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Il vero volto di Cleopatra

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 15, 2013

Cleopatra

Cleopatra

Conosceva molte lingue, e aveva una forte personalità. Ma dopo la sconfitta ad Azio da parte di Ottaviano, Cleopatra la regina d’Egitto, subì un feroce attacco alla sua identità, le sue capacità politiche furono negate e la sua femminilità fu direttamente colpita dalla storiografia augustea. Un dittico di mostre a Roma permette di ricostruire la verità storica

di Simona Maggiorelli

Roma riscopre la propria vocazione archeologica e alcuni capitoli di storia antica finalmente liberati dalla retorica fascista. Come è stato giustamente notato, solo un anno fa, un’esposizione dedicata all’imperatore Augusto e al lungo percorso che lo portò al potere avrebbe avuto il sapore di un’esaltazione della romanità di marca fascista.

Il cambio di governo in Campidoglio, se non altro, ha sgombrato il campo da ogni ombra di retorica mussoliniana e i curatori della mostra Augusto (aperta fino al 9 febbraio 2014, catalogo Electa) non esitano a dire: «Con questo evento vogliamo invitare il pubblico a conoscere la storia romana, e quella di Augusto per quella che è stata, fra luci e ombre, liberandola da ogni lettura ideologica». Così Annalisa Lo Monaco, curatrice della mostra insieme a Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Cécile Giroire e Daniel Roger.

E’ particolarmente interessante è, ai nostri occhi, che questa retrospettiva dedicata ad Augusto -che riunisce pezzi sparsi fra varie collezioni a Roma , a Parigi e a Londra e che termina con un monumentale bassorilievo sulla battaglia di Azio – si possa vedere alle Scuderie del Quirinale, mentre in un’altra zona del centro storico romano è aperta una mostra archeologica dedicata a Cleopatra e che racconta quello stesso episodio: la sconfitta di Antonio e Cleopatra ad Azio, nel 31 a.C. ad opera delle flotte di Ottaviano

. Ma stavolta dal punto di vista opposto, ovvero da quello della regina egiziana che per evitare l’onta di essere fatta prigioniera e trascinata in trionfo da Ottaviano scelse il suicidio. Una morte, si tramanda, causata dal morso di un aspide, animale divino secondo la tradizione egizia. Giovanni Gentili curatore della mostra Cleopatra Roma e l’incantesimo dell’Egitto (fino al 2 febbraio 2014, catalogo Skira) ha trasformato le sale scure e ovattate del Chiostro del Bramante in un prezioso scrigno di immagini di un Egitto esotico e seducente. Bassorilievi, statue, papiri iscritti e mosaici, molti dei quali ritrovati nelle ville patrizie vesuviane e romane, mostrano vivaci scene di gare acrobatiche sulle rive del Nilo, tuffatori atletici che sfidano i coccodrilli e poi statue di divinità egizie, sfingi e ritratti di Cleopatra come Iside, in un tripudio di alabastri, marmi, oro e gemme. Si racconta che Cleopatra si fosse mostrata per la prima volta ad Antonio solo vestita di gioielli sulla prua di una imbarcazione dalle vele rosse. Certo è che la regina amava lo stile e l’eleganza orientale come si evince dalla vera e propria egittomania che la sua presenza a Roma (nel ‘46 a C. quando era ospite di Cesare a Trastevere) scatenò fra le matrone romane assai diverse dalla colta e carismatica Cleopatra.

Figlia del re Tolomeo XII Aulete ( “il flautista”) aveva ricevuto una raffinata educazione greca, parlava otto lingue, e aveva un notevole statura politica. Ma come ricostruisce bene questa mostra romana, Ottaviano lavorò per infangarne la memoria e attaccarne l’identità femminile e l’immagine pubblica. La storiografia augustea denigrò le sue capacità diplomatiche e politiche, rappresentandola con tratti virili e dipingendola come oltremodo lussuriosa (per questo Dante la immaginò all’inferno). Uno stravolgimento che ben presto diventò vera e propria damnatio memoriae.

dal settimanale Left-avvenimenti

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Restauri sospetti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 28, 2013

Bronzi di Riace, restauro infinito

Bronzi di Riace, restauro infinito

Mentre il sindaco di Firenze Matteo Renzi nel Salone dei Cinquecento si danna a trapanare gli affreschi del Vasari in una insensata caccia del perduto affresco di Leonardo, pur di avere file di turisti non solo agli Uffizi, ma anche a Palazzo Vecchio, e mentre si moltiplicano gli scavi macabri in cerca di ossa della Gioconda, di Giotto e di altri malcapitati protagonisti della storia dell’arte italiana, un restauratore come Bruno Zanardi lancia un allarme riguardo al moltiplicarsi di restauri inutili. Quando non addirittura dannosi. Restauri commissionati solo per un effimero ritorno d’immagine da parte di Comuni ed enti privati. Restauri ingaggiati per drenare finanziamenti e che talora mettono a rischio la leggibilità critica dell’opera.

È questo il caso di un dipinto di Orazio Gentileschi «pulito per i prossimi mille anni», scrive Zanardi nell’acuminato pamphlet Un patrimonio artistico senza. Ragioni, problemi, soluzioni (Skira). Ricordando come una giovane storica dell’arte di un museo comunale del centro Italia gli avesse confidato orgogliosa di aver ottenuto diecimila euro per restaurare quel quadro… perché sarebbe dovuto andare in mostra il mese successivo. Ma c’è anche di peggio.

