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La scultura è morta. Viva la scultura

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 25, 2010

di Simona Maggiorelli

Maurizio Cattelan

Ormai da vari decenni la parola scultura è diventata desueta nel mondo dell’arte. In Italia a praticarla in linea con la tradizione, in un senso poetico alto, di fatto sono rimasti Arnaldo Pomodoro e pochi altri appartati maestri. Cercando perlopiù di riattualizzarne il significato di intervento civile nel tessuto urbano. Per il resto, come esemplifica bene la panoramica internazionale contenuta in Scultura oggi di Judith Collins uscita di recente per Phaidon, questa pratica antichissima di creare forme nuove con scalpello e lime è diventata qualcosa di radicalmente altro. Incontrando l’architettura, la videoarte e la performance, la scultura si è fatta intervento ambientale, installazione, percorso plurisensoriale, esplorazione di una spazialità nuova, non più intesa solo in senso fisico, ma anche come apertura di uno “spazio” interiore.

Un processo cominciato già con i primi, avanguardistici, ambienti di Lucio Fontana che pure veniva da una solida  pratica di ceramica tutta tradizionale. Nella prima metà del Novecento proprio nelle mani di artisti e anticipatori del contemporaneo come lui la scultura si è liberata da ogni rigida convenzione. Ma anche e soprattutto da ogni accento retorico e ideologico. Poi ad alcuni fatti di cronaca, per quanto non attinenti strettamente all’arte, alcuni critici e artisti hanno voluto attribuire un significato in relazione a questo passaggio.

Agli inizi del nuovo millennio, per esempio, l’abbattimento della statua di Saddam Hussein in Iraq è stato letto anche come la fine di un certo modo di intendere la scultura. Nell’immaginario collettivo, insomma, quella sequenza di immagini rimbalzata sui media da un capo all’altro del mondo non avrebbe incarnato solo un sogno di democrazia, ma avrebbe simboleggiato anche la definitiva impraticabilità di un genere di scultura che ha cantato le lodi di ideologie dittatoriali diventandone totem e feticcio. Proprio da qui, dalla morte della scultura come monumento, è partita la riflessione che il curatore Fabio Cavallucci svolge con la XIV edizione della Biennale internazionale di scultura di Carrara, intitolata, non a caso, Postmonument e raccontata in un omologo catalogo Silvana editoriale.

Cai Guo-Qiang head on

E ancora nell’orizzonte bianco delle cave di marmo da cui Michelangelo trasse interi blocchi intonsi per i suoi capolavori ecco ardere le capanne rosso fuoco fotografate da Giorgio Andreotta Calì e galleggiare, come in levitazione, le sagome umane rivestite d’oro di Liu Jianhua oppure ecco comparire fantasmagorie di animali firmate dal cinese Cai Guo Quiang. E ancora sculture di bottoni che miniaturizzano scenari urbani, archi costruiti con staccionate di sedie intrecciate, mulini che fendono l’aria nel cuore dell’agorà pubblico. Tutto si mescola e acquista nuovi significati in questi antichi contesti. Sotto la guida di Castellucci la Biennale 2010 si fa immaginifica Wunderkammer. Amplificata da fiabeschi percorsi paralleli nel Castello Ruspoli di Fosdinovo dove giovani videoartisti come Emanuele Becheri e Riccardo Benassi reinventano gli spazi con filmati e installazioni. Nel frattempo, insieme al grande artista cileno Alfredo Jaar, questi stessi giovani sperimentatori accendono di nuove luci e significati anche la Cattedrale e il Battistero di Carrara.

da left-avvenimenti del 25 giugno 2010

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Spalletti, il colore non è superficie

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 29, 2010

All’Accademia di Francia a Roma una personale dell’artista abruzzese

di Simona Maggiorelli

” La bellezza è come una lama. Taglia come taglia una bella donna che attraversa una piazza” dice Ettore Spalletti. E in quel segno, di un’emozione così intensa che spacca, che crea una discontinuità sensibile, nel tessuto quotidiano dell’ordinario, ha iscritto tutta la sua ricerca. Dagli anni Sessanta a ora.

Via via con un fare arte sempre più essenziale,decantato, rigoroso, per arrivare ad opere che abbiano la potenza di una visione. Con i suoi folgoranti monocromi azzurri che sembrano irradiare colore, modificando l’atmosfera, il “tono” dello spazio circostante o come i suoi affreschi che ricordano il modo che aveva Piero della Francesca di far assorbire il colore come fosse calce viva. E ancora le composizioni di colori blu,rosso, oro, che riescono a ritmare lo spazio come se fossero un’alternanza di pieni e vuoti.

