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L’impegno civile degli Intellettuali 2.0

Posted by Simona Maggiorelli su Maggio 4, 2013

Mario Merz "Che fare?" 1968-73

Mario Merz “Che fare?” 1968-73

 di Simona Maggiorelli

«L’unica capacità che ancora oggi dovrebbe contraddistinguere l’intellettuale è il fiuto avanguardistico per ciò che conta. Ciò richiede virtù tutt’altro che eroiche: il senso per quel che non va e che potrebbe andare diversamente; un pizzico di fantasia per progettare alternative, un poco di coraggio un’asserzione forte e provocatoria per un pamphlet». Così scrive il filosofo Jurgen Habermas ne Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa (Laterza, 2010). Salvo aggiungere: «Più facile a dirlo che a farlo. E lo è sempre stato».

E ancor più difficile è oggi, con il restringersi degli spazi per un dibattito pubblico di alto a livello. A cominciare dalle pagine dei giornali che offrono sempre meno approfondimento e riflessione critica. Come ci raccontano in queste pagine alcuni degli intellettuali più autorevoli della generazione intorno ai quarant’anni. Intanto la politica latita e le amministrazioni locali spendono i pochi soldi a disposizione per eventi che danno un immediato ritorno immagine invece di investire in biblioteche e musei connessi con il territorio. Ma c’è chi non si arrende. E dagli appelli pubblici, ai circoli di lettura, dalle proposte ad alto tasso di creatività di piccoli editori, alle occupazioni dei teatri, fioriscono le iniziative dal basso. Ed è un miracolo tutto italiano, visto che come ci ricorda Roberto Ippolito nel libro Ignoranti (Chiarelettere) l’investimento in Cultura in Italia è pari allo 0,19% del bilancio pubblico.

Sporcarsi le mani

Tomaso Montanari a L'Aquila

Tomaso Montanari a L’Aquila

Non ci sta Tomaso Montanari a svalutare l’impegno civile che, a suo avviso, dovrebbe procedere di pari passo al lavoro accademico. Docente di storia dell’arte all’Università di Napoli, 43 anni, lo studioso fiorentino è stato appena nominato dal presidente Napolitano commendatore dell’ordine al merito della Repubblica per il suo impegno in difesa del patrimonio d’arte. Promotore dell’adunata di storici dell’arte che si tiene a L’Aquila il 5 maggio ( a cui partecipa anche il neoministro Massimo Bray), Montanari interviene nel dibattito di left sul ruolo degli intellettuali cominciando con una precisazione: «Non credo che abbia molto senso parlare oggi di “intellettuali”, come categoria astratta – dice- . Ha senso, invece, parlare di comunità della conoscenza e della ricerca. Beninteso io stesso ho scritto un libro (A cosa serve Michelangelo?, Einaudi , 2011 ndr) sul tradimento etico, scientifico e politico della mia comunità, quella degli storici dell’arte italiani. Ma credo che chi ha il privilegio di lavorare nella ricerca abbia il dovere di fare entrare il metodo e, per quanto possibile, anche i risultati della ricerca nel discorso pubblico generale: dobbiamo incessantemente restituire il più possibile alla comunità civile che ci paga lo stipendio».

Il ministro Bray ad Onna

Il ministro Bray ad Onna

Un esempio? «Una delle cause della progressiva rovina del patrimonio storico e artistico della nazione – spiega Montanari – è proprio l’incapacità degli storici dell’arte di parlare ai cittadini. Ora dobbiamo chiederci abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per spiegare “quanti e quali valori si trattava di proteggere” come scrisse Roberto Longhi all’indomani del bombardamento di Genova, nel 1944? Abbiamo provato ad essere davvero “popolari”, per farci capire dai cittadini che del patrimonio d’arte sono gli unici padroni’? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte? Senza una nuova alfabetizzazione figurativa degli italiani, il patrimonio non si salva, e l’articolo 9 della Costituzione non si applica». Ma c’è anche un altro dovere che gli intellettuali non possono trascurare secondo Montanari: «Ogni ricercatore è anche, e prima di tutto, un cittadino. E oggi è il momento in cui ogni cittadino che ne è capace deve prendere la parola in pubblico, deve agire in prima persona “politicamente”: il che non vuol dire candidarsi a qualcosa, ma contribuire a costruire la “polis” con le proprie idee. Chi fa ricerca lo farà, si spera, condividendo con gli altri un modo meno conformista di guardare al mondo. Non perché è un’ “intellettuale”, ma perché come ricercatore è pagato per cambiare il mondo attraverso la conoscenza». Da qui la sua scelta di firmare l’appello di Settis, Bodei e altri? «Quando Barbara Spinelli mi ha chiesto se volessi firmare un appello al Movimento 5 Stelle perché si impegnasse a formare un governo ho detto sì. Personalmente pensavo a un governo a termine guidato da una personalità come Stefano Rodotà, che mi pare ancora l’unica via d’uscita possibile». Paolo Mieli, però, ha detto che voi firmatari eravate degli ingenui. «Certo rispetto a Mieli, lo sono – dice Montanari -. Mi chiedo, però, se in un Paese distrutto anche dal cinismo di alcuni squali navigatissimi sia proprio un gran difetto essere ingenuo. Ma la questione è un’altra. E chiedo a Mieli: per capire ciò che sarebbe successo alle elezioni era più utile leggere gli editoriali dei principali giornali italiani, o leggere un libro come Azione popolare di Salvatore Settis? Chi ha oggi strumenti migliori per capire il Paese? Dopo di che, ognuno deve fare il suo mestiere, e un appello non ha l’ambizione di produrre direttamente effetti in politica: ha il fine di spingere al pensiero critico individuale, di fare un graffio sulle coscienze».

