui si alternano sette voci diverse, sette diverse figure di donne e uomini nel raccontare la vita nelle piccole case disagiate, nelle strette viuzze di Madras sovraffollate, in cui l’attaccamento a antichi riti va di pari passo con l’ultimo modello di computer. «Una società contraddittoria, ma che ha un suo fascino potente – racconta Badami -ho dei parenti là, mi sono nutrita dei loro racconti». Nostalgia di una terra lontana come può esserlo l’India dal Canada? «Sono emigrata all’inizio degli anni 90 – racconta – per seguire mio marito che lavorava qua. Ciclicamente, però, penso di tornare nella mia terra, così piena di gente che parlano, che fanno festa, in cui sai tutto di tutti, ma quando sono là poi mi manca il silenzio dei quartieri canadesi, l’aria metropolitana che si respira qua». Una vita sempre a metà fra due o più mondi quella di Badami, sempre all’incrocio di differenti culture. «Almeno tre, di sicuro- esclama Anita -. Ho sempre avuto a riferimento tre diverse lingue madri, l’inglese che parlavano tutti in casa, l’hindi che avevo imparato a scuola e il kannada, la lingua con cui mia madre ci sgridava. Lo parlava anche mio padre, ma con un dialetto diverso. Insomma sarebbe un vero caos per me dire: questa è la mia lingua madre». Una storia cominciata quando era piccolissima e il lavoro del padre, ufficiale delle ferrovie indiane costringeva di tanto in tanto tutta la famiglia a trasferirsi in una nuova zona. «Avevo una valigia verde allora che ogni volta riempivo con i miei giocattoli e vestiti, elettrizzata dalla prospettiva di una casa nuova e di fare nuovi amici. Quando mio padre andò in pensioni e non ci furono più viaggi, per me fu un momento tristissimo. Da grande poi mi sono accorta che quella valigia verde era diventata un baule pieno di storie e di personaggi da raccontare».

da Avvenimenti, n.17

: 10 maggio 2005

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