«Un’importante casa automobilistica prese a interessarsi di restauro», ricorda Zanardi nel capitolo “Raffaello, un restauro inutile, quasi dannoso”. In che modo quell’azienda privata avrebbe voluto dedicarsi a tale nobile impresa? «A modo suo», chiosa con ironia lo studioso che è stato allievo di Giuliano Urbani e sodale di Cesare Brandi. La casa automobilistica in questione prometteva «un pacco di soldi a uno dei più celebri musei italiani e del mondo per restaurare una qualsiasi delle opere lì conservate. Unica condizione: l’opera doveva essere molto famosa». Niente di male, direte. Chi produce auto non è tenuto a saperne d’arte. Ma il funzionario pubblico della soprintendenza sì. E avrebbe dovuto rifiutare quella proposta. Cosa che non è accaduta.

COP_8991_ZanardiPatrimonio_ok:SKIRA«Il soprintendente, italico more, se ne fregò e accettò», ricorda Zanardi. «Né la decisione destò problema. Anzi tutti a dire: questo sì che è un muoversi da liberale! Far entrare i privati nella tutela e nella valorizzazione. Nessuno osò sostenere il contrario». Ovvero che «un restauro condotto senza indiscutibili ragioni conservative è l’opposto di rigore etico, professionale e morale del liberalismo. Oltre a essere denari buttati via». Per non parlare poi della cosa più importante: i danni arrecati all’opera da un restauro inutile. E non si tratta di un singolo episodio. In questo appassionato diario di uno dei massimi restauratori italiani si trova un’intera pletora di casi analoghi. Compreso quello, annoso, che riguarda i bronzi di Riace in restauro da un paio d’anni. Il terzo dal 1980. Per una spesa di un milione di euro o giù di lì. A mo’ di commento Zanardi riporta lo sfogo (meritorio) di un custode che allargando le braccia gli dice: «Secondo me che li vedevo ogni giorno, erano perfetti. Bastava spolverarli…Ma mi rendo conto che se una cosa la spolveri e basta senza spendere nulla c’è una probabilità su un miliardo che tu vada in televisione e sui giornali».  (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Grand Tour d’autunno. Da Pollock a Antonello e Cézanne

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 21, 2013

Pollock, Number 27(1950)

Pollock, Number 27(1950)

Pollock  a Milano e Antonello da Messina al Mart. Il siglo de oro della pittura spagnola a Ferrara e le avanguardie russe a Firenze e Cézanne a Roma. Si apre una grande stagione di mostre in Italia 

di Simona Maggiorelli

In tempi in cui sui giornali la critica viene confinata in spazi sempre più esigui, pare un peccato dedicare lo spazio della recensione settimanale ad un carnet di vernissage. Ma la stagione di grandi mostre che si prepara è talmente ricca di proposte da meritare, per una volta, una deroga. Così cogliendo l’impegno con cui molti musei pubblici stanno cercando di reagire alla crisi, eccoci pronti a squadernare le tappe di questo ideale Grand Tour. Che non può che partire da Milano, dove il 24 settembre si apre la mostra Pollock e gli irascibili. Curata da Carter Foster e da Luca Beatrice la rassegna allestita in Palazzo Reale ruota intorno a Number 27, opera cardine del maestro dell’action painting americana.

Antonello da Messima, ritratto di giovane (1475-8)

Antonello da Messima, ritratto di giovane (1475-8)

In contemporanea, in un’altra ala di Palazzo Reale, MondoMostre e Skira editore in collaborazione con il Centre Pompidou di Parigi presentano più di ottanta ritratti e autoritratti di maestri come Matisse, Modigliani, Brancusi, Picasso, Giacometti, Baselitz, de Lempicka, Kupka, Beckmann e molti altri.

Ad un altro esponente delle avanguardie storiche, il pittore modernista Josef Albers, che fu uno dei protagonisti del Bauhaus, è dedicata una monografica, dal 26 settembre, alla Fondazione Stelline. Mentre il 5 ottobre, sempre a Milano, per la giornata del contemporaneo indetta dalla rete dei musei del contemporaneo (Amaci) al Pac si apre una retrospettiva Vite in transito dell’artista di origini albanesi Adrian Paci che dal 1997 ha scelto il capoluogo lombardo come sua città di adozione sviluppando un’intensa riflessione sui temi dell’emigrazione attraverso la pittura, la scultura e la videoarte. Uscendo da Milano, in direzione Trento, una tappa imperdibile del nostro tour riguarda il Mart di Rovereto, dove il 5 ottobre si apre una attesa retrospettiva di Antonello da Messina, straordinario maestro del Quattrocento italiano che Ferdinando Bologna e Federico De Melis tornano a studiare mettendo a confronto, anche in un denso catalogo Electa, la sua complessa e originale poetica con quella dei suoi contemporanei.

Kandinsky, avanguardie russe a Firenze

Kandinsky, avanguardie russe a Firenze

E ancora: dopo il terremoto, dal 14 settembre, Ferrara è  teatro di una nuova stagione di mostre ospitando in Palazzo dei Diamanti una monografica dedicata a Zurbarán che insieme a Velázquez e Murillo dette vita al Siglo de oro della pittura spagnola. Firenze, invece, dal 27 settembre, si segnala per la mostra L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente che raccoglie in Palazzo Strozzi opere di Kandinsky, Malevic, Filonov, Goncarova e altri in un percorso che punta ad approfondire le fonti orientali ed eurasiatiche nel Modernismo russo.