La miopia della politica

Nicola Lagioia

Nicola Lagioia

«D’accordo Settis, Montanari, Rodotà. Difficile non concordare con quanto propongono» chiosa Nicola Lagioia, scrittore, blogger, conduttore di Radiotre e editore per conto di Minimum Fax. «Quando con il sito Minima et Moralia abbiamo proposto Rodotà come presidente della Repubblica abbiamo avuto un’infinità di contatti. Ma sono pochissimi gli intellettuali come lui che parlano direttamente a tutti noi». Futuro gramo per gli intellettuali italiani? «Devo dire che sono piuttosto pessimista – ammette Lagioia – .Quando gli intellettuali scendono nell’agone pubblico si prestano a farlo secondo i codici di comunicazione della Tv,e dei grandi media; nolente e volente, si trovano a parlare il linguaggio del potere. E’ successo anche a Cacciari con Sgarbi a Servizio pubblico.

Anche se dicevano cose diverse, alla fine il linguaggio era lo stesso, quello della baruffa Tv. A cui Cacciari si è prestato involontariamente. Anch’io quando sono andato in tv mi sono accorto che alla fine ero costretto a parlare la lingua della comunicazione che non ha niente a che fare con la letteratura e con la cultura, perché sei costretto a parlare per slogan». E allora cosa resta? Scrivere la propria opera, fare un blog «anche se in Italia è difficilissimo bucare il cono d’ombra o di luce degli addetti ai lavori».

scuola_nuova_3 E non dipende solo dagli intellettuali: il problema più grosso in Italia, dice Lagioia, è la mancanza di interlocutori politici. «Se non ora quando, il movimento TQ, al Valle Occupato c’è stato nell’ultimo anno un bel fermento dal basso, ma non c’è stata risposta politica».

E se allarghiamo lo sguardo vediamo che «in Europa i Paesi che riescono ancora a tenere sul piano dello sviluppo sono quelli che più hanno investito in cultura e ricerca. Hanno politici che sono dei veri statisti, fanno investimenti di lungo periodo, guardando alle generazioni future, non alle prossime elezioni». Al contrario di quanto accade in Italia. «Da elettore di sinistra noto purtroppo che questi partiti non sanno neanche dove mettere le mani quando si tratta di scommettere sulla cultura – constata Lagioia -. Credono che la cultura siano i talk show, i programmi tv di Fazio, di Saviano, della Dandini, i pezzi di Scalfari.

Ma la cultura è molto più vasta. Non c’è solo Riccardo Muti per la musica, non c’è soloUmberto  Eco per la letteratura». C’è un distacco fra intellettuali e politica? «C’è uno iato enorme. I partiti, Pd compreso, hanno perso del tutto il polso della situazione, si accontentano della spettacolarizzazione. Allora ecco Lidia Ravera alla Regione Lazio e non importa quanto ne sappia di politica locale, ecco Nanni Moretti che alla chiusura della campagna elettorale urla “da Lunedì gli italiani non saranno più ostaggio di Berlusconi”. E poi sappiamo come è andata…»

Nostalgia del Novecento

Matteo Marchesini

Matteo Marchesini

Se nell’Ottocento e nel Novecento almeno fino alla Resistenza si poteva parlare di una élite di intellettuali che erano riconosciuti come tali da un pubblico, in rapporto a un’impresa di portata più ampia, che era poi quella della società in generale, oggi questo patto è venuto meno, nota il filosofo Rino Genovese nel suo nuovo libro Il destino dell’intellettuale (Il Manifesto libri): ora a prevalere è perlopiù l’esperto e il comunicatore di massa, mentre i meccanismi dell’industria culturale si fanno sempre più pervasivi e si riduce lo spazio per la dissidenza. Un’analisi su cui in parte sembra concordare anche il più giovane dei nostri interlocutori, lo scrittore e critico Matteo Marchesini, classe 1979, ma che in libri come Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012) non nasconde una certa nostalgia per tipi intellettuali come Fortini, come Bianciardi o come il poeta Noventa.

«Gli appelli vanno anche bene, purché liberi dalla retorica e linguisticamente sorvegliati – dice Marchesini – ma prima di tutto bisogna capire come si configura la scena pubblica oggi e cosa significa essere reclutati come intellettuali: dagli anni Cinquanta in poi con la crescita dell’industria culturale significa in primis essere esaltati dal potere mediatico, a prescindere dalla qualità e consistenza del proprio lavoro intellettuale. Per questo – spiega lo scrittore bolognese – mi è molto cara la distinzione che faceva Fortini fra funzione intellettuale (che hanno tutti universalmente dal momento che fanno un lavoro intellettuale) e intellettuale come ruolo, che dà l’idea di un notabilato»

Franco Fortini

Franco Fortini

. Chi sono oggi gli intellettuali di “ruolo”? «Quegli autori che accettano di essere ridotti a divi Tv, quelli che sui giornali fingono di fare critica ma fanno pubblicità editoriale, quelli che ti offrono analisi da bar appena un po’ più raffinate invece di tentare una disamina dei meccanismi patologici del mercato editoriale. Più che invenzioni dei media come i Baricco, che ormai sono cosa vecchia, o gli Ammanniti – approfondisce Marchesini – mi colpiscono i tipi alla Michele Serra che mentre denunciano giustamente la corruzione morale e intellettuale dell’era berlusconiana accettano di scrivere certe trasmissioni tv e non si preoccupano di questa palese contraddizione. Molti di loro sono di provenienza marxista e dovrebbero aver sentito parlare di critica dell’ideologia, ma non dicono niente sui compromessi del loro lavoro. Se penso ai tipi alla Fazio e Saviano, poi, mi sembra davvero che sulla linea di Fortini abbia vinto quella del suo amico e avversario Pasolini, che puntava sulla mitizzazione della propria figura e chiedeva adesione totale o rifiuto. E allora come uscire da questo impasse? Dedicandosi con impegno al proprio lavoro di scrittura, torna a dire Marchesini, ma anche ricominciando a incontrarsi fuori da i riflettori. «La letteratura non è spettacolo. Intanto gli enti pubblici spendono per festival ed eventi cifre che basterebbero dieci anni alle biblioteche di quartiere. Con questo non demonizzo i festival ma a me piacciono le iniziative in cui le persone si incontrano e a mani nude per parlare di libri. Qui a Bologna l’associazione dell’Elefante, per esempio, organizzava serate di lettura in cui chiunque poteva proporre un testo da discutere e poi lo si faceva tutti assieme».

