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L’invisibile di Modì

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 14, 2015

Modigliani, Testa rossa

Modigliani, Testa rossa

Fino al 15 febbraio è ancora possibile vedere la bella mostra, Modigliani et ses amis che Jean Michel Bouhours, curatore del dipartimento delle collezioni moderne del Centre Pompidou, ha realizzato in Palazzo Blu a Pisa, riallacciando la formazione dell’artista livornese (cresciuto studiando la profondità di Masaccio e maestri del gotico toscano) agli esiti più originali della sua ricerca maturata a Parigi, tra il 1906 e il 1920, anno della sua prematura morte.
Ripercorrere gli esordi di Modì nell’originario contesto toscano riporta in primo piano le radici trecentesche e arcaiche dei suoi scultorei ritratti, “primitivi”ed essenziali. Ma al contempo permette di cogliere pienamente il coraggioso salto che egli riuscì a compiere, nella ricerca di una propria, personalissima, strada. Distante anni luce dalla attardata pittura figurativa dei macchiaioli. Ma anche diversa dalla scomposizione della figura praticata dall’avanguardia cubista che Modì giudicava troppo fredda e geometrizzante.

Affascinato non tanto dall’idea di Cézanne di dipingere la natura attraverso cubi, cilindri ecc, ma dalla sua visione “onirica” assorbì e rielaborò anche il cromatismo del pittore di Aix. Come racconta qui il misterioso ritratto di impronta cézanniana intitolato Testa rossa (1915).

L’intento era dipingere “l’invisibile”. “Ciò che cerco – diceva – non è il reale né l’irreale, ma l’inconscio”, come si legge nel catalogo Skira. E dal vivo ci parlano di questo suo appassionato tentativo di ricerca artistica sul non cosciente le forme allungate e deformate dei suoi morbidi nudi femminili, l’aspetto longilineo dei suoi soggetti dai volti stilizzati, dai colli affusolati e quegli occhi senza pupille, mutuati forse dalle culture antiche (khmer e yemenite) osservate al Louvre.

In Palazzo Blu il discorso si dipana attraverso un centinaio di opere, fra dipinti e sculture di Modì, di Brnacusi, Gris, Picasso, Soutine e di altri protagonisti della avventurosa stagione di Montparnasse, provenienti dal Pompidou e da altri musei parigini come l’Orangerie, il Musée d’Art Moderne e poi dalla Pinacoteca Agnelli, da Brera e da Villa Mimbelli. In particolare colpisce il dialogo a distanza fra le potenti ed enigmatiche sculture di Brancusi e certi scultorei quadri di Modì come Le cariatidi.

Modì si sentiva intimamente scultore anche quando dipingeva come ben documenta Federica Rovati ne L’arte del primo Novecento, da poco uscito per Einaudi, parlando anche delle forme classiche che Modì seppe ricreare, in chiave anti accademica. Poi prima di uscire lo sguardo torna a posarsi sui magnetici di Guillame, di Soutine della bella e malinconia Jeanne. Ritratti in cui Modì non è fedele alla mimesi, alla fisionomia, ma sa far emergere il mondo interiore del soggetto, qualcosa che forma l’espressione del volto e che viene da dentro. Tratteggiando così personalità individuali, ogni volta diverse. Ma al tempo stesso riuscendo ad astrarre dalla contingenza qualcosa di universale che accomuna tutti gli esseri umani, proprio in quanto tali.

( dal settimanale Left del 7 febbraio 2015)

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Fino al 18 gennaio. La forza del colore di #HansMemling

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su gennaio 9, 2015

hansLa forza del colore del Rinascimento italiano e il gusto della descrizione del dettaglio, storico e prezioso tipico della tradizione nordica, s’incontrano nelle opere di Hans Memling ( 1430-1494 ), pittore cresciuto artisticamente a Bruges, ma che con grande sensibilità seppe raccogliere gli stimoli che venivano dai maestri del colorismo veneto e della scuola toscana. A Roma, nelle Scuderie del Quirinale, fino al 18 gennaio, è aperta una affascinante retrospettiva dedicata a questo pittore nordico che, anche grazie alla presenza di banchieri fiorentini nelle Fiandre e alla loro committenza, poté intrattenere un vivo rapporto con le novità artistiche che venivano dalla Penisola.

Di alto profilo scientifico questa retrospettiva Hans Memling e il Rinascimento fiammingo  curata da Till- Holger Borchert del Memling Museum di Bruges e (accompagnata da un catalogo Skira) idealmente si connette con le precedenti esposizioni romane dedicate a Giovanni Bellini, a Filippino Lippi e ad Antonello da Messina che – come fa notare lo storico dell’arte Matteo Lafranconi – fece il percorso inverso a quello di Memling partendo dal calmo splendore del Rinascimento italiano per arrivare a fare propria, in maniera originalissima, la più tormentata e inquieta tradizione nordica.