Continuando a scendere lungo la penisola, arriviamo a Roma dove l’8 ottobre si apre una retrospettiva di Marcel Duchamp che nelle sale della Gnam ne rilegge l’opera alla luce dell’influenza che ha esercitato sugli artisti del secondo Novecento e oltre. Restando nella capitale, ma spostandoci al Vittoriano, dal 4 ottobre, la mostra Cezanne e gli Artisti del XX secolo permette di comprendere più da vicino l’influenza che il maestro francese esercitò su artisti diversissimi fra loro come Boccioni e Morandi.

Last but not least a Genova, per i centocinquant’anni dalla nascita di Edvard Munch, a novembre una grande retrospettiva dedicata al pittore norvegese  continuando la staffetta delle celebrazioni che fino al 13 ottobre, a Oslo, proseguono con una antologica articolata in più spazi, dalla Galleria nazionale al Museo Munch, all’Università ( su questo vedi il precedente post Gli spettri di Munch).

FOCUS:  IL CENTRE POMPIDOU A MILANO

Con ottanta capolavori scelti provenienti dal Centre Pompidou di Parigi, il 25 settembre si è aperta in Palazzo Reale a Milano un’esposizione dedicata al tema del ritratto e dell’autoritratto: la forza rivelatrice dell’autoritratto a cui gli artisti nella storia hanno affidato la propria biografia più intima è raccontata attraverso una serie di exempla novecenteschi. Dai consunti e quasi arsi autoritratti di Giacometti a quelli angosciosamente scomposti di Bacon. Mentre la trama segreta dei rapporti fra pittore e modella, nella mostra Il volto del ‘900. Da Matisse a Bacon. I grandi capolavori del Centre Pompidou, è affidata dal curatore Jean-Michel Bouhours a statuari ritratti di Jeanne, la pittrice che fu la compagna di vita Modigliani, alle sensuali odalische di Matisse e agli scomposti ritratti cubisti che Picasso dedicò crudelmente alle sue amanti.

L’arte del ritratto è fra le più antiche d’Occidente e, nel corso dei secoli, ha conosciuto enormi mutamenti, fino a diventare altro di sé, rinnovandosi completamente, in coincidenza con la scoperta del mezzo fotografico. Dall’Ottocento in poi il ritratto dipinto perde ogni necessità descrittiva, si affranca dalla piatta visione retinica, lasciando emergere sulla tela qualcosa di più profondo: una forma latente, alludendo a quell’immagine interiore che rende vitale, mobile, espressivo, unico e irripetibile, un volto umano. Lo sapevano bene gli artisti delle avanguardie storiche e prima ancora i pittori coevi al fotografo francese Félix Nadar. Ma non solo.

«In questa nostra società dell’immagine, dominata da icone piatte e svuotate di senso è importante, oltre che affascinante, poter riflettere sui nuovi significati che la rappresentazione della figura umana ha acquisito nel corso del ‘900» ha detto l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno, presentando la mostra che resterà a Palazzo Reale fino al 9 febbraio 2014. «L’avvento della fotografia – approfondisce Del Corno -, ha prodotto nel secolo scorso un nuovo modo di rappresentare il volto umano, provocando un potente fluire di originalità creativa nelle opere di ritratto, che sono diventate al tempo stesso più complesse e più libere, perché svincolate dalle committenze e dalle esigenze di documentazione e celebrazione». Questa mostra offre opportunità di comprendere questo percorso, dal vivo attraverso opere dei maestri già citati accanto a ritratti e autoritratti di Zoran Music, Suzanne Valadon, Maurice de Vlaminck, Severini, Delaunay, Brancusi, Julio Gonzalez, Derain, Max Ernst, Mirò, Léger, Adami, De Chirico, Fautrier, Baselitz, Marquet, Tamara de Lempicka, Kupka, Dufy, Masson, Max Beckmann. Il saggio del critico Flaminio Gualdoni contenuto nel catalogo Skira offre una valida guida e uno stimolo a proseguire la ricerca sul ritratto oltre il percorso espositivo offerto dalla mostra.

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Gli spettri di Munch

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 5, 2013

Munch, autoritratto 1886

Munch, autoritratto 1886

di simona Maggiorelli da Oslo

«Camminavo lungo la strada con due amici, il sole tramontava, il cielo si tinse d’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un parapetto. Sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco quando sentii un grande urlo infinito che attraversava la natura».

Così Edvard Munch descrive sul suo diario l’episodio che avrebbe poi cercato di rappresentare con L’urlo (1893) condensandolo in un volto deformato dall’angoscia. Un primo piano straniante senza tratti riconoscibili, avvolto in striature ondeggianti di colore dalle tonalità violente, quasi espressionistiche. In pochi tratti, una scena che sembra racchiudere tutta la disperazione del pittore, che a trent’anni scriveva di sé: «Ho ricevuto in eredità due dei più terribili nemici dell’umanità: la tubercolosi e la malattia mentale.

La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla». Cultore del filosofo esistenzialista Kierkegaard e di Nietzsche, e soprattutto sodale di Strindberg, Munch in una pagina del diario dice di aver sentito parlare di Freud, ma di fatto il pittore non si interessò mai di psicoanalisi. Piuttosto preferiva cercare nell’arte un modo per riuscire a rappresentare quel dolore psichico che altrimenti, scrive in un passaggio del diario, «non sapevo esprimere a parole».