Viva la perdita di aura

Andrea Di Consoli

Andrea Di Consoli

«Chi sono, oggi, gli intellettuali? Sono la somma degli scrittori, architetti, filosofi, musicisti, registi, artisti, teologi, blogger, giornalisti, storici, docenti universitari, direttori di istituzioni culturali, antropologi, ecc. cioè la somma di tutti coloro che maneggiano quotidianamente idee, ideologie, pensieri, parole, materiali dell’immaginario, del pensiero, della cultura» dice lo scrittore e critico letterario Andrea Di Consoli.

«Dunque – prosegue – sono intellettuali tutti coloro che pensano in senso lato, cioè tutti coloro che lo fanno in maniera sistematica e non episodica». E in uno scenario sempre più allargato. «Di fatto il benessere moderno ha comportato una straordinaria proliferazione numerica degli intellettuali, perché la principale caratteristica delle società avanzate è la possibilità, da parte della massa, di abbandonare il lavoro manuale per il lavoro intellettuale».

twittE cosa porta con sé questo allargamento della cerchia degli intellettuali in Italia? «Comporta orizzontalità, pluralismo, frammentazione, affollamento. Ma perché dovrebbe essere un male? A mio avviso la perdita dell’alone ieratico e solenne che un tempo circondava alcuni intellettuali non è affatto da deprecare. Secondo me è un bene che in una società ci sia ricchezza di punti di vista, di argomenti e discipline, e pluralismo delle idee. Certo, questo comporta l’esperienza della solitudine per quasi tutti gli intellettuali (a parte per le poche figure superstiti di tipo novecentesco: come Eco, Magris, Saviano, Fo, Asor Rosa). Ecco – rilancia Di Consoli – è bello e liberatorio che ci sia tutta questa ricchezza intellettuale, ma sarebbe un errore, per invidia o per rancore, far passare l’idea ingenerosa e improduttiva che tutti gli intellettuali hanno lo stesso peso. Cambia in base alla caratura del proprio lavoro». Ma esiste uno spazio per gli intellettuali in Italia? «Sì a condizione che non si abbia in testa il dominante modello del successo mediatico. Gli intellettuali devono immaginare il loro lavoro e il loro impegno come tasselli di un infinito mosaico che tutti gli intellettuali concorrono a creare.

Poi, certo, ci sono quelli che riescono a piazzare cento tasselli, oppure tasselli bellissimi, e quelli che ne riescono a piazzare pochi, e magari poco cruciali per il disegno. Ma, una volta accettata fino in fondo questa umiltà e questa solitudine – rifiutando il pessimismo del “non contiamo nulla”, “la gente non legge”, “i giornali non ci cercano mai” – io credo che ciascun intellettuale possa fare con dignità e serietà la propria parte all’interno di un processo culturale che comunque è collettivo, corale»

 dal settimanale left-avvenimenti

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Il Sindaco che cercava la Battaglia di Anghiari

Posted by Simona Maggiorelli su aprile 6, 2013

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Matteo Renzi alla ricerca della Battaglia di Anghiari

Una legislatura vissuta pericolosamente. Dalla scuola, dall’università ma anche e soprattutto dal patrimonio d’arte.

Così Tomaso Montanari racconta, con lingua viva e tagliente, ciò che è accaduto in Italia sotto l’egida del ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi «l’unico ministro incompetente di un governo tecnico», che, per giunta «ha moltiplicato intorno a sé l’incompetenza come fossero pani e pesci» scrive lo storico dell’arte dell’università di Napoli nel suo nuovo libro Le pietre e il popolo, restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum Fax).

Un volume che stigmatizza il vuoto culturale e la mancanza di strategie che ha connotato il governo Monti. Che ha finito per proseguire sulla strada dello smantellamento del bene comune perpetrata dal governo Berlusconi e dalla “finanza creativa” di Tremonti con famigerate cartolarizzazioni (per far cassa), scandalosi condoni e svendite di interi pezzi di patrimonio pubblico.

Ne Le pietre e il popolo Montanari ci mostra come questo tipo di scellerata politica che attacca l’articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali sia stata praticata anche dal governo tecnico, in doppio petto e nascosto sotto il credito internazionale.

Un esempio per tutti. Il ministro Ornaghi nel 2012 nomina direttore della Girolamini di Napoli tal Marino Massimo De Caro, con alle spalle molteplici lavori fra cui anche l’aver gestito una libreria antiquaria a Verona e intimo amico di Marcello Dell’Utri. Nel capitolo “La danza macabra di Napoli”, Montanari tratteggia il suo incontro con l’improbabile direttore preposto alla tutela della biblioteca dove andava a studiare Vico: fra cani che si aggiravano con ossi in bocca fra rari incunaboli e bionde presenze sgattaiolate al suo arrivo.

Biblioteca Girolamini

Biblioteca Girolamini

Ma soprattutto racconta come a poco a poco il suo lavoro di storico dell’arte sia diventato quello di un giornalista d’inchiesta che riesce abilmente a mettere insieme tutti i pezzi del puzzle della clamorosa truffa che, poche settimane fa, ha portato alla condanna di De Caro a sette anni di carcere per aver sottratto duemila libri alla Girolamini.

L’appassionato lavoro di difesa del patrimonio d’arte e del suo valore civico che Montanari svolge da diversi anni parallelamente alla sua attività accademica e di studioso del Seicento si concretizza, in questo  libro, anche in ficcanti pagine di denuncia delle privatizzazioni mascherate che passano, per esempio, attraverso la creazioni di Fondazioni (vedi il caso del  museo Egizio di Torino e il rischio che corre Brera).

524788_491969040852542_1202966870_nE da questo punto di vista va detto che la vena più caustica e corrosiva di Montanari si appunta sull’amministrazione della sua Firenze. In pagine che non esiteremmo a definire esilaranti, se non fosse tragico il senso che ci trasmettono.