Opere spesso difficili da etichettare le opere di Spalletti che qualcuno ha definito pittura-scultura-architettura, per quella capacità che hanno di dare vita a uno spazio d’invenzione, attraverso il movimento continuo di forme colore. Rileggendo la lezione di Malevic e poi di Rothko e per quel che riguarda la scoperta di uno spazio non solo fisico avendo fatto tesoro delle geniali invenzioni di Lucio Fontana.

All’Accademia di Francia il direttore Richard Peduzzi e la curatrice Gabriella Lonardi Bontempo invitano a ripercorrere tutta la parabola artistica di questo appartato maestro abruzzese che si è cercato negli anni, e inutilmente, di assimilare all’arte povera e al minimalismo ( dal quale è infinitamente lontano per uso del colore e, soprattutto, per il “calore” che trasmettono le sue opere).

Nella storica sede romana di Villa Medici, fino al 16 luglio, la mostra Il colore si stende, si asciuga, spessice, riposa propone quadri, sculture, ambienti. Installazioni che si lasciano attraversare e vivere, con un’idea di architettura che Spalletti ha sempre concepito come accoglienza, più che come segno spettacolare.

E ancora una serie di sculture che ricordano le forme concave di vasi antichi, in cui ritorna lo splendore dell’azzurro e un rosa che non esiste in natura e che appare sempre diverso, mutevole, come il colore della pelle sotto il sole.

Un colore che Spalletti, in una lunga intervista contenuta nel catalogo che accompagna la mostra, confessa di non sapere più come sia nato. ” A me-dice- è sempre piaciuto impastare il colore per trovare un colore che non fosse solo superficie, ma che avesse una qualità, una profondità, una risonanza interiore. Allora quel colore mi portava dappertutto anche dentro i sogni dell’immagine figurativa”.

da left-avvenimenti 19 maggio 2006

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Il codice cifrato della bellezza