Munch, L'Urlo 1983

Munch, L’Urlo 1983

A partire da questo stretto rapporto fra arte e vita e intorno al celeberrimo Urlo, Oslo ricorda i 150 anni dalla nascita di Munch con la più vasta retrospettiva che gli sia mai stata dedicata. Intitolata semplicemente Edvard Munch 1863-1944 e accompagnata da un denso catalogo Skira, la mostra al Nasjonalgalleriet e al Munch-museet di Oslo fino al 13 ottobre presenta 220 dipinti e 50 opere su carta che permettono di ripercorrere tutti i 60 anni di carriera di Munch attraverso una straordinaria scelta di ritratti e autoritratti (alcuni pochissimo noti) di paesaggi visionari, di claustrofobiche scene familiari ma anche di feste di società in cui, come fossero marionette, gli esponenti della borghesia norvegese, consumano vacui riti sociali.

Nel Fregio della vita , in particolare, Munch rappresentava quella borghesia di cui lui stesso faceva parte come puritana e chiusa nell’asfittico e provinciale mondo di Kristiania (oggi Oslo). Ed è uno spietato teatrino di ibseniani spettri quello che Munch tratteggia in feste notturne al mare e passeggiate in città in cui le atmosfere glaciali non sono solo dovute alla neve. Proprio in occasione di questa importante antologica è stato ricostruito filologicamente l’allestimento del Fregio della vita così come Munch lo aveva pensato per la Secessione di Berlino nel 1902.

Così sulle pareti colorate della Nasjonalgalleriet, dove sono esposti i lavori eseguiti tra il 1882 e il 1903, scorre un nastro di potenti visioni incorniciate di bianco, sono immagini che tratteggiano un’infanzia malata e soffocante, che rievocano i primi turbamenti adolescenziali e soprattutto che parlano di un sanguinoso e alla fine impossibile rapporto fra uomo e donna. Al Munch-museet (dove sono esposti i quadri datati dal 1904 al 1944) spiccano intere sequenze di quadri che raccontano una mortale guerra dei sessi, dove la donna appare come femme fatale, una sorta di vampiro che lascia l’uomo cadaverico ed esangue, impriginandolo nella sua rete tentatrice.

Munch, Amore e psiche,1907

Munch, Amore e psiche,1907

Qui e alla Nasjonalgalleriet ritornano anche rappresentazioni di baci che Munch immagina come angoscianti incontri fusionali in cui entrambi i partner finiscono per perdere la propria identità. Il rapporto con il femminile è visto dall’artista come lotta e sofferenza, passione e gelosia, tensione e violenza.

Solo nei quadri dell’ultimo periodo in cui Munch rilegge il topos del pittore e la modella le giovani figure femminili appaiono belle e idealizzate, anche se rappresentate sempre in contrapposizione al pittore anziano che, nel quadro, le osserva con sguardo rapace. La sua pittura intanto si è fatta più sintetica, più essenziale. La figurazione appare più sfrangiata ed evocativa, ed esplode il colore. Nonostante questo però i quadri di Munch in questa ultima fase finiscono per assomigliare ad un’ossessiva ripetizione di varianti sugli stessi temi. Ma il percorso esplorativo della sua opera non si ferma qui (il programma completo è sul sito www.munch150.no) e si annunciano interessanti occasioni di approfondimento anche in Italia: dal 4 ottobre in Palazzo Ducale a Genova Marc Restellini, direttore della Pinacotheque de Parigi e già ideatore di una importante retrospettiva su Munch presenta una nuova monografica realizzata con Arthemisia Group e 24 ORE Cultura.

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La lezione di Urbani. Per una archeologia del presente

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 6, 2013

museoFigura singolare Giovanni Urbani (1926 – 1994) nel panorama dell’arte italiana. Perché incurante di steccati e rigide compartimentazioni sapeva combinare l’interesse per l’archeologia e per la conservazione dell’antico con una acuminata e non di rado corrosiva osservazione del panorama contemporaneo.

Allievo di Lionello Venturi e di Cesare Brandi, Urbani ne seppe rielaborare la lezione in modo originale. Intellettuale dandy lo definisce Giorgio Agamben nella prefazione del libro Giovanni Urbani per un’archeologia del presente (Skira).

Ma senza la fatuità dell’esteta. Anzi impregnato di un forte senso del tragico (alimentato da letture filosofiche).

Coltissimo e aristocratico nelle sue frequentazioni intellettuali Giovanni Urbani trascorse tuttavia la vita dedicandosi alla tutela dei beni culturali lavorando all’Istituto centrale del restauro da semplice funzionario. Vi approdò in un anno cruciale per la storia italiana, il 1945. Arrivando a dirigerlo nel 1973. Per poi – anche questo un gesto davvero insolito in Italia – lasciare il proprio posto e ruolo anzitempo, molti anni prima della pensione, per spezzare il muro di silenzio che il mondo accademico aveva alzato attorno alle sue idee innovative e dopo aver amaramente constato l’impossibilità di realizzare i propri progetti.

Immagine 2A cominciare da quel Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria (1975) che esemplato in una mostra e un catalogo, tratteggiava un lungimirante modo di concepire la tutela, considerando l’opera d’arte come un organismo vivente, invitando storici dell’arte e restauratori a considerare anzitempo il suo divenire nel tempo, cercando di prevederne le possibili traettorie. E alla luce di quanto è accaduto di recente con i terremoti dell’Emilia e de L’Aquila, particolarmente illuminato ci appare oggi un testo come La protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico che Giovanni Urbani stilò nel 1983, dal quale sono poi derivate importanti iniziative dell’Istituto Centrale per il restauro come la realizzazione della Carta del rischio. Un testo paradossalmente “contro il restauro”, nel senso che punta a mettere l’accento sulla prevenzione dei guasti. Bene ha fatto dunque Bruno Zanardi a raccogliere e riproporre al lettore oggi questa preziosa raccolta di interventi di Giuliano Urbani – scritti giornalistici e d’occasione perlopiù – ma che nella composizione di questo volume, Per una archeologia del presente, mostrano un filo teorico fortissimo: un filo rosso di passione civile che portava Urbani a stigmatizzare una classe politica italiana che già negli anni Sessanta e Settanta si mostrava incurante e sorda verso l’importanza del nostro patrimonio artistico: capillarmente diffuso e definito in modo originale dal rapporto con il territorio in cui è inserito. «Il patrimonio culturale non viene inteso come vitale elemento di appartenenza e immedesimazione – annotava uno sconsolato Urbani – ma come superfluo ornamento e finisce con l’essere marginalizzato».