Alla sbarra c’è l’improvvida politica di valorizzazione dei beni culturali ridotta a mero marketing da parte del sindaco Matteo Renzi, che oltre ad aver bucherellato gli affreschi di Vasari alla ricerca di lacerti Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci e ad aver pensato di sostituirsi a Michelangelo nel completare la facciata di San Lorenzo, ha affidato il suo pensum, sui beni culturali «petrolio d’Italia» a un imbarazzante libro come il suo Stil Novo, soprattutto ha eletto a suo Ganimede il vicesindaco Dario Nardella che, come ci ricorda Montanari, «dal 2003 caldeggia la cessione degli Uffizi a una fondazione». (Simona Maggiorelli)

da left-avvenimenti

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Memorie di un ateo impenitente

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 3, 2012

A un anno dalla sua scomparsa esce anche in Italia il memoir dell’intellettuale e giornalista inglese Christopher Hitchens. Protagonista di appassionate battaglie in nome della libertà di pensiero e contro l’oscurantismo religioso

di Simona Maggiorelli

Christopher Hitchens

Passione per la conoscenza e dialettica continua, con il gusto di stare con gli altri, anche se capita di scontrarsi. Amore smisurato per la letteratura, interesse per la scienza e  rifiuto radicale della religione. E’ il piglio brillante, pieno di humour tagliente (mai cinico) di Christopher Hitchens che si torna ad assaporare nelle pagine di Hitch 22 che Einaudi pubblica a più di un anno dalla  sua scomparsa. Un memoir di un intellettuale che ha  vissuto intensamente, più che un’autobiografia. In cui sono ripercorsi 60 anni di storia personale e collettiva.

Quasi seicento pagine con  poche rivelazioni e nessun pensamento riguardo a quella che è stata per Hitch (così lo chiamavano gli amici Amis, Rushdie e McEwan) la battaglia di una vita, come giornalista e intellettuale, ma anche come uomo: la lotta contro l’oscurantismo e «il veleno» della fede. Tema al centro del suo best-seller come Dio non è grande (Einaudi) in cui raccontava perché, fin da quando portava i calzoni corti, aveva  preferito pensare piuttosto che credere. Ma fra i suoi molti saggi ha fatto scalpore anche un suo corrosivo libro inchiesta, La posizione della missionaria (Minimum Fax), che denunciava il business di Madre Teresa e il suo non dare farmaci ai bambini malati perché potessero guadagnarsi il paradiso soffrendo.

Ma Hitch è stato anche in prima fila nel denunciare lo scandalo della pedofilia nella Chiesa fino a tentare, con lo scienziato Richard Dawkins, di far comparire il Papa davanti alla Corte penale internazionale per violazione di diritti umani. Quando era già gravemente ammalato di tumore, Hich ha voluto fare un’ultima battaglia, questa volta per il diritto di tutti a morire con dignità, sfruttando fino all’ultimo istante per stare con le persone amate. Intanto i cristiani  negli Usa organizzavano catene di preghiera per  salvare l’anima di questo ateo impenitente. Che nell’introduzione a Hitch 22 commenta: «Per qualche inspiegabile ragione, la nostra cultura considera normale, addirittura encomiabile, che i devoti ammoniscano chi, a loro avviso, sia in procinto di morire. Un intero pacchiano edificio di fasulle conversioni sul letto di morte è sorto su questa presunzione altamente discutibile». Ringraziando per l’attenzione dei fedeli, annota poi non senza un pizzico della sua proverbiale ironia: «Invece di partecipare alle colazioni di preghiera in mio onore per quello che sul web andava sotto il nome di Pray for Hitchens day ho preferito  far da cavia  per esperimenti e protocolli clinici, soprattutto basati sul genoma e volti ad allargare il sapere umano».

Conversando con Dawkins per quella che sarebbe stata la sua ultima intervista per The New Statesman era tornato a precisare: «Non sono neutrale rispetto alla religione, le sono ostile. Penso che sia nociva, non solo una falsità. E non mi riferisco solo alla religione organizzata, ma al pensiero religioso in sé e per sé». E quando lo scienziato gli chiedeva che cosa era  per lui il totalitarismo  il liberale Hitch non esitava a rispondere: « E’ ciò che cerca di controllare ciò che hai in testa non solo il tuo comportamento. Le origini di tutto questo sono teocratiche ovviamente. Tutto comincia con l’idea che ci sia un leader a cui affidarsi, un papa infallibile, un ventriloquo del divino che ti dice cosa devi fare». Il suo impegno, ricorda oggi Dawkins «era far sì che una persona si alzasse da sola, per battersi senza paura per la verità».

da left Avvenimenti

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Il business di Madre Teresa

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 16, 2009

Dopo la denuncia di Christopher Hitchens , la giornalista Linda Polman riapre il caso della “Santa” di Calcutta, che non dava i farmaci ai malati  e accumulava  fondi su un conto privato all’estero. Nel nuovo libro inchiesta della giornalista olandese una schietta disamina del lato scuro delle organizzazioni umanitarie, specie quelle a sfondo religioso

di Simona Maggiorelli

Tra i termini con cui le Ong descrivono i propri scopi il più ricorrente è “umanitario”. Aggettivo alto, importante, denso di significati. «Una parola che fa pensare a un interesse vero, profondo, per le persone, ma che – denuncia la giornalista olandese Linda Polman-  troppo spesso è solo una copertura per fini ben diversi. La missione umanitaria in Kossovo, per esempio, significò bombe. Era violenza e venne fatta passare come un’azione nell’interesse delle persone».

Un altro esempio di come l’aggettivo “umanitario” possa essere sbandierato con tragiche conseguenze si trova nei cosiddetti humanitarian spaces: campi profughi, spiega Polman, che creano «una illusione di sicurezza». Indicando una determinata area come sicura, di fatto, si richiamano molti profughi «ma poi non si è in grado di proteggerli realmente. Ed è ben noto che i civili nelle guerre di oggi sono diventati un obiettivo militare». Senza contare che questi campi profughi, simili a prigioni, non hanno proprio nulla di umanitario.