Memling, ritratto di Giovanni di CandidaDalla cinquantina di opere di Memling che i curatori sono riusciti a radunare per questa importante occasione mancano alcune grandi pale d’altare, opere monumentali difficili da trasportare e che gli spazi, pur ampi, delle Scuderie del Quirinale non sarebbero stati in grado di accogliere adeguatamente.

Nonostante queste lacune il percorso espositivo permette di farsi un’idea esaustiva del percorso di questo maestro dell’arte fiamminga che seppe utilizzare in chiave vibrante e altamente espressiva la luce della pittura a olio. Facendone uno strumento per far emergere la bellezza interiore delle sue figure femminili. Giovani donne dal volto radioso, eleganti e misteriose, anche quando si tratta di Madonne, che Memling rappresenta con lunghi capelli ondulati e setosi.

Pur trattando perlopiù argomenti sacri e rappresentando scene tratte dall’Antico Testamento, Hans Memling sapeva raccontare l’umano nella sua viva concretezza. Mentre le sue immaginette devozionali destinate al raccoglimento in preghiera di ricchi mercanti mostrano seducenti figure di sante e penitenti e furiosi diavoli ammantati di colore, più vitali e pittoricamente riusciti dei nodosi santi e cupi santi che dominano le sue composizioni sacre.

Hans_Memling_065

Trittico del matrimonio mistico di Santa Caterina

Pur non sfiorando mai l’eterodossia, le sue composizioni hanno sempre un’accentuazione laica e sensibile nel tratteggiare la dinamica degli affetti, nello scavo psicologico dei personaggi.

Che raggiunge l’apice nella splendida serie dei ritratti fra i quali spiccano alcuni soggetti femminili come il dolcissimo Ritratto di donna (1480-1485 ) proveniente dalla collezione americana dell’ambasciatore Middenford II. In questo come in altri casi probabilmente si trattava di giovani mogli di ricchi mecenati e committenti. Mentre molti ritratti maschili rappresentano soggetti della nuova “borghesia” fiamminga, che il pittore rappresentava regalando loro un volto aperto e uno sguardo fiero che traguarda l’orizzonte. Perlopiù si tratta di figure immerse in morbidi scorci di paesaggio, lontani anni luce dalle cupe atmosfere tipiche della pittura nordica. Colpisce in modo particolare il Ritratto di uomo con moneta romana. E’ stato ipotizzato che si tratti dell’umanista Bernardo Bembo e in passato, non a caso, era stato letto come un ritratto di Antonello da Messina. ( Simona Maggiorelli)

dal settimanale Left

 

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La ricerca continua di Leonardo da Vinci

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 24, 2014

Nanni, Skira

Arte come studio della natura, indagata nella continua trasformazione degli elementi, attraverso linee fluide, segno vibrante e sfumato. Per Leonardo da Vinci non era più accettabile una concezione reificata, statica, della pittura, esemplata su idee platoniche e astratte.

Per  l’artista toscano  che anteponeva a tutto il valore dell’esperienza, non era più ammissibile dunque una rigida compartimentazione dei saperi di stampo medievale che contrapponeva arti liberali (la filosofia, la poesia ecc.) a quelle meccaniche come l’ingegneria e la stessa architettura, che la tradizione delle corporazioni fiorentine pretendeva fosse materia solo per umili artigiani (ancora all’epoca in cui Brunelleschi progettava la sua geniale cupola).

Ma per quanto Leonardo avesse esplicitato a chiare lettere la sua deliberata distanza da quegli intellettuali «sofistici» e «trombetti» che ripetevano a pappagallo ciò che è scritto nei libri sacri e negli antichi testi dei filosofi, per lunghissimo tempo, la manualistica ha tramandato un’immagine alterata di lui come «omo sanza lettere», che non sapeva il latino e che, per questo, avrebbe preferito la manualità allo studio.

Romano Nanni

Romano Nanni

Un velenoso luogo comune nato già quando Leonardo era in vita, alimentato proprio da quell’establishment di intellettuali cortigiani e uomini di Chiesa che l’artista toscano con le sue rivoluzionarie ricerche a tutto campo radicalmente metteva in discussione. Che si trattasse di un pregiudizio lo dimostra in modo scientifico un lavoro di Romano Nanni, restituendoci tutta la sfaccettata, complessa e affascinante personalità leonardiana: pittore, scultore, scienziato, studioso della natura e dell’umano, ma anche ingegnere, architetto e inventore di macchine immaginifiche, come quella celeberrima per il volo.