dal settimanale left

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Scandalosa Venere. Da Tiziano a Manet

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 27, 2013

Eduard Manet Olympia (1863)

Eduard Manet Olympia (1863)

La scandalosa Olympia (1863) di Manet è arrivata  a Venezia. Offrendo la straordinaria occasione di un confronto dal vivo con una delle sue fonti: La Venere di Urbino di Tiziano.

Grazie alla collaborazione fra il Museo d’Orsay con musei americani e britannici in Palazzo Ducale a Venezia, fino al primo settembre,  nella mostra

Manet, ritorno a Venezia si possono vedere ottanta opere di Édouard Manet (1832-1883), fra le quali Il balcone e Il pifferaio, in un percorso, espositivo curato da Stéphane Guégan, che punta ad indagare i rapporti fra il pittore francese e i maestri dell’arte italiana che furono un punto di riferimento forte nella sua formazione (insieme agli spagnoli Velàzquez e Goya).

Al centro della mostra veneziana, coprodotta da 24 Ore Cultura – come accennavamo – c’è l’incontro al vertice fra due capolavori assoluti del nudo come l’Olympia e la Venere che Tiziano dipinse nel 1538 per Guidobaldo II Della Rovere , due capolavori che, in epoche diverse, fecero aggrottare la fronte di molti benpensanti.

Quella di Manet per il piglio crudo e diretto con cui l’artista ritrasse la sua amante nella posa di una prostituta, in mezzo ad aggetti quotidiani e con un’espressione vagamente plebea, come ebbero a dire i curatori del Salone dei Rifiutati che nel 1863 rimandarono al mittente Le déjeuner sur l’herbe in cui Manet ricreava il Concerto campestre (1510) di Giorgione, rappresentando la sua amante e modella completamente nuda in primo piano, fra uomini vestiti di tutto punto. L’opera fu giudicata oltraggiosa e come l’Olympia scatenò una ridda di polemiche.

Tiziano, Venere di Urbino (1538)

Tiziano, Venere di Urbino (1538)

Certo il linguaggio pittorico di Manet era radicalmente innovativo, per il violento contrasto dei toni,  l’assenza di prospettiva, per la provocatoria quotidianità dei soggetti rappresentati, per la scelta di colori piatti e l’accentuazione dei contorni alla maniera antirealistica, tipica delle stampe giapponesi. Ma tutto questo non basta a giustificare il biasimo che l’Olympia valse al suo autore.

Pietra dello scandalo, a bene vedere, era il fatto che una modella, presenza normale e accettata anche nuda negli studi di artista, si facesse poi vedere a spasso con il suo mentore-artista.

In epoca ben diversa, in quel Cinquecento in cui su cui si allungava l’ombra della Controriforma, Tiziano fece un passo se possibile ancor più ardito scrivono Guy Cogeval e Isolde Pludermacher nel catalogo Skira che accompagna la mostra:   «La Venere di Tiziano è un capolavoro di erotismo – notano i due studiosi – la testa leggermente inclinata, lo sguardo insinuante, il corpo abbandonato tra i morbidi  cuscini, i capelli d’oro, la luce riflessa che sembra accarezzare la pelle nuda, fanno da scrigno all’improbabile gesto della mano sinistra.Tiziano rappresenta in realtà una donna che si tocca il sesso mentre ci guarda, un unicum nella storia del nudo femminile».

Edouard_Manet_016 Un gesto così inusitato e irraccontabile «che molti commentatori d’epoca, non ne parlano affatto. Glissano».

Il coraggio di Tiziano, va detto, si deve certo alla libertà che si era guadagnato con una fama che, grazie alla committenza dei sovrani di Spagna, dilagò a livello internazionale, ma si deve anche alla atmosfera di colta libertà che si respirava alla corte di  Urbino e al fatto che questa Venere arditissima fu commissionata a Tiziano dal duca Urbino, espressamente per la sua camera da letto nuziale. E a Manet che conosceva bene Venezia (fu in Italia nel 1853 e nel 1857) , certo sarebbe piaciuto vedere questo capolavoro di Tiziano ( che aveva copiato dal vivo agli Uffizi) vicino alla sua Olympia.

Così come il suo Il balcone accanto alle Due dame di Carpaccio che in Palazzo Ducale sembrano richiamarsi per la strana sognante fissità dei soggetti femminili rappresentati. Confronto altamente suggestivo anche se forse non supportato da riscontri filologici. Che fa risaltare il personalissimo e ispido modo di Manet nel dipingere i ritratti. Soprattutto quelli femminili. Improntati a una cerea distanza. Come ha raccontato la retrospettiva dedicata dalla Royal Accademy di Londra proprio alla ritrattistica del pittore francese , appena conclusa.