Oggi dei 12 milioni di profughi che ci sono al mondo 7 milioni e mezzo vivono rinchiusi per una media di 10 anni. Mentre colera e dissenteria imperano, ritrovandosi alla mercé di comandanti, di banditi e della carità dei donatori. «Ma vivere rinchiusi- dice Polman- genera frustrazione e risentimenti. Il movimento dei talebani, non a caso, è nato nei campi profughi per afgani in Pakistan». Fra le pratiche vessatorie a cui chi ha bisogno di aiuto si trova esposto, quella più odiosa, è il ricatto religioso: quella carità penosa delle Ong evangeliche e cattoliche che lo scrittore Alan Drew ha descritto nel libro Nei giardini d’acqua (Piemme) ambientato durante il terremoto del 1999 a Istanbul. Cibo in cambio di abiura delle proprie convinzioni e conversione. Questa la politica di aiuti umanitari praticata da molte Ong Usa, con la supponenza di chi pensa di esportare una cultura superiore. «E poi- chiosa Drew – noi americani ci domandiamo perché gli arabi ci odiano». Situazioni del genere «erano e sono all’ordine del giorno anche in Afghanistan e in Iraq – commenta Polman-. Vogliamo sempre qualcosa in cambio per il nostro aiuto. Se le organizzazioni umanitarie cristiane vanno ad aiutare lo fanno per conquistare anime. In Africa sono la maggioranza. Ma anche in America le Ong sono per lo più di stampo religioso. Vanno a convertire il mondo alla cristianità. Qualche volta ci riescono, nella maggior parte dei casi, no. Ma di sicuro, partono con questa missione».

Fra i molti personaggi coinvolti in questo tipo di aiuti “umanitari”, quello che ha colpito maggiormente Linda Polman è stata madre Teresa: «Ero a Calcutta quando era ancora viva e gestiva un grande ospedale. Circondato da mura altissime, era il terrore dei bambini che si sentivano dire: guarda che se non stai buono viene madre Teresa e ti porta via. Di fatto – denuncia la giornalista ospite del Festival internazionale a Ferrara- varcate quelle mura la gente moriva senza cure mediche e medicine». Dopo la scomparsa di madre Teresa alcune inchieste giornalistiche hanno portato alla luce suoi conti all’estero. «I finanziamenti che riceveva in cifre ingenti – spiega Polman – non li spendeva per l’ospedale ma li accumulava sul proprio conto».

Lo raccontava qualche anno fa anche Christopher Hitchens nel libro La posizione della missionaria (Minimum fax). «Madre Teresa, che il Vaticano ha fatto santa – aggiunge ora Polman – ha scippato un sogno umanitario. Il problema siamo noi che vogliamo credere in queste illusioni, che vogliamo ostinatamente credere che madre Teresa fosse una gran donna che aiutava i poveri. Se andiamo a guardare i libri dei conti, se facciamo un po’ di ricerche, invece, si scopre che la storia delle Ong religiose ha sempre un dark side». Un lato oscuro da cui purtroppo non sono del tutto esenti anche molte Ong che si professano laiche, neutrali e disinteressate, come la stessa Polman documenta nel suo nuovo libro L’industria della solidarietà (Bruno Mondadori).Pur non dimenticando alcuni obiettivi positivi raggiunti, né tanto meno le persone che in missioni umanitarie o di peace keeping hanno perso la vita, la giornalista traccia un disincantato ritratto del fenomeno Ong (l’Onu ne ha conteggiate più di 37mila, ndr) troppo spesso eterodirette dai governi che le finanziano, prese da febbre da contratto, ipercompetitive nel contendersi fondi ingenti e più dedite a indagini di mercato che alla vera e propria risoluzione dei problemi.

Il caso dell’Etiopia ne è un chiaro esempio: tremila Ong sul territorio hanno un budget di oltre un miliardo di dollari l’anno. «Fame e carestie sono diventate un business – dice la giornalista – mentre nel Paese poco o nulla sembra cambiare». Le Ong si dicono apolitiche ma questo le rende ricattabili, precisa Polman. «Si dicono indipendenti dalla politica ma non potranno mai esserlo realmente, perché dipendono dai soldi che ricevono dai governi, i quali le spingono a investire dove è loro più utile. Durante la Guerra fredda accadeva lo stesso, Usa e Urss investivano in quei Paesi che potevano servire nello scacchiere. Oggi – prosegue Polman – qualcosa di simile accade per l’Iraq e per l’Afghanistan. Ricevono i nostri soldi perché abbiamo un interesse militare là, non perché amiamo quei Paesi. Ma le Ong non ci diranno mai nulla di questo meccanismo perverso. Hanno tutto l’interesse ad alimentare un sogno di un loro imparziale e neutrale intervento in aiuto a chiunque ne abbia bisogno». Oggi al mondo si contano 70 Paesi donatori. Ciascuno con una propria agenda. Salvo che nella guerra contro il terrorismo, alcuni Paesi vanno di pari passo, «per cui l’Italia – sottolinea Polman – segue l’America in Afghanistan». E non è da trascurare il fatto che, in media, il 70 o 80 per cento dei soldi è investito nel Paese donatore stesso. Di fatto si tratta di aiuti fantasma: tutto il cibo che viene donato dagli Usa, per esempio, è cresciuto, cucinato, impacchettato, distribuito da aziende a stelle e strisce. Ed è stato valutato che le spese di ricostruzione dell’Iraq, il più grande progetto Usa della storia, sarebbero potute costare fino al 90 per cento in meno se la ricostruzione di strade, ponti, fabbriche ecc. fosse stata affidata a società irachene anziché Usa. Oltre alle guerre, anche gli aiuti umanitari sono un business con ottimo ritorno economico!