Direttore della Biblioteca di Vinci e del Museo Leonardiano, Romano Nanni, prematuramente scomparso nel febbraio scorso, è stato uno dei più rigorosi e attenti studiosi dell’opera dell’artista rinascimentale. Lo dimostra una volta di più l’importante libro che ci ha lasciato, Leonardo e le arti meccaniche, edito da Skira.

CAIn questo volume che accoglie anche contributi di altri studiosi, Nanni ricostruisce la discussione sulle artes che nel secondo Quattrocento vide Leonardo su posizioni contrapposte e assai più innovative rispetto a quelle di Angelo Poliziano: poeta che rivestì un ruolo di primo piano nell’elaborazione della politica culturale laurenziana. Nel Panepistemon, che fu un’opera di riferimento per più generazioni di artisti e tecnici del Rinascimento, il poeta e filologo di Montepulciano riarticolava la gerarchia dei saperi, «includendo – ricostruisce Romano Nanni – la meccanica nella sfera della filosofia speculativa».

Certo, fu un passo avanti, nel tentativo di sussumere gli sviluppi che nel XV secolo aveva avuto la tecnica. Ma per quanto Poliziano avesse aperto la cultura del tempo a un approccio più enciclopedico, fu Leonardo «con crescente consapevolezza a contribuire alla fondazione di un lessico volgare della meccanica pratica». Non più vista come cieca prassi, ma come sapere legato alla continua ricerca sulla natura e sull’umano. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left

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Piero Manzoni è vivo e scalpita

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 27, 2014

Piero Manzoni scultra vivente

Piero Manzoni scultra vivente

Piero Manzoni meteora effimera del Novecento o geniale sperimentatore di nuovi e differenti linguaggi? Passando dai quadri monocromi agli eventi, alle azioni molto prima della stagione dell’arte performativa anni Sessanta. Osservando l’eclettismo e la complessità del percorso dell’artista milanese si è portati a condividere quanto scrive Flaminio Gualdoni nel catalogo Skira che accompagna la mostra Piero Manzoni 1933-1963 ( in Palazzo Reale a Milano fino al 2 giugno). Specie quando il critico e curatore racconta Manzoni come un artista di grande originalità nel panorama dell’arte della prima metà del XX secolo.

Con i suoi monocromi, infatti, Manzoni ebbe il coraggio di prendere le distanze dalla bella maniera, dalla lucente pittura di De Chirico, ma anche dalla sua fredda metafisica, allora egemone in Italia. Imboccando la strada dell’astrattismo, ma senza perdere “calore” e concretezza. Anche quando Manzoni sembra muoversi verso la pittura concettuale. Nel suo fare arte, centrale era rapporto con il corpo. Specie quello della modella nuda sul quale si divertiva ad apporre la propria firma come fosse una scultura vivente!

E centrale era l’esperienza, la vita vissuta, da cui spiccava il volo la sua fantasia. L’immagine interiore ( 1957) si forma sulla tela a partire da olio e catrame. La serie dei quadri Senza titolo realizzati in quello stesso anno e ora esposti a Milano nascono impastando catrame olio e sassi. Il bianco dei suoi celebri achrome non è mai abbagliante, ma morbido color panna.

Così come la tela non è mai uno specchio rigido e teso, ma una superficie solcata da pieghe e rughe. Come la pelle di chi – diversamente da Manzoni che morì  per un infarto a soli 29 anni – ha molto vissuto. Pochi però seppero cogliere il senso e la portata della ricerca di questo ragazzo che cercava, per dirla con le sue stesse parole, «uno stupore immacolato dei sensi», convinto che «non c’è nulla da dire, nulla da capire, c’è solo da essere, c’è solo da vivere».

Lontano dalla religiosità dell’esistenzialismo in voga in quegli anni, Manzoni rivolgeva uno sguardo critico e ironico anche verso un certo greve materialismo capitalista, che sfidava “brandendo” un Rotolo di pittura industriale su cui era tracciata solo una linea, sottile ed essenziale.

Fra i grandi a lui contemporanei solo Lucio Fontana riconobbe il talento di Manzoni, mentre Palma Bucarelli, che gli dedicò una retrospettiva postuma alla Galleria d’arte moderna a Roma, fu indagata per sperpero di denaro pubblico. Oggetto del contendere era la sua scelta di esporre la provocatoria Merda d’artista che Manzoni aveva realizzato nel 1961, in serie sigillata, autografata, numerata e autenticata dal notaio. Per farsi beffe di poeti vate e artisti millantatori di aura. Ma non solo. In Breve storia della Merda d’artista (Skira), Gualdoni riflette sul significato provocatorio dell’opera, riportando la storia dello scandalo e la vicenda parlamentare che vide il democristiano Guido Bernardi lanciarsi in una interrogazione che terminava con questa domanda non esattamente elegante: «Sull’uso che la signora Palma Bucarelli fa da troppo tempo del denaro del contribuente italiano non è il caso di tirare finalmente la catena?»