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 30, 2009

di Simona Maggiorelli
Nella  galassia dell’ arte islamica in cui si intrecciano differenti culture. Lo storico dell’arte Luca Mozzati con il nuovo libro Arte islamica (Mondadori arte) invita a un viaggio nel mondo variegato nato dall’incontro fra i primi conquistatori arabi e la straordinaria eredità mesopotamica, iranica, ma anche bizantina. Un universo complesso che trova espressione nella pittura, nell’architettura, nella calligrafia, nella ceramica, nei tappeti e che a nostri occhi occidentali, troppo spesso, risulta lontano, appiattito, alterato da pregiudizi. Come quello che vorrebbe l’arte islamica rigidamente aniconica  oppure la posizione dell’artista tout court schiacciata da quella del committente religioso, quando in realtà nell’Islam, come scrive Mozzati « non esistono chiesa, sacerdoti o sacramenti».
«Per cominciare – spiega il professore – va detto che nell’arte islamica il concetto di artista, come soggetto creatore, non esiste. Fino al Rinascimento non ci fu nemmeno da noi. Possiamo parlare di esplicita volontà individuale con artisti come Michelangelo. Non prima. Ma il fatto che uno si muova all’interno di canoni formali non pregiudica l’eventuale espressione di contenuti individuali, anche se nell’Islam per noi possono non essere immediatamente leggibili».
Così se la floridissima miniatura e la tradizione di libri illustrati che si sviluppò nell’impero ottomano, in Persia e in parte dell’Asia ci appare in certo modo più familiare, la scintillante cascata di stalattiti (muqarnas) che sovrasta moschee, madrase e tante architetture islamiche ci seduce sul piano emotivo, ma perlopiù ci lascia disarmati dal punto di vista della decodificazione del suo significato di rappresentazione della bellezza dell’infinito pulsare del cosmo. «Importanti apparati decorativi a carattere logico-matematico connotano l’arte islamica – approfondisce Mozzati -. Si presentano come una sorta di linguaggio cifrato. Chi è in grado di comprenderne la bellezza,  vi può cogliere quell’assoluto che nell’Islam pertiene all’ambito del divino». In capolavori come la ceramica a mosaico della moschea del venerdì a Yazsd, per esempio, l’ alternanza ritmica  di bianco turchese blu e marrone e la trama delicata del disegno floreale crescono su un rigoroso disegno geometrico. «Il senso lirico sovrapposto a quello razionale – prosegue Mozzati – sembra ricordare che per cogliere l’invisibile che si cela dietro quanto possiamo vedere bisogna fare appello alle facoltà intellettuali come a quelle emotive».
Professor Mozzati, nell’ Islam il divino è ritenuto non rappresentabile?
Certo non è rappresentabile in forma antropomorfa. Per i musulmani, così come per gli ebrei, sarebbe una bestemmia. Lo rappresentano in letteratura ma mai in pittura tranne rarissime eccezioni. Per trasmettere un messaggio che parli dell’esistenza di dio fanno ricorso a un tipo di bellezza che non è individuale e arbitraria ma astratto-geometrica. Rimanda alla legge che sottostà alla creazione. Come espressione di un’intelligenza divina che secondo la logica islamica permea tutto.
Dio creatore onnipotente  e insieme arbitrio umano. Come possono coesistere?
E una delle aporie dell’Islam. Nel Corano c’è l’assoluta necessità di obbedire a Dio, quanto la possibilità di agire secondo ciò che si sente. La lettura fondamentalista porta alla tragedia. Come è accaduto anche nel Cristianesimo. Le matrici delle due religioni sono simili: l’Islam, del resto, emerge dal  Cristianesimo orientale del  V e VI secolo.
Lei accennava al nesso fra bellezza e geometria.Quali rapporti ci furono fra Islam, Platonismo e poi con il neoplatonismo?
Il rapporto con tutta la filosofia greca antica fu molto forte. Nell’Islam c’è stata enorme attenzione per la scienza greca, almeno fino al XII e XIII secolo. Le più importanti personalità della matematica, della geometria, dell’astronomia nel X e XI secolo, non a caso, sono emerse in ambito islamico. La filosofia neoplatonica ipotizza un mondo superiore, un mondo altro, diverso da quello quotidiano. E in questo ci può essere un nesso. I musulmani credono che tutto accadrà nell’al di là, ma a differenza dei cristiani non hanno il senso drammatico del peccato, della colpa da espiare.
Alle origini del Cristianesimo ci fu una fase di iconoclastia feroce. Si parla di aniconismo, invece, per l’arte islamica. è corretto?
La nostra iconoclastia fu contemporanea al sorgere dell’Islam che molto probabilmente ne fu influenzato. Il rischio dell’idolatria era molto sentito dagli intellettuali costantinopolitani. Ma i monaci erano iconolatri e ritenevano l’icona fondamentale per la trasmissione del messaggio. Nell’Islam, in realtà, la questione dell’aniconismo è più tarda:  nell VIII secolo troviamo i primi hadit che proibiscono le immagini nei luoghi sacri. (O meglio di preghiera dacché nell’Islam non esistono luoghi sacri eccezion fatta per la Mecca). Dipingere figure umane in una moschea sarebbe blasfemia perché ci si metterebbe in concorrenza con il creatore e si farebbe una brutta copia di ciò che lui ha realizzato. Non dimentichiamo che nella spiritualità orientale la figura umana rappresentata è pensata come animata e viva. Quando gli egizi facevano delle statue poi “ infondevano” loro la vita. In tutto l’Oriente si riscontra un  certo pudore nel rappresentare l’essere umano.
Ma a Damasco ci sono scene erotiche nelle case affrescate fatte costruire dai califfi. Come si spiega?
I primi Califfi vi trovarono chiese cristiane piene di affreschi e ne percepirono il significato propagandistico. Così si dettero a costruire splendide architetture per dare un senso identitario ai musulmani. Per le moschee scelgono decorazioni a dimensione astratta e atemporale ma nelle abitazioni profane aristocratiche si riscontra una assoluta libertà di rappresentazione: scene di caccia e di guerra, balli, donne nude, scene erotiche esplicite, ma confinate nella sfera privata. Non si ostentavano perché il popolo non avrebbe accettato questa libertà delle élite.
I califfi rifiutarono la condanna dell’architettura espressa da Maometto?
Gli Abbasidi, in particolare, ristabilirono un culto imperiale di tipo persiano: il califfo aveva un suo spazio a parte nella moschea, camminava sui tappeti, era una sorta di dio in terra, cosa del tutto inusuale nell’Islam che non conosce una gerarchia nel luogo di preghiera.  Di fatto gli arabi erano stati dei barboni nel deserto e dal deserto poi  partì la rivolta contro la corruzione di quelli arrivati al trono.  Nel mondo arabo è successo molte volte. Gli arabi, diversamente dai persiani, venivano dal deserto ed erano abituati a condizioni di vita estreme e avevano un radicalismo di pensiero altrettanto estremo. i Persiani, invece, avevano una cultura diversa, alta, millenaria.
L’influenza araba fu importante anche in Spagna e in Sicilia; come si configurò questo rapporto che oggi appare stranamente rimmegato negli studi e più ancora nella politica che ha parlato di radici cristiane dell’Europa?
Gli artigiani e gli artisti che i Normanni radunarono intorno a sé erano cristiani che avendo lavorato in ambito musulmano si erano islamizzati nello stile. Così in Sicilia troviamo opere dall’iconografia cristiana ma di “spirito” islamico, a sua volta sedimentato sul bizantino cristiano. Così nascono i padiglioni di caccia normanni. La zisa, la cuba, la cubola sono architetture islamico orientali, fatte per regnanti cristiani. Lo stesso vale per le cattedrali di Cefalù e Monreale. In Spagna c’è l’arte mozarabica, per la Sicilia parliamo di arte normanna ma bisognerebbe dire arte islamica in tempo cristiano. Non abbiamo una definizione corretta. Di certo ci fu un’osmosi continua fra le diverse culture.
da left-avvenimenti del 18 dicembre 2009
pondi
Inoltra