Se ne è accorto anche lo star system di Hollywood e attori e registi corrono a ingaggiare consiglieri per le loro campagne di beneficenza. «Posso capire che le Ong cerchino chi fa audience – commenta Polman -. è più carino vedere in tv George Clooney che vedere solo un campo profughi. Ma così si prende un personaggio che non sa esattamente di cosa si sta parlando semplicemente per dire: sono in questo campo profughi, manda dei soldi alla nostra organizzazione e risolveremo il problema per te. Ma la soluzione al problema è molto più complessa e non basta regalare 10 euro a una Ong. Così non dai informazioni e non fai un’analisi di ciò che accade. Alla fine – conclude Polman – significa che non stai affatto risolvendo il problema, lo stai solo coprendo”.

– da left- avvenimenti, 16 ottobre 2009

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Un’estate da leggere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 14, 2009

di Simona Maggiorelli
Picasso

Picasso

Estate tempo di riposo. E, finalmente, tempo di letture. Si direbbe con il signor Lapalisse. Quelle agognate durante tutto l’inverno affogato di impegni e di lavoro. Ma a dare retta a un certo vecchio e usurato costume dei giornali nostrani, che sotto il solleone vanno a caccia di gossip e delitti, gli italiani con l’arrivo delle ferie manderebbero anche il cervello in vacanza. Stanchi di questo vecchio adagio, curiosando fra le novità in libreria, ci siamo immaginati un piccolo vademecum per chi sia già con un piede sull’aereo, sul treno, sulla bicicletta… cercando di fare incetta di enzimi per la mente…

Sotto l’ombrellone

«Tempo!», chiedono con le mani gli allenatori di Pallavolo. E di questi tempi vacazieri, quelli del Beach Volley sulle spiagge. E allora diamoci tempo per un tuffo nelle pagine per cercare di capire qualcosa di più di questo strano Paese in cui viviamo. Un Paese in cui i giornali dei grandi gruppi editoriali “non sempre” fanno il proprio lavoro, mentre singolarmente, e con coraggio, giornalisti e scrittori, passandosi il timone, scrivono la vera storia degli ultimi anni. Parliamo, per esempio, di giornalisti come Lirio Abbate, al lavoro quotidiano in Sicilia contro la mafia, ma anche autore di libri come I complici, tutti gli uomini di Provenzano da Corleone al parlamento (Fazi) scritto due anni fa con Peter Gomez; un libro, pensiamo, che ognuno di noi dovrebbe avere in casa.

Ma pensando a Napoli, alle stragi di camorra e non solo, parliamo anche dei libri di Roberto Saviano che, recentemente per Mondadori ha raccolto i suoi reportage scritti fra il 2004 e il 2009, nel libro La bellezza e l’inferno. Abbate e Saviano, due giornalisti diversissimi, ma che in questo Paese strano vivono entrambi sotto scorta. Una stranezza che la statunitense Freedom house ha passato al vaglio classificando l’Italia all’ultimo posto in Europa per la libertà di stampa.

In campagna

Dedicato a chi va in campagna. In senso letterale. E metaforico, pensando a ciò che si muove o non si muove, ahinoi, a sinistra sulla scena politica italiana. Pensando al teatrino delle candidature alle primarie del Pd a cui già in questi giorni stiamo assistendo e, a chi non rassegnandosi a morire democristiano, berlusconiano o finiano, già si sente in campagna elettorale per le elezioni regionali dell’anno prossimo. Così, fra i molti titoli nuovi che ci si propongono ci viene, in primis, da suggerire come lettura per l’estate il libro, anche se non nuovissimo, di Beppino Englaro Eluana, la libertà e la vita (Rizzoli) accanto a Storia di una morte opportuna, il diario del medico di Welby, Mario Riccio, pubblicato da Sironi.

Poi venendo ai libri freschi di stampa, un titolo importante come Religione e politica (Meltemi) in cui si ricostruisce tutto il percorso che va da Del Noce a Habermas allo statuto del Pd, che in molti ricorderanno, stabiliva che la religione non fosse un fatto al limite privato, ma dovesse rientrare a pieno titolo nel dibattito pubblico; persino, in quello parlamentare. Ma guardando ancora in casa propria pur sforzandoci di pensare Antonio Di Pietro di sinistra, memori delle sue sacrosante battaglie da magistrato, vale la pena approfondire la deriva populista dell’Antonio nazionale, analizzata da Alberico Giostra in Il Tribuno. Vita politica di Antonio Di Pietro (Castelvecchi).

Per chi va in montagna

Pensieri in vetta, dopo lunghe camminate. Un libro, un rifugio. Recita il titolo di una rassegna di incontri con l’autore in Alta Badia, che il 5 agosto, a La Villa-Corvara, invita il direttore del domenicale de Il Sole 24 ore, Riccardo Chiaberge, a presentare il suo ultimo libro La variabile Dio (Longanesi) che indaga le radici dell’insanabile conflitto fra religione e scienza. Ma di scienza e di scoperte mentalmente “ad alta quota” si occupa, fra romanzo e storia, anche il libro del fisico Gino Segré, Faust a Copenaghen (Il Saggiatore) che ricostruisce la vita, le relazioni (nonché la passione per l’alpinismo) e l’impegno assoluto nella ricerca del gruppo di scienziati, sei uomini e una donna, che nel 1932 lavoravano per Istituto di fisica teorica di Copenaghen.
Erano il gruppo di Niels Bohr e di Werner Heisenberg, i “rivoluzionari” della fisica quantistica. Per i più contemplativi, invece, c’è il bel libro curato da Chiara Dall’Olio La Montagna rivelata Fotografie di grandi viaggiatori e alpinisti tra ’800 e ’900 (Skira) e per gli scalatori del limite, invece, il libro testimonianza di uno dei più grandi scalatori al mondo, Alexander Huber La montagna ed io (Corbaccio). E ancora sul versante più “domestico”, riecheggiando il titolo del celebre viaggio in Italia di Dürer, ecco In viaggio sulle Alpi (Einaudi) di Marco Albino Ferrari, che l’autore presenta il 24 luglio a Courmayeur.