(Simona Maggiorelli)

 dal settimanale left-avvenimenti

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Il cubismo come arte di pensiero

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 23, 2013

Picasso, nudo,1909

Picasso, nudo,1909

di Simona Maggiorelli

«Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono», annotava Cézanne. E di questa frase Braque, Picasso, Léger, Gris e molti altri fecero il proprio motto in quel primo decennio del Novecento che vide, a Parigi, la nascita del cubismo. Ad un anno dalla scomparsa di Cézanne, una retrospettiva al Salon d’Automne nel 1907 celebrava finalmente l’opera del maestro di Aix-en Provence e i giovanissimi artisti che al volgere del nuovo secolo alimentavano l’avanguardia ne rimasero profondamente colpiti.

La visione volumetrica e “onirica” di Cézanne li incoraggiava ad esplorare un modo nuovo di fare pittura, sempre meno legato alla visione retinica delle cose e sempre più figlia di una visione interiore e originale dell’artista capace di cogliere l’invisibile. Così, grazie al genio di Picasso  ma anche di Braque, fu subito un grande salto, un radicale cambio di paradigma nella pittura d’Occidente. Come ci avvertono inequivocabilmente le due tele, un nudo di Picasso e un paesaggio di Braque, poste ad incipit della mostra Cubisti cubismo allestita nel Complesso del Vittoriano, a Roma (fino al 23 giugno, catalogo Skira).

Da un lato un nudo femminile del pittore spagnolo, datato 1909 (proveniente da San Pietroburgo), primitivo e potente, tracciato con pochi segni essenziali; magnetico e scultoreo, per quanto scomposto secondo una pluralità di prospettive. Dall’altro la stratificata foresta di Braque, una visone sintetica e instabile, un bagno di verdi brillanti e marroni, in cui lo spettatore ha la sensazione di poter sprofondare fino a precipitare in una quarta dimensione temporale ed emotiva.

Braque 1909

Braque 1909

In entrambi i quadri i piani si aprano, non collimavano più, la “realtà” è ritratta da più angolature, secondo prospettive multiple. Il cubismo «non è arte dell’imitazione, ma arte di pensiero che tende ad elevarsi fino alla creazione» scrisse il poeta Apollinaire, rilanciando quel termine, cubismo, che il critico Luis Vauxcelles aveva coniato recensendo la mostra di Braque nella galleria di Kahnweiler nel 1908. Un’etichetta che diventò felicemente un marchio di fabbrica, fino alla fine degli anni Venti come racconta questa corposa e avvincente collettiva romana curata da Charlotte N.Eyerman e da Simonetta Lux, che raduna più di una decina di opere di Picasso (fra le quali una straordinaria donna accovacciata prestito del museo di Sant’Antonio in Texas) e altrettante di Braque, ma anche una miriade di dipinti di artisti sodali ai due, anche se di minor talento – come Gleizes, Metzinger, Gris, Feininger, Cendrars e molri altri – ma che restituiscono pienamente il vivace fermento artistico e creativo che animò la capitale francese per oltre un ventennio, anche dopo la prima guerra mondiale e fino al “ritorno all’ordine” degli anni Trenta.

Ma interessanti sono anche le finestre aperte da questa mostra sul cubismo russo con opere di Gontcharova e Popova e sul futurismo italiano attraverso opere e collage in stile cubista di Severini e Soffici. E ancora, da non perdere, al piano superiore del Vittoriano, la sezione dedicata alle intersezioni fra il cubismo e il teatro, con i costumi di scena e le scenografie del balletto Parade firmate da Léger ma anche quella che racconta la sperimentazione cubista nella moda attraverso le stoffe realizzate dalla pittrice Sonia Delaunay.

da left avvenimenti

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Lorenzo Lotto nella Reggia di Venaria

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 10, 2013

Lotto. Laura da Paola

Lotto. Laura da Paola

“Difficile discriminare se più nuoccia alla fama di un artista essere dimenticato che mal conosciuto: e vien voglia di decidere che se un grande spirito potesse scegliere, preferirebbe il silenzio alle mezze parole”, così scriveva la scrittrice Anna Banti ad incipit del suo libro dedicato a Lorenzo Lotto (1480-1556): un agile volume opportunamente recuperato e pubblicato nella collana Sms dell’editore Skira, un paio di anni fa. Il prezioso ritratto a parole firmato della romanziera e studiosa d’arte, sulla strada aperta dagli scritti di Roberto Longhi, finalmente restituiva la giusta statura a questo inquieto pittore, dalla vena sensibile e popolare, lontano anni luce dallo splendore e dal trionfo dei colori della pittura veneta a lui contemporanea.

Benché fosse veneziano e ventenne alla svolta del Cinquecento, la sua cultura visiva sembrava alquanto provinciale al confronto con il raffinato e poetico tonalismo di Giorgione o se paragonata al vigoroso realismo, laico ed espressivo di Tiziano.

Ma i suoi santi scavati dal tormento interiore, le sue timide Madonne, i suoi aguzzi e veritieri ritratti sono, se possibile, ancor più lontani dal classicismo idealizzante di Giovanni Bellini, che secondo la tradizione sarebbe stato suo maestro nei primi anni veneziani. Brusco ed immediato, poco propenso alla ricerca formale e alla trasfigurazione aulica dei soggetti rappresentati (anche nelle pale sacre) Lorenzo Lotto è stato forse il maggiore interprete in Italia di quello spirito nordico e riformista che si era andato diffondendo in modo più o meno sotterraneo nella piccola “borghesia” delle regioni del Nord della penisola. Ma non solo.