( Simona Maggiorelli ) dal settimanale Left

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Perle dal Musée d’Orsay

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 12, 2014

L'italiana di Van Gogh

L’italiana di Van Gogh

Qualcuno ha fatto notare che quel titolo, Capolavori dal Musée d’Orsay non corrisponde esattamente al vero e che in fondo, al Vittoriano, fra le sessanta opere esposte (fino all’8 giugno, catalogo Skira) provenienti dal museo parigino, quelle che si possono veramente definire tali sono quattro e cinque. Ma che capolavori! Ci verrebbe da dire di slancio. Perché basterebbe il bel volto della giovane Berthe Morisot ritratta nel 1872 da Édouard Manet con in mano un mazzo di violette, a ripagare il prezzo del biglietto. Siamo davanti a un capolavoro di “indagine” psicologica del femminile, da parte di un pittore che, con Olympia, aveva proposto invece la maschera distante di una donna costretta a stare al gioco dell’erotismo mercenario e dell’ipocrisia borghese. Berthe è l’opposto della scandalosa Olympia.

Lo sguardo della giovane pittrice impressionista interroga quello di chi guarda la tela, senza maschere e infingimenti, comunicando il senso di una presenza viva e sensibile, come raramente capita di cogliere nei quadri da atelier realizzati in quegli anni “copiando” modelle in carne ed ossa come fossero dei gessi.

E che dire poi del ritratto di Agostina Segatori, realizzato da Van Gogh in chiave giapponesizzante, che illumina la sala centrale di questa mostra romana? L’italiana che gestiva il Cafè Le Tambourin (e che aveva già posato per Corot e Manet) in questa tela del 1887 appare come galleggiare in un mare d’oro, mentre striature rosse ne accendono il volto e la pelle come se reagisse alla luce del sole che la inonda.

Il quadro nasce nell’ambito di quella originalissima ricerca che il pittore olandese sviluppò a Parigi fra il 1886 e il 1888, influenzato dai colori piatti e dalle linee essenziali delle stampe giapponesi che avevano attratto l’attenzione degli artisti impressionisti dopo l’Esposizione universale del 1867.

E ancora, percorrendo a ritroso le sale e tornando a quella dedicata alla pittura di paesaggio (dopo un tuffo nella pittura mitologica e d’accademia) ecco un impareggiabile Cézanne spuntare imprevisto vicino al corridoio, al culmine di una serie di romantiche vedute naturalistiche di Corot e di Bazille, gettando scompiglio fra i luminosi e tranquilli scorci impressionisti firmati Monet, Pissarro e Sisley.

A partire da un soggetto all’apparenza banale, come un cortile di una fattoria tipicamente provenzale, con poche pennellate, Cézanne fa entrare lo spettatore in un avvolgente spazio tridimensionale, che d’un tratto fa piazza pulita di ogni formalismo impressionista. E questo crudele confronto ravvicinato voluto dai curatori della mostra Guy Cogeval e Xavier Rey fa apparire immediatamente piatte, decorative e senza vita le opere di Monet e compagni. Che tuttavia qui – bisogna anche riconoscere – insieme a quelle dei Nabis, si prestano ad interessanti percorsi tematici, dedicati al racconto della borghesia in ascesa, al dinamismo delle crescenti metropoli d’inizio secolo, all’indagine della famiglia che nessuno come Vuillard, Denis e Bonnard sa rappresentare, all’apparenza celebrandone i miti (la maternità, l’infanzia, la morale) e i riti (il teatro, la convivialità, i sacramenti), e di fatto denunciando il vuoto pneumatico di affetti e di valori. ( simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Klimt, Mahler e Kokoschka. La doppia vita di Alma

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 11, 2014

Klimt, Alma come Giuditta Salomè

Klimt, Alma come Giuditta Salomè

«Alma la conoscevo già, l’avevo vista una volta di sfuggita quando hanno inaugurato il monumento di Schindler, mi è piaciuta come a noi pittori piace una bellezza bambina…. e mi sono meravigliato che tu non l’avessi mai dipinta», scrive Gustav Klimt a Carl Moll in una lettera del 1899. Fra i fondatori della secessione viennese, dopo la morte del pittore Schindler, Moll divenne il patrigno di Alma Schindler, la futura moglie di Gustav Mahler e amante di Gropius, che allora aveva diciassette anni.