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Scrivere per immagini

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 18, 2009

di Simona Maggiorelli

In the mood for love di Wong Kar Wai

L’ Atlante delle emozioni,  con cui Giuliana Bruno ha vinto nel 2004 il premio internazionale Kraszna-Krausz come migliore libro sulle immagini in movimento, è davvero uno dei saggi più sorprendenti degli ultimi anni per chi si occupa di arte contemporanea e di estetica. Non solo per l’affascinante cartografia di percorsi e di nessi che tesse viaggiando fra architettura, arti visive e cinema. Ma anche per il linguaggio con cui  queste cinquecento pagine sono scritte.  Fondendo discorso accademico e racconto, teoresi e linguaggio rapsodico, «con il piacere – annota l’autrice stessa – di selezionare e organizzare il discorso in forma di travelogue visivo».
Laureata all’Orientale di Napoli e dal 1990 professore di Visual and enviromental studies a Harvard con il suo monumentale Atlante delle emozioni e con libri come Pubbliche intimità, anch’esso uscito in Italia per Bruno Mondadori, Giuliana Bruno ha “imposto” una voce radicalmente diversa nel rigido panorama internazionale della critica dominato da scelte razionaliste, gelidamente concettuali, astratte.

Ci è riuscita “partendo da sé,” dal proprio sentire, rifiutando uno sguardo oggettivante e recuperando alla scrittura immagini e affetti. «E’ vero – ammette la studiosa che in questi giorni è a Roma per la due giorni di studi che ha inaugurato il MAXXI  ( e che ha visto la presenza di Aaron Betsky– e della stessa Hadid) ho cercato un modo di guardare differente, uno sguardo nuovo, per così dire “tattile”. La maniera classica di guardare ci ha insegnato una fredda distanza fra noi e le persone che guardiamo.

A me sembra, invece, che ci sia un modo un po’ più carezzevole di avvicinarsi e di essere toccati dalle immagini. In modo che l’occhio non sia di un voyeur ma di un voyager, per me declinato al femminile, come voyageuse. Insomma mi interessava una modalità più fluida di entrare e di guardare attraverso le cose e di rapportarsi agli ambienti che attraversiamo, a quei luoghi che raccolgono le nostre emozioni, le nostre memorie. Niente è neutro, tanto meno gli spazi della rappresentazione.