Lorenzo Lotto fu anche il cantore delle terre marchigiane e dei suoi rustici personaggi, come racconta la mostra Un maestro del Rinascimento. Lorenzo Lotto nelle Marche, aperta dal 9 marzo al 7 luglio nella piemontese Reggia di Venaria e incentrata dal curatore Gabriele Barucca su una ventina di opere realizzate da Lotto ad Jesi, a Recanati e dintorni.

Dedicata al periodo più fertile della produzione lottesca, l’esposizione, che ha fatto tappa anche al Museo Puškin di Mosca, in realtà è una piccola grande summa dell’arte di questo schivo e appartato artista: un viaggio sfaccettato nella sua poetica antieroica e borghese, dove trionfano penetranti primi piano di sarti e altri artigiani al lavoro, di ricche e addobbate signore di provincia, di giovani di belle speranze, di persone anonime che conquistano per la prima volta la ribalta della storia dell’arte.

In questo percorso espositivo sono tante anche le opere che raccontano episodi mutuati dai testi sacri e che appaiono sempre calati nella concretezza della vita di tutti i giorni, in modeste abitazioni e in brulli tratti di paesaggio, scavati da calanchi, come i volti dei solitari santi che Lotto metteva al centro della sua pittura altamente drammatica e narrativa. Calati nella quotidianità, nella storia, fuori da ogni distanza metafisica, così appaiono i suoi San Gerolamo e il suo San Vincenzo Ferrer proveniente dalla chiesa di San Domenico di Recanati e appena restaurato. Ma folgoranti sono anche i pannelli dell’annunciazione, dipinti a Jesi intorno al 1526 in cui le figure sacre si sporcano le mani con la faticosa quotidianità contadina, mentre lo sgomento che si legge sul volto di Maria arriva a sfiorare l’eterodossia. ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

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L’arte africana, liberata dal pregiudizio etnografico

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 3, 2013

Artista Zande, Congo, Sanza antropomorfa

Artista Zande, Congo, Sanza antropomorfa

Lungo il corso del Niger, dove fiorì il più ricco filone di arte africana. Dal Cameron, dove il fiume scaturisce, fino alla foce, attraversando valli fertili dove varie etnie, per secoli, hanno vissuto in pace. I venti secchi del Sahara, le piogge abbondanti, l’alternanza di foreste, savane e pascoli hanno creato qui un ambiente insolitamente accogliente per la presenza umana. La pesca e il commercio, poi, hanno favorito l’incontro e lo scambio culturale.

In questo fitto intreccio di rapporti si è sviluppata, in modo particolare fra il IX al XVIII secolo, una grande tradizione d’arte. Qui per secoli sono state realizzate preziose sculture in legno (e più raramente in avorio), maschere per la danza e per proteggersi dagli spiriti maligni, statuette che celebrano la fertilità, totem e oggetti decorati secondo codici a cui alcuni artisti africani continuano ad attingere ancora oggi.

E mentre la Biennale dell’arte di Malindi in Kenya curata da Achille Bonito Oliva, fra le molte opere contemporanee di artisti provenienti da differenti regioni di questo sterminato continente, presenta (fino al 28 febbraio) anche una piccola selezione di opere che ancora traggono linfa dalle radici più antiche dell’arte africana, una importante esposizione di arte nigeriana al Musée du Quai Branly di Parigi offre proprio una disamina dell’arte più tradizionale attraverso l’esposizione di 150 sculture e maschere, magnetiche e suggestive, come quelle che- immaginiamo – stregarono Picasso e Matisse al Musée dell’Homme.

Furono proprio gli artisti delle avanguardie storiche ad aprire l’Occidente all’arte proveniente dal continente nero. Fino a quel momento, nell’Europa colonialista, considerata  una mera curiosità etnografica.

Come ha sottolineato Maria Grazia Messina, nel suo bel libro Le muse d’Oltremare (Einaudi) furono soprattutto artisti come Picasso con opere dirompenti come Les Demoiselles d’Avignon a cogliere e a saper ricreare in modo originale la potenza espressiva dell’arte africana, la forza immaginativa di sculture realizzate con grande essenzialità tecnica.

artista malese, copricapo in forma di antiolope

artista malese, copricapo in forma di antiolope

Ma per gran parte del Novecento, è mancata una attenta disamina dell’arte africana, fuori dai pregiudizi etnocentrici, e da pregiudizi coloniali, da parte degli studiosi; è mancato quello studio sistematico capace di far comprendere al pubblico occidentale le differenti caratteristiche storiche, formali e simboliche dell’arte africana  nelle sue varie periodizzazioni.

Una lacuna particolarmente evidente in Italia e che uno studioso rigoroso come Ezio Bassani, negli anni, ha contribuito a colmare. E in modo particolarmente approfondito nel suo nuovo, denso, lavoro Arte africana, uscito di recente per Skira.  Che oltre a chiarire la datazione, la storicità, i rapporti con i primi committenti europei, offre una mappa del variegato mosaico di stili dell’arte africana. Ma al contempo mette in luce alcuni elementi che – quasi fossero delle costanti antropologiche – si ritrovano nelle varie tradizioni “regionali”.

A cominciare dall’assenza di rappresentazioni paesaggistiche per dare spazio in maniera prioritaria alla rappresentazione della figura umana, maschile e femminile.

” La scultura è il mezzo prevalente con  cui si sono espressi gli artisti africani del passato- scrive Bassani – questo spiegherebbe l’assenza di rappresentazione del paesaggio, come peraltro aveva scritto Michelangelo.

“La figura umana – aggiunge – evocativa di personaggi importanti nella comunità, reali o simbolici, o di entità che facilitano il contatto con il soprannaturale, è il soggetto quasi esclusivo della loro creazione”.