Per chi va al lago

Maurizio Pallante, il teorico italiano della decrescita, presenta il 23 luglio nel Parco Laghi Margonara a Gonzaga, in provincia di Mantova il suo ultimo libro La felicità sostenibile (Rizzoli) che parte da alcuni assunti semplici ed essenziali: tra processo di trasformazione e uso finale, una lampadina a incandescenza disperde il 95 per cento dell’energia; per ricavare una bistecca di manzo da un etto, occorrono tremila litri di acqua. Invitando a una battaglia, in teoria elementare ed evidente a tutti, contro gli sprechi. Ma un pesante sasso nel lago stagnante della politica italiana, che sotto Berlusconi (e purtroppo, anche sotto l’ultimo governo di centrosinistra) si è dimostrata quanto mai genuflessa ai diktat vaticani lo getta in primo luogo Gianluigi Nuzzi, con il libro Vaticano Spa (Chiarelettere).
In un Paese cattolico come il nostro da alcune settimane, curiosamente, in cima alle classifiche di vendita dei libri troviamo proprio questo titolo che documenta come lo Ior, la Banca vaticana, abbia negli anni prestato il fianco al riciclaggio di denaro sporco. E non solo. Una storia che si riesce a mettere ancor più a fuoco leggendo il libro di Nuzzi in parallelo con il libro Qualunque cosa succeda del giovane avvocato Umberto Ambrosoli, figlio dell’assassinato Giorgio (appena uscito per Sironi con la prefazione di del presidente Carlo Azeglio Ciampi). E per chi voglia andare ancora più a fondo in questa storia cruciale d’Italia, utilissima è anche la lettura comparata del libro Il Caffé Sindona (Garzanti) che gli autori Gianni Simoni e Giuliano Turone presentano il primo agosto a Courmayeur proprio con Umberto Ambrosoli.

Per chi viaggia

«Per viaggiare basta vivere», scriveva giustamente il portoghese Fernando Pessoa. E proprio per chi sceglie di vivere intensamente attraverso un viaggio ci sentiremmo di suggerire alcuni titoli che ci liberano dalla maschera della felliniana Gelsomina: di chi nulla sa, ma peggio ancora, nulla vuole sapere. Pensiamo a libri come l’autobiografia di Rebya Kader, ex imprenditrice dello Xinjiang, acclamata ai massimi gradi del parlamento cinese perché «arricchirsi è glorioso» e poi subitaneamente cacciata per la sua strenua difesa dei diritti umani nel Turkmenistan orientale. Qualche mese fa Kadeer, leader degli uiguri, esule negli Usa dopo anni di prigione in Cina, è venuta in Italia per presentare il suo libro, La guerriera gentile (Corbaccio), preconizzando un drammatico giro di vite nella sua terra.
Alla luce degli oltre 800 morti denunciati da fonti uigure, uccisi dalla repressione cinese, questo appassionante libro è essenziale per tentare di capire cosa sta succedendo. Dall’Estremo al Medio Oriente, altri focolai di rivolta e repressioni che si consumano sanguinosamente sotto il nostro sguardo distratto. Pensiamo all’Iran e alla rivolta di tanti giovani contro le elezioni truccate dal presidente Ahmadinejad. Anche in Italia sono usciti alcuni titoli che interrogano radicalmente il regime, a cominciare dalla Storia dell’Iran 1890-2008 (Bruno Mondadori) dell’italo-iraniana Farian Sabahi e dalla Storia dell’Iran dai primi del ’900 a oggi di Ervand Abrahamian (Donzelli).

Ma non solo. Con fantasia, raccontando per metafore, spinte da esigenze espressive ma anche dalla necessità di sviare la censura, giovani scrittrici iraniane raccontano tra le righe il cambiamento sotterraneo che la società di Teheran sta vivendo, anche grazie all’impegno delle donne. La studiosa Anna Vanzan ha raccolto le loro voci nel libro Figlie di Shahrazad. Scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi (Bruno Mondadori). E ancora. Dal Medio Oriente all’emergenze dell’Africa, Benito Li Vigni, esperto di geopolitica nel libro I predatori dell’oro nero e della finanza globale (Baldini Castoldi Dalai), indaga a tutto campo sui legami tra «mondo del petrolio» e potere politico-finanziario, inquadrando le verità nascoste che riguardano il futuro dei giacimenti, le guerre, le tensioni geopolitiche e l’uso dell’«arma petrolifera» da parte dei maggiori produttori, primo fra tutti la Russia. «Lungo una sorta di cintura che lega il Sud del mondo, passando dall’Iraq al Sudan e alla Nigeria, per arrivare in Venezuela e Colombia scrive Li Vigni – gli “imperi del profitto” si scontrano e si alleano. La fame di petrolio spinge a mutamenti epocali negli assetti politici internazionali, basti pensare alla silenziosa colonizzazione cinese dell’Africa e a un evento impensabile come l’affacciarsi della flotta militare di Pechino nel Mediterraneo». Uno scenario instabile nel quale si affaccia la «svolta verde» di Barack Obama e la sua politica estera fin qui moderata.

E ancora a chi voglia viaggiare con cognizione in terra d’Africa suggeriamo I signori della sete (Piemme) di Sergio Grea che offre – in chiave di romanzo ma sostanziata da una fitta messe di documenti – un drammatico spaccato delle conseguenze delle guerre per una risorsa primaria come l’acqua. Il libro sarà presentato il 19 luglio a San Marzano Oliveto in provincia di Asti. Last but not least, un libro essenziale per chi quest’estate prendesse le rotte dell’India: parliamo di Quando arrivano le cavallette (Guanda) della scrittrice e coraggiosa reporter Arundhati Roy. Nonostante i passi avanti che ha fatto la più grande democrazia mondiale, sono molte ancora le pagine di ingiustizia. La straordinaria romanziera de Il dio delle piccole cose qui fa cronaca di denuncia documentando azioni di apparati dello Stato deviati e la corruzione di una magistratura prona agli interessi delle multinazionali.