In the mood for love

Possiamo leggerlo come un recupero delle emozioni ostracizzate dai filosofi?
Le emozioni non hanno nulla a che fare con il sentimentalismo. Sono una forma di conoscenza. E l’immagine ha un contenuto, un sostrato. Al di là di quello che mostra di per sé. Le immagini emotive si muovono nel tempo e non solo nello spazio.
Mentre lei scriveva il suo Atlante delle emozioni, il filosofo Remo Bodei sceglieva per il proprio lavoro  un titolo spinoziano come Geometria delle passioni, due diverse modalità?
Ho incontrato più volte Remo Bodei, è una persona straordinaria, sensibile. Però sul piano intellettuale, innegabilmente, esprime una forma di geometria, mentre, per dirla con Deleuze, il mio pensiero ha molte pieghe.
A proposito di cultura francese, lei prende le distanze dal discorso che Julia Kristeva ha fatto sull’«apparato cinematico». Perché?
Semiologia e  psicoanalisi si sono occupate dello sguardo filmico e lo hanno trattato non solo come testo ma come apparato di una forma di visione. Ho letto molto ma mi sembrava che mancasse qualcosa di fondamentale in quegli scritti. Ovvero che il modello applicato a questo apparato filmico fosse una sorta di trappola lacaniana da cui non si riusciva a uscire. La soggettività veniva rinchiusa in una forma di rappresentazione duplice e spaccata di fronte allo specchio. A mio modo di vedere lo schermo cinematografico è più di uno specchio o di una finestra.  E non mi corrispondeva lo sguardo trascendentale e incorporeo,  questo io-ego come grande occhio, che emergeva da questa lettura lacaniana del cinema che è stata a lungo dominante nella cultura francese.
Così si è rivolta al filosofo Hugo Münsterberg, collaboratore di William James. Un curioso personaggio che riconosceva forza psichica alla rappresentazione cinematografica. Come l’ha scoperto?
Mentre cercavo di mettere a punto un mio diverso approccio al cinema scrivendo l’Atlante delle emozioni mi sono ricordata di avere un libriccino di questo filosofo ebreo tedesco che avevo letto molti anni prima. Münsterberg faceva ricerca agli inizi del XX secolo, in un periodo molto fertile, quando nasceva la psicologia sperimentale. E aveva dato vita a suo laboratorio filosofico sulle immagini.  Nel 1916, dunque molto presto, Münsterberg scoprì il cinema e scrisse  un libro assai interessante. All’epoca nessun filosofo si occupava  di cinema. Né tanto meno si pensava che fosse un’arte. Avendo lavorato molto sulla psiche, invece, Münsterberg riconosceva al cinema non solo la possibilità di rappresentare delle cose ma anche di rappresentare come pensiamo. Parlare di forza psichica del cinema per lui significava riconoscerne la forza emotiva, ma anche cognitiva. Naturalmente lui non andava oltre. Si trattava, invece, di leggere le forme di immaginazione e di rappresentazione cinematografica. Ma il suo pensiero mi è parso comunque importante. Tanto da dedicargli una monografia che sta per uscire negli Usa.
«L’indubbio progenitore del cinema è l’architettura», scriveva Ejzenštejn. è stato per lei una fonte?
Sono tornata a Ejzenštejn proprio per il rapporto che vedeva fra montaggio e architettura. Di  lui, ovviamente, si è scritto molto, ma  un suo saggio degli anni Trenta mi ha spinta a continuare una ricerca trasversale  che associa il cinema alla produzione di spazio in tutti i sensi, non solo  fisico. Come l’architettura anche il cinema è una maniera di “spaziare” in molti sensi. Il primo film, diceva Ejzenštejn,  è l’Acropoli di Atene. Non la caverna di Platone. Proponendo così un modello metaforico molto diverso. Il  cinema  richiama l’attraversamento di luoghi  in una città con una serie di visioni, di immagini in movimento. Lo spettatore non è più intrappolato nella caverna platonica. Ma l’accostamento fra l’architettura e il cinema funziona anche se si pensa al  solo fatto che l’architettura non si contempla. Si recepisce con il corpo, con la sensazioni.
Nel suo lavoro il cinema di Antonioni occupa un posto importante. Come regista capace di creare «uno spazio mentale» e di raccontare per immagini il mondo interiore dei  personaggi. Ci sono registi oggi ai quali riconosce una ricerca analoga?
Sì amo molto Antonioni, con il suo modo di filmare quasi minimalista riesce a tracciare personaggi a tutto tondo, non meri caratteri. Antonioni non parlava del personaggio attraverso l’azione, ma con l’introspezione che traspare dalle sue inquadrature. Talvolta anche di bellissime architetture vuote. Basta questo per restituirci il mondo interiore di un personaggio, il modo in cui sente e vive. Una cosa che ritrovo per esempio in Wong Kar Wai, regista di In the mood for love. Anche se  con un’estetica diversa, ritrovo nel suo cinema un certo modo di guardare il rapporto fra uomo e donna, lo spazio psichico, lo spazio della memoria, lo spazio dell’immaginazione, il tempo. Si ha la sensazione che questo spazio contenga una durata che non riguarda la  “velocità”. Questo sguardo differente torna anche in molte installazioni di arte. Lo trovo non di rado espresso nelle immagini in movimento che oggi si vedono nelle gallerie d’arte.
La videoarte, integrando più linguaggi d’arte, apre nuove possibilità espressive?
In Pubbliche intimità ho insistito molto su questo cambiamento che a me pare molto interessante. Non è la morte del cinema ma un’estensione dello sguardo filmico che entra nelle gallerie e nei musei proponendo un modo diverso di relazionarsi con le immagini. Non è più la contemplazione della pittura come immagine fissa, ma comprende il movimento dell’immagine, il movimento dello spettatore e il movimento di un tempo che direi interiore. Nella concitazione della vita metropolitana alcune opere di videoarte e installazioni offrono un modo di riappropriarsi del tempo,  dell’interiorità.  In un certo senso queste nuove forme di arte ci invitano a guardare le immagini guardandoci dentro e a guardarsi dentro per vedere meglio fuori e, spero, per cambiare.
Nel tempo breve, ellittico, di un’opera di videoarte le immagini talora ,possono arrivare ad avere un “calore” speciale, una deformazione quasi onirica, poetica.
E’ una dimensione che riguarda il “tenore” delle immagini ma non solo. Penso, per esempio, a certe opere sonore di Janet Cardiff: seguendo la sua voce si entra in uno spazio. Altre volte c’è una piccola videocamera che ti permette di percepire la forma di relazione che l’artista ha con il mondo. è come se ti facesse entrare nella sua mente, nella sua maniera di sentire. In una sua installazione realizzata dopo l’11 settembre, ricordo, aveva collocato delle casse in un luogo molto grande. Gli spettatori potevano muoversi e ascoltare dagli amplificatori oppure mettersi dove  volevano. L’atmosfera che si veniva a creare era molto particolare, intensa, partecipata. Ognuno in silenzio seguiva il filo delle proprie immagini interiori, ma al tempo stesso era vicino agli altri. In un momento molto duro per New York, in un museo, stranamente si aveva la sensazione di poter attraversare questo trauma in maniera anche pubblica, sociale. è un aspetto del cinema che mi ha sempre molto affascinato e che qui trovavo allo zenit. L’installazione di Cardiff permetteva di essere al contempo molto dentro di sé e insieme di condividere con altre persone  emozioni, sensazioni, pensieri, forme di discorso. Di nuovo a Berlino qualche mese fa ho incontrato una sua installazione. Ho notato che i più giovani avevano spento tutto, telefonini, iPhone e quant’altro e ascoltavano a occhi chiusi. La dimensione in cui si era trasportati non aveva nulla di nostalgico, niente di religioso. Era come se l’artista ci invitasse a fermarci un momento. Per non essere sempre spezzati tra le cose, per trovare un modo, anche solo per un istante, di connettersi con gli altri e con il nostro mondo interiore.