Il trentacinquenne Klimt ne avrebbe fatto la musa altera, algida e sensuale della Secessione: musa ieratica ed elegante, ritratta come Giuditta e al tempo stesso Salomè, in una famosa tela che dal 12 marzo sarà al centro della mostra milanese Klimt. Alle origini di un mito (catalogo 24 Ore Cultura). In Palazzo Reale, insieme a numerosi altri ritratti femminili e alla ricostruzione del Fregio di Beethoven (1897), questa rappresentazione di Giuditta definisce un modello di femme fatale e donna guerriera, capace di allontanare dal “tempio dell’arte” chi non è degno; un modello che sarebbe durato fino agli anni Venti e Trenta, trovando nel cinema nuove declinazioni, in dive come Marlene Drietrich e, soprattutto, Greta Garbo.

Ma chi era veramente Alma? «La ragazza più bella di Vienna» che, dice ancora Klimt nell’epistolario (edito da Abscondita), lo conquistò parlandogli della sua passione per Wagner, Tristano, la musica, la danza. «Alma è bella, intelligente, piena di spirito» annotava Klimt e racconta Andrea Camilleri nel suo nuovo libro La creatura del desiderio (Skira) aveva un debole per gli uomini che inseguivano un proprio sogno, una propria ricerca, poco importa se nell’ambito della pittura, della musica o della scienza.

Fu così che credette di vedere una straordinaria passione per l’arte nello sguardo bruciante del ventiseienne Oskar Kokoschka, pittore “selvaggio” ma anche autore di feroci drammi teatrali come Assassino, speranza delle donne. Lei aveva molti anni di più, ma non era prigioniera delle convenzioni. Divenuto l’amante di Alma il pittore si dette a ritrarla in decine e decine di quadri e bozzetti che, via via assumono un aspetto sempre più inquieto, cupo, ossessivo. La figura femminile a poco a poco si sfalda, perde di umanità assumendo i tratti di una inquietante bambola, come documenta la retrospettiva dedicata a Kokoschka dal Leopold Museum di Vienna.

Fino ad arrivare alla concitata, impastata, visione de La sposa del vento (1914), il quadro che Kokoschka dedicò ad Alma quando la relazione, diventata tempestosa e violenta, si interruppe improvvisamente. Con questa spiazzante biografia, in parte narrata in parte costruita sulle lettere, Camilleri indirettamente ci invita ad interrogare di nuovo quel quadro che sembra avvicinarsi pericolosamente ad una cacofonia di linee e colori, lontana dalla libera espressione di un artista capace di realizzare opere universali. Da lì a poco a poco il tragico epilogo: la pazzia conclamata di Kokoschka che arriverà materialmente a farsi costruire una bambola dalle sembianze di Alma, automa disumano, grottesco simulacro di un’immagine femminile che per lui era sempre stata solo un fantasma?

( Simona Maggiorelli)

dal settimanale left-avvenimenti

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Giacometti versus Bernini

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 15, 2014

Giacometti, homme-qui-chavire

Giacometti, homme-qui-chavire

Nelle sale della Galleria Borghese a Roma  va in scena un inedito confronto fra l’opera dello scultore svizzero Alberto Giacometti e la statuaria classica e barocca

di Simona Maggiorelli

Come accadde qualche anno fa con la mostra Caravaggio e Bacon alla Galleria Borghese, il confronto fra autori appartenenti ad epoche e culture diverse e lontanissime fra loro suscita sempre il sospetto di una ricerca di sensazionalismo, che si rivela poi senza sostanza e costrutto.

E un certo stridore, a tutta prima, si leva anche dall’ardito accostamento fra uno scultore esistenzialista come Alberto Giacometti (1901-1966), esponente di punta del surrealismo tra il 1926 e il 1935, e un campione dell’arte barocca come Gian Lorenzo Bernini (1598-1680), maestro di un realismo immaginifico e levigato alla corte romana del cardinal Scipione Borghese con capolavori come il gruppo Apollo e Dafne.

Possono due autori essere più distanti fra loro, non solo per contesti storici e culturali ma anche per poetica? Domanda pleonastica. Ma che con nostra sorpresa, ci appare già pallida e sfuocata, attraversando le prime sale della mostra Giacometti, la scultura ( aperta fino al 25 maggio 2014, catalogo Skira). In primis per l’elegante selezione di una quarantina di bronzi, marmi, gessi e disegni dello scultore svizzero operata dal curatore Christian Klemm, insieme alla direttrice della Galleria Borghese, Anna Coliva.