Per chi sta a casa

«L’amore è un viaggio. Ed è meglio viaggiare che arrivare, come diceva qualcuno». Quel qualcuno era il maestro del romanzo d’avventura Stevenson, quello dell’Isola del tesoro. Ma chi siglava questa nota nel 1918 era uno scrittore di lingua anglosassone, forse ancor più grande: D.H. Lawrence, l’autore scandaloso per quegli anni del romanzo L’amante di Lady Chatterly. Di Lawrence in questi giorni Adelphi fa uscire una interessante raccolta di saggi intitolata Classici americani. Di fatto una serie di folgoranti ritratti, di grande penetrazione psicologica di maestri come Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne (l’autore de La lettera scarlatta) e di Herman Melville. Il libro, scritto in prima persona, ha come voce narrante quella di un ragazzino di 11 anni che vede suo padre morire improvvisamente.

Ma volendo continuare a viaggiare con la mente nella grande e contraddittoria terra americana, Adelphi offre anche un altro titolo da non perdere di vista: l’affascinante Zia Mame di Patrick Dennis in cui si racconta la grande mela degli anni Venti ricca di jazz e nuove culture con lo sguardo ancora una volta di un ragazzino rimasto orfano, ma in questo caso affidato a una affascinate zia che non aveva mai voluto sposarsi. E ancora per restare in terra a stelle e strisce, mentre il giovanissimo Todd HasakLowy in Prigionieri (Minimum Fax) traccia un corrosivo ritratto dell’America dei nostri giorni in cui – ipse dixit «tutto è andato completamente a puttane, il governo, le grandi aziende, tutto», esce in rinnovata edizione italiana Uomo invisibile (Einaudi), il romanzo dello scrittore afroamericano Ralph Ellison, che per primo nel 1947 seppe fondere la tradizione orale del Sud con il registro poetico di Dostoevsky per raccontare la storia di un meticcio che ha più di qualche assonanza con quella del presidente Obama, il quale in passato, se non proprio citando Uomo invisibile, ha fatto riferimento ai libri di Ellison.

Un tempo, parlando di superpotenze culturali e non solo politiche, sbirciando da casa il mappamondo e avendo a portata di mano una degna biblioteca, a questo punto, si sarebbe andati a scovare qualche perla di novità letteraria nei territori della ex Urss. Ma letterariamente parlando oggi la temperatura culturale di Mosca sembra essere “non pervenuta”. Come se di dittatura in dittatura, da quella staliniana a quella putiniana, la voce dell’arte fosse stata più che mai tacitata. Mentre le voci critiche dei giornalisti, drammaticamente, vengono azzerate a colpi di pistola. Come la cecena Natalya Estemirova, come Anna Politkovskaya. Alle quali Voland dedica Ragazze della guerra di Susanne Scholl, in uscita nei prossimi mesi.

Nello scacchiere mondiale dell’arte, accanto a nuovi voci emergenti da vaste aree e continenti fin qui ingiustamente considerati periferia del canone occidentale come India, Africa, Caraibi, America Latina, svetta ancora, nonostante la censura, il colosso cinese, che uno scrittore di tradizione alta come Mo Yan ne Le sei rincarnazioni di Ximen Nao (Einaudi) racconta con accenti epici e sottile ironia nel passaggio lungo mezzo secolo che va dalla riforma agraria, alla rivoluzione culturale di Mao, fino agli esiti più recenti, di un’economia liberista e macchiata di sangue. Più giovane, caustico e disposto a raccontare gli ultimi anni della storia cinese al grado zero, Ma Jan, l’autore di folgoranti storie dal Tibet, raccolte in Tira fuori la lingua (Feltrinelli), nel nuovo romanzo Pechino è in coma (Feltrinelli) traccia un poderoso e agghiacciante ritratto di quel che è accaduto nel Paese di Mao a partire dal quel fatidico 4 giugno 1989 in cui la migliore gioventù cinese morì n piazza Tienanmen.

Dovunque andiate

«Nonostante l’epoca sia così nera, così difficile, piena di teologi, di ladroni, la poesia non ha perduto il suo valore, la sua efficacia, l’unica cosa che rimane ancora che possa trasformare il mondo, almeno allusivamente – un ultimo miracolo che ci resta – è forse la poesia; anche per questo suo dono di avere gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme… ». Così, ricordando queste parole forti che Angelo Maria Ripellino affidò al suo Splendido violino verde (Einaudi), dovunque andiate o non andiate, ci sono dei libri che non deludono mai: sono le raccolte di versi.E fra i tanti classici a cui si può ricorrere per trovare buona linfa, ne segnaliamo anche uno uscito in questi mesi. è Ecco il mio nome (Donzelli) del poeta siriano Adonis. Un libro di versi dedicato al Medio Oriente dove l’autore è nato, ma anche ai sentieri incrociati di New York e di Parigi, dove ha scelto di vivere. A far da filo rosso della raccolta i temi che Adonis esplora poeticamente da cinquant’anni, il desiderio, il rapporto con la donna, il rifiuto della violenza, a cominciare da quella della religione. «Sono nato anti-ideologo e areligioso, perché temo molto tutti coloro che hanno la risposta a ogni domanda», spiega Adonis in una recente intervista.«Il monoteismo è la fonte dei nostri problemi e delle guerre che hanno sempre insanguinato il Mediterraneo; questo posso dirlo certamente come conoscitore dell’islam. Ma lascio a voi la critica del giudaismo e del cristianesimo, gli altri due grandi monoteismi». Nei suoi versi Adonis configura una sua laica antropologia. Con parole risonanti, sfaccettate, dense di significati. Lontane da ogni astrattezza filosofica. «Io vedo l’uomo come essere capace di amore e come creatura anti violenta. Credo davvero che l’uomo possa essere al sommo della creazione, intesa non in senso religioso, ma naturalistico».

dal quotidiano Terra, 18 luglio 2009

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