da left avvenimenti del 13 febbraio 2009-

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Anteprima Biennale di Venezia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 31, 2009

Fra luci e ombre è cominciato il count down per l’attesa 53esima edizione curata da Daniel Birnbaum che aprirà il 7 giugno

di Simona Maggiorelli

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Xu Tan per la Biennale di Venezia

Immagini che parlano di un incontro fra architettura e arte nel segno di asciutta e disincarnata geometria, in controtendenza con la dichiarata spettacolarità dell’ultima Biennale di architettura , ma fino al punto da rintanarsi nel segno di un ordinato e strenuo razionalismo. Ci consoliamo solo pensando che l’assaggio di Biennale che ci è stato offerto di certo non rappresenta l’insieme. E di certo non vogliamo procedere a una stroncatura preventiva, ma solo accennare a qualche stilla di delusione per quello che abbiamo visto della ristrutturazione degli spazi del padiglione italiano realizzata dal nostro amatissimo Massimo Bartolini e da Tobias Rehberger.

Michelangelo Pistoletto per la Biennale 52

Michelangelo Pistoletto per la Biennale 53

E più ancora riguardo alle opere scelte da  Daniel Birnbaum di Pistoletto, Roccasalva, Berti, Mir, Starling, Zholud, Fahlstrom, Hefuna, Yongping, fra le più fredde delle rispettive produzioni. Lo diciamo con rammarico, sperando davvero di qui a due mesi di doverci ricredere. Perché dalla prossima Biennale del giovane e talentuoso Birnbaum- dopo la pesante Biennale stelle e strisce di Roberto Storr – ci aspettiamo molto. Sperando, dal prossimo 7 giugno, di poter trovare nei settantasette padiglioni nazionali e nelle trentotto manifestazioni collaterali della 52esima Biennale di Venezia una vivace visione del mondo dell’arte di oggi che ci permetta di dimenticarci all’istante del Padiglione Italia, che già si annuncia celebrativo al massimo grado del protofascismo marinettiano. Alle Tese delle Vergini dell’Arsenale ,infatti, i curatori Beatrice Buscaroli e Luca Beatrice ( scelti dal Ministro Bondi) promettono un inattuale “ritorno alla cosalità dell’opera e al suo essere oggetto”. “La nostra quindicina di artisti italiani capeggiati da Sandro Chia proporrà un omaggio a Marinetti, il maggiore genio del Novecento, italiano e europeo”: Ipse dixit Beatrice Buscaroli, pupilla di Marcello Dell’Utri.