Ridotta a un paio di pezzi, fra i quali Femme égorgée (una mostruosa e “raffinata” figura di donna insetto-mutilata, che ricorda una mantide religiosa) l’esemplificazione di quella cifra di bizzarria capziosa e inquietante che Giacometti sviluppò nel periodo di stretto sodalizio con André Breton, Michel Leiris e altri surrealisti, sono state privilegiate qui alcune delle sue più vibranti figure filiformi, esili e beckettiane, che caratterizzano la fase più matura dell’indagine giacomettiana sulla condizione umana, che per lui aveva sempre un fondo tragico. E accanto a possenti sculture della statuaria antica appartenenti alla collezione della Galleria Borghese s’insinuano frammenti di sculture, braccia e mani, che per metonimia evocano una tormentata e inquieta dimensione esistenziale, lontana anni luce dall’ideale di un’aurea e pacificata classicità. Più in là l’equilibrio instabile de L’homme qui chavire (1950) fa da controcanto alla torsione eroica del David che Bernini, diversamente da Michelangelo e da Donatello rappresenta in azione, all’acme della lotta. Ma ecco anche l’Homme qui marche (1960), con la sua falcata leggera e che idealmente ricrea l’omonima scultura di Rodin, criticandone il trionfante e muscolare vitalismo.

E passando dalla sinteticità dinamica della Femme couchée qui rêve (1929) alle suggestioni dell’arte cicladica evocate da sculture quasi piatte, a visione frontale in marmo bianco come Tête qui regarde (1929) con buchi e impronte ovali che animano leggermente la superficie, è come se Alberto Giacometti ci invitasse in queste sale ricche di testimonianze del passato, a passare in rassegna e a rivedere secoli e secoli di scultura. Risvegliando la nostra curiosità per la statuaria egizia e africana con la sua selva di statue essenziali e arcaizzanti. E poi facendoci vedere come l’agonismo muscolare e l’eroismo celebrativo dei monumenti ottocenteschi suoni ormai retorico e tronfio. Varcata la soglia del Novecento è come se quella lunga e robusta tradizione fosse diventata impraticabile. I dinoccolati viandanti di Giacometti, corrose ombre della sera che si stagliano contro le sontuose pareti della Galleria Borghese, ce lo rendono, se possibile, ancor più evidente.

dal settimanale left-Avvenimenti

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Siviero lo 007 dell’arte che recuperò le opere trafugate dai nazisti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 9, 2014

Mostra di arte degenerata sotto il nazismo

Mostra di arte degenerata sotto il nazismo

Guerra e dittature da sempre, sono nemiche giurate dell’arte e dell’immaginazione. Anche se eroicamente pittori, scultori e scrittori, hanno sempre cercato di opporsi alla barbarie e al disumano. Ogni regime improntato alle armi e alla violenza, nei secoli, ha sempre cercato di controllare l’irrazionale, stigmatizzandolo come pericoloso e demonizzandolo.

Per Hitler, artista fallito che da giovane aveva tentato la strada della pittura, l’arte d’avanguardia era «degenerata» e per questo doveva essere messa al bando. Così nel suo delirante tentativo di affermare la superiorità dello spirito ariano e dei suoi simboli, la pittura espressionista, ma anche il jazz e altre forme espressive innovative che erano emerse negli anni Dieci e Venti in Francia e in Germania dovevano essere censurate e cancellate dalla storia.

Nel suo limpido ed essenziale saggio L’arte in guerra appena uscito nella collana sms di Skira, Sergio Romano ricostruisce la strategia nazista, volta ad annientare la fantasia di artisti non allineati e definiti “parassiti”, ma anche (con l’aiuto di Goebbels) a razziare opere «di interesse germanico», da «rimpatriare». Un piano che Hitler non mancò di attuare anche in Italia. Mentre le SS sterminavano, depredavano e distruggevano opere di valore inestimabile come, ad esempio, gli affreschi di Andrea Mantegna nella cappella Ovetari a Padova di cui restano solo pochi lacerti insieme ad alcune foto in bianco e nero scattate prima di quel tragico11 marzo 1944.

Sergio Romano

Sergio Romano

In questo triste scenario spiccano alcune figure straordinarie di storici dell’arte e partigiani come Giulio Carlo Argan, che insieme a Palma Bucarelli a Roma, riuscì a mettere in salvo un nucleo importante di opere antiche portandole, a rischio della propria vita, in angoli nascosti di Castel Sant’Angelo. Durante e dopo la guerra – ricostruisce Romano – lavorò intensamente al recupero di capolavori italiani anche un’insolita figura di agente segreto come Rodolfo Siviero, una sorta di colto 007 dell’arte al quale – val la pena di ricordare qui – Francesca Bottari ha dedicato una bella monografia pubblicata nel 2013 da Castelvecchi a cui si aggiunge ora una monografia Skira firmata da Luca Scarlini.