PAGINA 67Inoltre  la figura umana è perlopiù rappresentata isolata, collocata in uno spazio assoluto di cui si appropria.  “In genere- prosegue Bassani – il soggetto rappresentato è immobile  non compie gesti, al più li sggerisce con piccole irregolarità che rompono la simmetria e la frontalità e trasformano l’opera in un organismo vivente”.

Altra caratteristica che connota  gran parte dell’arte africana tradizionale è il fatto che l’opera non risulta sia mai preceduta da studi, schizzi e abbozzi, è realizzata in rapporto diretto e immediato con il legno o la materia che si è scelto di scolpire.

E’ da sottolineare anche che l’artista africano tradizionale perlopiù resta anonimo. Ma anche se “non gode dello status di assoluta libertà riservato ai suoi colleghi dell’Occidente del nostro tempo, è un creatore consapevole di opere valide in sé, autonomamente espressive e generatrici di conoscenza e di emozioni. Perché- puntualizza Bassani – se il tema di ogni opera d’arte, anche africana, è dettato dal gruppo per cui è creata, essa deve la sua forma al genio dell’autore che l’ha realizzata”.   ( Simona Maggiorelli  Dal settimanale Left)

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Si fa presto a dire Caravaggio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su gennaio 10, 2013

Caravaggio, I bari, 1594

Caravaggio, I bari, 1594

La grande bufala dei disegni del Merisi. Tomaso Montanari pubblica una nuova appassionata requisitoria contro le truffe ai danni del patrimonio italiano   

di Simona Maggiorelli

L’esempio del sindaco di Firenze Matteo Renzi che, “novello Michelangelo”, vorrebbe completare la facciata della chiesa San Lorenzo lasciata incompiuta dal maestro del Rinascimento non è che uno dei tanti esempi di cattiva politica che sfrutta il patrimonio artistico nazionale per auto promozione e mero ritorno di immagine. E se Renzi usa gli Uffizi come location per sfilate e, sordo ai moniti degli studiosi, insiste nel martoriare gli affreschi del Vasari per cercare i resti della Battaglia di Anghiari di Leonardo, quando era ministro della Cultura Sandro Bondi la fece anche più grossa, facendo acquistare allo Stato un crocifisso ligneo per più di tre milioni di euro, salvo poi “scoprire” che si tratta solo di  una scultura di scuola, come ce ne sono tante a Firenze.

Per denunciare quello scandalo Tomaso Montanari, docente di storia dell’arte all’università Federico II di Napoli, nel 2011 ha pubblicato lo sferzante A che cosa serve Michelangelo? (Einaudi).

Ora lo studioso e giornalista fiorentino torna alla carica con un incisivo pamphlet La madre di Caravaggio è sempre incinta (Skira) continuando nel suo importante lavoro di pronto intervento civile che smaschera gestioni incompetenti, critica l’assenza di progettualità culturale del ministero, e gli effetti dell’insensata separazione fra tutela e valorizzazione imposta dal governo Berlusconi. Ma non solo.

MontanariCaravaggio_72dpiQuesta volta Montanari, con piglio brillante, da storico dell’arte e da giornalista, stigmatizza anche l’ignoranza che regna sovrana sui giornali e le operazioni truffaldine di sedicenti esperti che propagandano attribuzioni senza riscontri scientifici e filologici e annunciano al mondo sensazionali ritrovamenti. A tutto vantaggio di interessi economici privati. Accade così che il catalogo delle opere di maestri come Michelangelo, Leonardo e Caravaggio subisca nuovi ingressi numericamente vistosi quanto imbarazzanti.

uno dei disegni del Fondo Peterzano

uno dei disegni del Fondo Peterzano

Come l’improbabile autoritratto di Leonardo scovato a Salerno nel 2009 e appartenente ad una famiglia di Acerenza in Lucania. O come la Visione di Ezechiele attribuita a Raffaello e, guarda caso, anch’essa di proprietà privata che – secondo l’Espresso – spodesterebbe la versione autografa conservata nella Galleria Palatina. Un trend di miracolose epifanie di capolavori ed epocali agnizioni che di recente (a volerci credere) avrebbe letteralmente stravolto il sistema delle opere di Caravaggio. Al ritmo di teste di Medusa, Sant’Agostini e tradimenti di Cristo che spuntano da tutte le parti. Ultimo in ordine di tempo il caso dei cento disegni del Fondo Peterzano che due studiosi, Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, attribuiscono con granitica certezza al Merisi. La notizia, come è noto, è stata battuta lo scorso 5 luglio dall’Ansa che l’ha lanciata senza contraddittori, senza analisi critica della fonte e, con tutta evidenza, ignorando che Caravaggio non ci ha lasciato alcun disegno. Se l’Ansa avesse fatto le verifiche necessarie sarebbe emerso che quei disegni – presumibilmente copie accademiche di opere classiche – sono noti da tempo al mondo accademico e che i due “scopritori” non risulta si siano mai recati a studiarli dal vivo a Milano, nel Castello sforzesco, dove sono conservati. E dove ora, in modo opportuno, l’assessorato alla Cultura di Milano promuove una mostra che rilancia gli studi sul Fondo Peterzano. A scanso di bufale. Come quella propalata dai due neofiti caravaggisti anche sul sito http://www.ilgiovanercaravaggio.it. «Potere dell’inconscio – chiosa Montanari nel libro – lo sfondo del sito è occupato dai Bari… quelli di Caravaggio».

dal settimanale left-avvenimenti

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