da Left-Avvenimenti del 27 marzo 2009


LA NUOVA GEOPOLITICA DELL’ARTE

Daniel Birnbaum

Daniel Birnbaum

di Simona Maggiorelli

L'installazione di Massimo Bartolini

L'installazione di Massimo Bartolini

Settantasette Paesi rappresentati e un ventaglio di manifestazioni collaterali per dare voce a quelle regioni, come la Catalogna, il Galles, la Scozia, che non si riconoscono nei propri padiglioni nazionali. E poi la compresenza del padiglione israeliano e di quello iraniano. La Biennale di arte numero 53 ridisegna la mappa geopolitica dell’arte. Anche se il giovane e quotatissimo direttore Daniel Birnbaum si schermisce: “Quando mi chiedono se la Palestina sarà rappresentata come area regionale o come Stato nazionale rispondo che la mia aspirazione è raccontare ciò che più di interessante si muove nel mondo dell’arte. E il linguaggio delle immagini non conosce nazionalità e confini”. Così l’attesa rassegna in programma dal 7 giugno al 22 novembre a Venezia, sotto il titolo bandiera “Fare mondi” promette di raccontare il presente, con slanci di apertura verso il futuro, utopico e di speranza. “ Il passato invece – prosegue Birnbaum- sarà rappresentato in mostra attraverso l’opera di alcuni artisti che già negli anni Sessanta hanno preconizzato il fenomeno della globalizzazione e i problemi connessi. Ma in chiave poetica e imprevista, Mi riferisco, per esempio ad artisti come l’austriaco Friedensreich Hundertwasser che per un periodo, incarnando il racconto di Italo Calvino, ha vissuto su un albero documentando questa esperienza”. E se la Biennale del direttore sarà una biennale aperta ad artisti proveniente da ogni parte del mondo e in questa chiave di attenzione ai temi che riguardano l’ambiente, il vivere civile, e, per così dire, un nuovo umanesimo, a farle da pesante controcanto sarà il Padiglione Italia, che si annuncia celebrativo al massimo grado del protofascismo marinettiano. Il nuovo Padiglione Italia alle Tese delle Vergini dell’Arsenale a cura di Beatrice Buscaroli e Luca Beatrice ( scelti dal Ministro Bondi), in controtendenza con il mondo internazionale dell’arte proporrà “ un ritorno alla cosalità dell’opera” dice Beatrice, al suo essere oggetto. Mentre Buscaroli aggiunge: “la quindicina di artisti italiani da noi selezionati, da Basilé a Bertozzi&Casoni, da Nicola Bolla, a Sandro Chia, propongono un omaggio a Marinetti, il maggiore genio del nostro Novecento e di quello europeo”.

da Terra, 24 marzo 2009

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Quando fioriva il Comune

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 23, 2005

Arnolfo di Cambio, dopo settecento anni a Perugia. Ricostruita la fonte del Grifo e del Leone, l’opera monumentale voluta dalla capitale umbra, influenzata da Nicola Pisano, e distrutta dopo soli venti anni. I cinque marmi che restano parlano un linguaggio nuovo per il Medioevo, anticipatore dell’Umanesimo. Nella mostra anche Cimabue, Duccio, Giotto. Da aprile Arnolfo tornerà nella sua Firenze.

di Simona Maggiorelli

L'assetata di Arnolfo di Cambio

L'assetata di Arnolfo di Cambio

A settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio (Colle Val d’Elsa tra il 1240 e il 1245 – Firenze, intorno al 1302), dopo la bella mole di mostre e di convegni che la sua terra di nascita gli ha dedicato un paio di anni fa, l’Umbria prosegue il cammino di studi organizzando intorno al periodo umbro di questo maestro della scultura e dell’architettura tardomedievale: un doppio percorso espositivo, giocato fra Perugia e Orvieto e che ha anche il sapore di un invito alla scoperta della cosiddetta Umbria “minore”, disseminata di abbazie, di chiese e palazzi e castelli duecenteschi fra Assisi, Spello e Bevagna, Giano dell’Umbria, Massa Martana, Todi, Titignano e Prodo .
La mostra, Arnolfo di Cambio, una rinascita nell’Umbria medievale, curata da Vittoria Garibaldi e Bruno Toscano, ha un pregio innanzitutto: quello di ricostruire un importantissimo pezzo perduto del repertorio di Arnolfo di Cambio, la sua fonte del Grifo e del Leone, detta anche degli Assetati, l’opera monumentale, e divenuta poi quasi leggendaria, che realizzò su commissione del comune di Perugia e in cui – come documentano i pochi pezzi superstiti – fortissima era l’influenza del maestro Nicola Pisano, lo scultore toscano che aveva coinvolto Arnolfo nei lavori per il Duomo di Siena e nella realizzazione dei rilievi dell’Arca per San Domenico Maggiore a Bologna, e che gli aveva trasmesso un senso più leggero, più mosso ed espressivo delle figure scolpite.

Con la fonte del Grifo e del Leone siamo nel pieno periodo della fioritura comunale, in quella parte del XIII secolo quando il governo di molte città medievali si fece più democratico e popolare, anche attraverso la creazione della figura del capitano del popolo.
In quell’ultimo scorcio di Medioevo, insomma, in cui le istituzioni pubbliche e civili cominciavano a “investire” in opere architettoniche e d’arte, concorrendo con la committenza ecclesiastica (che in Umbria era fortissima, per la presenza papale, ma anche grazie a diffusi e ramificati ordini mendicanti) attraendo artisti e maestranze, fra le migliori su piazza, come quella di Arnolfo, la cui fama si legava alla fabbrica di Santa Maria del Fiore a Firenze, ma anche alle commissioni papali che, nel corso della sua vita, lo portarono più volte a Roma. In questo quadro, dopo che il governo comunale aveva dato il via alla costruzione del grande acquedotto che avrebbe portato in città l’acqua pulita del contado, fra il 1278 e il 1281, Arnolfo scolpì la sua portentosa fonte, in origine collocata in piazza Grande, dal lato opposto della fontana Maggiore, dove rimase fino agli inizi del Trecento quando, durante un periodo di forte crisi della città, andò distrutta. Un’opera dalla vita breve, anzi brevissima, durata appena vent’anni, ma che ha lasciato un segno fortissimo nella storia dell’arte italiana.