Siviero svolse un importante  lavoro di recupero che, in maniera scientifica e sistematica, oggi è portato avanti dal Nucleo speciale dei carabinieri, impegnato in una lotta quotidiana e impari con tombaroli e mercanti senza scrupoli che continuano a fare soldi a spese del patrimonio archeologico italiano, purtroppo ancora non adeguatamente censito e non sufficientemente tutelato. Tristemente emblematica, da questo punto di vista, è stata la storia di musei di rango internazionale come l’americano Getty che per lunghi anni ha acquistato, in primis tramite un faccendiere di nome Medici, importanti pezzi trafugati in Italia e “ripuliti” dalle vendite all’asta. Una brutta storia venuta alla luce qualche anno fa e che ha coinvolto, oltre al Getty, musei come il Metropolitan di New York e il Fine arts di Boston. La vicenda è stata ricostruita nel 2006 da Cecilia Todeschini nel libro The Medici Conspiracy. Ma è stata ripercorsa poi da Fabio Isman nel libro I predatori dell’arte perduta, il saccheggio dell’archeologia in Italia, pubblicato da Skira nel 2009, un volume che ora forma un ideale dittico con il saggio dell’ex ambasciatore Sergio Romano. (Simona Maggiorelli)

dal settimanale left- avvenimenti

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#LucioFontana, fra segno e disegno

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 20, 2013

Lucio Fontana, ambiente spaziale

Lucio Fontana, ambiente spaziale

Libera espressione e ricerca. Le opere su carta furono un grande spazio di sperimentazione per l’artista. Un catalogo ragionato Skira ne raccoglie seimila

di Simona Maggiorelli

Che Lucio Fontana sia stato uno degli artisti italiani più innovativi del Novecento, non ci sono dubbi. Lo è stato certamente nell’ambito della scultura, per primo aprendola a una riflessione sullo spazio che implicava un rapporto nuovo fra opera, spettatore e luogo espositivo. Ma lo è stato anche in pittura, fin dagli anni Trenta, quando si avvicinò al gruppo degli astrattisti del Milione.

Nel dopoguerra poi sarebbero arrivati i famosi Buchi che fecero scandalo alla Biennale di Venezia, e negli anni Cinquanta i Tagli, come segni di lacerazione ma anche di creazione di uno spazio nuovo che supera la bidimensionalità del quadro. E poi ancora gli Ambienti, come l’arabesco fluorescente con luce al neon installato alla Triennale del 1951 e il soffitto spaziale del 1953, che sembrano alludere, oltre la tridimensionalità, a una quarta dimensione, intesa anche come dimensione interna dell’artista.

Lucio Fontana. ambiente spaziele 2

Lucio Fontana. ambiente spaziele 2

Di questo articolato percorso, in queste settimane rendono conto variamente più mostre che – a Saronno, a Brescia a Monza e a Catanzaro – danno ulteriore riprova del grande interesse che continua a riscuotere questo straordinario artista, nato a Rosario in Argentina nel 1899 e, fino alla morte nel 1968, al lavoro fra Milano e Albissola. Ma se la sua opera di pittore e di scultore è stata (ed è) molto studiata, mancava fin qui un’analisi approfondita dei disegni di Fontana, erroneamente considerati “produzione minore” da una parte della critica. A colmare questa lacuna interviene ora un’opera importante e ponderosa come Lucio Fontana. Catalogo ragionato delle opere su carta (Skira) curata con grande perizia critica da Luca Massimo Barbero. Tre volumi in cui viene preso in esame un corpus di seimila opere su carta realizzate tra il 1928 e il 1968.

Accade così di scoprire che disegni, schizzi, “graffiti”, segni colorati, essenziali, rapidi e dinamici, sono il filo rosso che percorre senza soluzione di continuità tutto il percorso artistico di Fontana. Lungi dall’essere un mero divertissement le opere su carta rappresentano uno dei più liberi e imprevedibili ambiti di sperimentazione per Fontana. Che in questo ambito spaziò a tutto raggio fra figurativo (e sono soprattutto nudi di donna) e astrattismo.

Come mette in evidenza Enrico Crispolti nel saggio introduttivo il disegno per Fontana non ha mai una funzione preliminare o funzionale ad altro: vale di per sé, come opera autonoma e dinamica, che ai nostri occhi ha il fascino del non-finito, di una forma ancora in fieri, che si schiude davanti a noi e corre verso un futuro ancora ignoto.

Fontana, Skira

Fontana, Skira

Il gesto dell’artista appare irriflesso, immediato, vibrante. Di volta in volta si imprime sulla morbida carta come linea, come segno pittorico o inciso ma anche, nei concetti spaziali, come foratura. Diversamente dal disegno tradizionale, il segno di Fontana, inteso come motivo grafico oppure pittorico e fatto di solo colore, è libera espressione, fantasia, e mai un riflesso della realtà.