Oggi ne restano solo cinque marmi con figure scolpite di grande intensità espressiva e che testimoniano il linguaggio colto e raffinato, nuovissimo per il Duecento, con cui Arnolfo di Cambio in qualche modo anticipò la svolta culturale dell’Umanesimo.
Fino all’8 gennaio 2006, per tutta la durata della mostra, nella galleria nazionale di Perugia, i cinque marmi scolpiti tornano a ricomporsi nell’originario progetto architettonico concepito dall’artista toscano, con le grandi statue bronzee del grifo e del leone reinserite nell’originaria struttura monumentale della fonte.

Ma accanto alle testimonianze della scultura arnolfiana in Umbria la doppia mostra curata da Garibaldi e Toscano, offre anche la possibilità di uno sguardo sinottico sulle conquiste dell’arte dell’Italia centrale nel Duecento, con una serie di opere di Cimabue, Duccio di Boninsegna e Giotto. A catalizzare l’attenzione, in questo caso, sono sopratutto gli affreschi staccati provenienti dalla Basilica di S. Francesco di Assisi: il grande Angelo di Cimabue, (rimosso dalla tribuna della chiesa superiore per una ricerca sul suo stato di conservazione), e una figura allegorica di Giotto, staccata dall’abside della chiesa inferiore, e che viene dal Museo delle Belle Arti di Budapest.
E se a Perugia, nella sala Podiani della Galleria Nazionale, un’intera sezione è dedicata alla ricostruzione del contesto storico e politico in cui Arnolfo di Cambio visse, tra XIII e XIV secolo, un periodo, come si diceva, caratterizzato da grandi trasformazioni culturali, sociali e urbanistiche, legate alla presenza delle residenze papali nelle due città umbre, nella chiesa di Sant’Agostino, a Orvieto, si possono ripercorrere tutte le fasi della costruzione della grande macchina del nuovo Duomo: il cantiere trecentesco, cosmopolita, variegato, crocevia della scultura gotica internazionale, a cui Arnolfo di Cambio partecipò con il progetto del monumento funebre al Cardinal de Braye.
Anche in questo caso un’opera in parte andata distrutta e poi ricostruita filologicamente dagli studiosi.

Da quello che resta – ovvero il cardinale rappresentato disteso sul letto funebre, con ai lati due chierici che chiudono le cortine e il feretro sormontato dalle statue della Madonna con Bambino. San Domenico e San Marco – si percepisce che l’opera era un esempio di quella geniale fusione di architettura e scultura che Arnolfo di Cambio introdusse nella storia dell’arte italiana. Anche qui, però, come nel caso della fonte di Perugia, molte sono le lacune. Sulla nascita, sulla fortuna e sulla distruzione della fontana, ampio spazio è dato nel catalogo edito da Silvana che accompagna la mostra umbra con contributi di Maria Rita Silvestrelli, Attilio Bartoli Langeli, Clara Cutini, oltre a quelli dei due curatori. Ma il mistero dell’assoluta modernità dell’opera di Arnolfo di Cambio, così come le sue origini, ancora oggi in parte incerte, invitano a continuare il lavoro di conoscenza di questo straordinario artista. Dal prossimo 25 dicembre (e fino al 21 aprile 2006) il testimone passerà a Firenze con la mostra Arnolfo alle origini del Rinascimento fiorentino, allestita al Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. In mostra una novantina di sculture in marmo e legno attribuite all’artista toscano, tra cui l’Annunciazione del Victoria and Albert Museum di Londra, e la Madonna Loese di Palazzo Vecchio a Firenze. A completare il contesto – per dare un quadro artistico complessivo di Firenze all’epoca di Arnolfo – saranno esposte anche sculture, pitture e oreficerie del tardo Duecento fiorentino.
La sfida che si sono dati i curatori di questa mostra fiorentina è alta: fare un confronto tra le opere arnolfiane giunte fino a noi e di tentare finalmente una ragionata ricomposizione della perduta facciata di Santa Maria del Fiore, capolavoro incompiuto di Arnolfo, smembrato e disperso alla fine del Cinquecento.

da Europa del 23 luglio 2005

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