«L’arte nuova non prende i suoi elementi dalla natura», scriveva del resto Fontana, già nel Manifesto Blanco del ’46. È vitale e originale forma-colore e mai calco naturalistico. Nelle opere di impronta più grafica l’uso della linea da parte di Fontana appare assai diverso da quello dei coevi protagonisti dell’informale, improntato all’automatismo surrealista. Il suo segno colorato non naufraga mai in un informe e caotico groviglio, né diventa mai sorda matassa di colore sgocciolato. E tanto meno è caos brutale come nell’art brut di Jean Dubuffet (che rivendicava l’incomunicabilità autistica). Anche quando non fa immagini riconoscibili, il segno di Fontana sembra esprimere un’intenzionalità profonda e sulla carta appare allusivo, cangiante, vitale e compatto. «È movimento nello spazio e nel tempo», per dirla di nuovo con le parole del Manifesto Blanco.

Dal settimanale left Avvenimenti

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#Cézanne, l’inarrivabile

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 29, 2013

Cézanne, Paesaggio blu

Cézanne, Paesaggio blu

A guardarli dal vivo certi lussureggianti paesaggi di Cézanne e certi suoi scarni e incisivi ritratti, messi a confronto a Roma con i lavori di epigoni italiani, viene da pensare che Lionello Venturi avesse visto lungo quando, esule in Francia nel 1931 (perché si era rifiutato di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti) pubblicava il suo saggio su Cézanne.

Un lavoro in cui analizzava in parallelo le imperfezioni di Giotto con quelle del pittore francese: «Nulla meglio del confronto fra un paesaggio di Cézanne e uno di Giotto – scriveva – può darci l’esatta impressione della esatta intenzione a determinare la costruzione delle masse e il loro volume, a cercare il fenomeno sintetico senza nessuna preoccupazione della somiglianza con la natura». è merito di Maria Teresa Benedetti, curatrice della mostra Cézanne e gli artisti italiani, aperta fino al 2 febbraio 2014 al Complesso del Vittoriano, l’aver ricordato nel catalogo Skira che accompagna questa sorprendente collettiva quel prezioso incunabolo della critica d’arte, essenziale per avvicinarsi con cognizione di causa all’opera del solitario pittore di Aix- en Provence, l’unico artista che Picasso abbia mai riconosciuto come maestro e che, ostinato nel cercare di rappresentare il processo della visione (non meramente retinica), ci ha regalato capolavori come la serie sulla montagna Sainte-Victoire, via via sempre più scarnificata ed evanescente, via via sempre più ridotta ai suoi tratti essenziali.

Alcune di queste preziose varianti sono in mostra al Vittoriano insieme ad opere meno note come Il negro Scipione (1886) e come il magnetico Paesaggio blu, (1904-6) in cui la scomposizione della realtà secondo forme geometriche lascia il posto al ritmo fluido del colore verde – azzurro che attira lo spettatore verso la profondità della tela. Conservato a San Pietroburgo questo quadro è uno dei più emozionanti di questa esposizione che mette a confronto una ventina di opere di Cézanne, provenienti dal Musée d’Orsay, con tele di pittori italiani- da Severini a Soffici, da Morandi a Carrà e oltre -, che nella prima metà del secolo scorso si rivolgevano al maestro di Aix per uscire dalle secche di una pittura italiana attardata, ancora legata ad un naturalismo accademico d’antan. Fu così che Ardengo Soffici, più critico d’arte che artista (a Parigi si manteneva facendo disegni satirici) trasse ispirazione dalle forme solide di Cézanne, per tentare una propria via al cubismo sulla scia di Braque e Picasso. Anche se, come si vede qui, riuscì a cavarne solo aneddotiche composizioni di oggetti quando non del tutto strapaesane. Ma una lettura appiattita di Cézanne si evince anche nei tentativi di Carlo Carrà, di Mario Sironi e perfino di un giovane Giuseppe Capogrossi di estrapolarne un classicismo che nei loro lavori anni Trenta assume il sapore di un oppressivo ritorno all’ordine.

Più riuscito appare invece il tentativo di Felice Casorati che si ispirò a Cézanne nel dipingere nature morte dalla evidenza plastica quasi tridimensionale. Mentre Umberto Boccioni, con il suo ritratto di Ferruccio  Busoni, è forse l’unico artista che dimostra di aver assorbito profondamente la lezione dell’inarrivabile maestro francese e di saperla ricreare in modo del tutto originale.

dal setttimanale left-avvenimenti

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