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Il realismo visionario di Mo Yan

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012

di Simona Maggiorelli

Il premio Nobel Mo Yan

Chi è Mo Yan, il primo scrittore cinese ad essere insignito del Premio Nobel? Innanzitutto un autore che ha sviluppato un proprio stile potente e originale, da alcuni definito “ realismo magico” ( richiamando l’immagine dello scrittore sudamericano Gabriel Garcia Màrquez), ma che forse meglio si potrebbe definire “realismo visionario” per le molte metamorfosi e caustiche mutazioni da uomo- animale (vedi per esempio il padrone che diventa animale ne Le sei reincarnazioni di Ximen Nao) che popolano i suoi poderosi romanzi.

Un realismo visionario che si lega  a un  iperbolico e grottesco materialismo, quasi rabelaisiano. Un tratto satirico profondamente radicato in quella tradizione popolare cinese che da sempre mescola narrazione e crudo  realismo. Ritmata da scene di luculliani banchetti ma anche di feroci massacri, la prosa di Mo Yan si riallaccia agli eccessi dell’epos della tradizione epica cinese.

Sorprendendo e catturando il lettori con spiazzanti storie di animali antropomorfi dotati di parola. Mo Yan ne ha fatto gli elementi di base del proprio vacobalario letterario, riescendo così indirettamente (e senza rischiare troppo con la censura) a parlare della Cina contemporanea. Fra luci e ombre. Ma questo è un livello di interpretazione della prosa di Mo Yan che chiede più attenta esegesi…

A livello più macroscopico realismo e dedizione alla propria terra e al patrimonio culturale orientale fanno di Mo Yan, a 57 anni, uno degli autori più letti in Cina e non solo. Fin dal suo dirompente Sorgo Rosso (Einaudi) poi diventato anche capolavoro cinematografico diretto dal regista Zhang Yimou.

Gong Li in Sorgo Rosso

E se in Cina le reazioni al Nobel sono state di plauso, specie dall’establishment del Partito comunista che a novembre si avvia a uno storico e controversocongresso, Mo Yan è contestato dai suoi coetanei, e da autori cinesi dissidenti e esiliati che lo accusano di essere un uomo di regime. Ricordando, tra molto altro, come in veste di vice presidente dell’associazione nazionale scrittori Mo Yan abbia espunto dalle liste degli autori cinesi invitati alla Buchmesse di Francoforte quelli meno graditi al governo di Pechino.

“Al di là di tutto e Mo Yan resta un grande scrittore che ha scritto il grande romanzo della Cina. Ma certo è innegabile che sia è molto attento a ciò che può o non può essere scritto”,commenta  il sinologo Eric Abrahamsen. Il nome stesso che Mo Yan si è scelto, del resto, rivela questa acuta consapevolezza: alla lettera in cinese classico Mo Yan significa “non parlare”. Una raccomandazione che il Premio Nobel per la letteratura 2012 ha raccontato gli facevano spesso i suoi genitori durante la Rivoluzione culturale. Il suo vero nome di Mo Yan, come è noto, è Guan Moye, Mo Yan è nato nel 1955 in una famiglia di contadini che hanno fatto la fame durante il Grande balzo in avanti (1958-1961). Nella sua città natale nello Shandong, lo scrittore ha trascorso una infanzia segnata da privazioni e si è trovato a dover interrompere la scuola nel bel mezzo della Rivoluzione culturale. E, paradossalmente, fu l’adesione all’indottrinamento a permettergli di perseguire il suo sogno di diventare scrittore. La sua è la storia di molte famiglie di contadini analfabeti cinesi che furono più o meno salvati dall’esercito, dal fatto di essere iscritti al Partito che poi permise a Mo Yan la carriera per diventare uno scrittore.

Nella sua vicenda biografica si è inverata la storia del contadino-soldato-scrittore, in uniforme, che tuttavia è onnivoro lettore di autori occidentali, della letteratura russa, giapponese, sud americana. Sfornando storie e romanzi all’apparenza picaresti Mo Yan, a ben vedere, mette alla berlina la brama di ricchezza che sembra essersi impossessata della Cina, al motto di Deng “arricchirsi è glorioso”; stigmatizza i conflitti sino-giapponesi , allude alla tortura cinese, parlando di macellazione dei suini e lancia strali indiretti alla corruzione dei quadri comunisti ( vedi Grande seno fianchi larghi edito da Einaudi). “Uno scrittore deve esprimere critiche e indignazione per il lato oscuro della società”, ha detto una volta Mo Yan. E coerente con questo assunto, consapevole della autorevolezza e” intoccabilità” che gli conferisce il Nobel, all”indomani dell’annuncio della sua designazione , ha espresso l’auspicio che il Nobel per la pace, l’intellettuale e scrittore Liu Xiaobo, venga presto liberato. Arte del cerchiobottismo, ha commentato più di uno, ma intanto il messaggio nella bottiglia è stato lanciato.

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Le rane il nuovo romanzo del Nobel Mo Yan

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 20, 2012

Dagli aborti forzosi alle feroci sperequazioni sociali. Ecco in anteprima i temi del nuovo libro firmato dal Premio Nobel per la Letteratura, che uscirà in Italia nel 2013

di Federico Tulli

Si intitola Le rane il nuovo romanzo di Mo Yan, e uscirà nel 2013 per Einaudi che pubblica in Italia tutte le opere del neo premio Nobel cinese, (eccezion fatta per l’autobiografia Cambiamenti in libreria nel 2011 per Nutrimenti). Protagonista del nuovo lavoro dello scrittore cinese è una vecchia zia che, giunta all’età di 77 anni, si trova a tracciare tra sé a sé un bilancio della propria vita, contando di aver fatto nascere 9983 bambini e di aver praticato migliaia di aborti, in ossequio alla politica comunista di controllo delle nascite.

Pubblicato in Cina nel 2009, questo romanzo ha aperto un acceso dibattito in un momento in cui la politica demografica imposta dal Partito comunista cinese comincia a essere messa in discussione in alcuni distretti, a cominciare da Shanghai. Come in molti altri romanzi di Mo Yan, anche in questa sua ultima uscita è una donna a giocare un ruolo di primo piano. Ne Le rane la voce narrante è una donna senza figli. Suo padre Wan era un medico dell’ottava Armata durante la guerra contro il Giappone, e lei dopo la laurea, diventa una specie di eroina locale, lavorando come infermiera e ostetrica. Ma i suoi rapporti con gli uomini non sono dei più felici: un bel pilota, suo fidanzato per un po’, mette in giro la voce che lei è «troppo rivoluzionaria, troppo seria … non abbastanza sexy».

E una donna senza un uomo accanto è guardata con sospetto nella Cina rurale. Così a poco a poco il partito diventa sempre più la famiglia di questa donna, ora determinata a bastare a se stessa. Dal 1965 la politica di controllo delle nascite le riserva un ruolo di primo piano. E quasi senza rendersene conto diventa una signora della guerra, che gestisce duemila aborti, fa innumerevoli vasectomie e chiusure delle tube e ha al suo servizio un giro di spie per scoprire gravidanze non autorizzate. Intanto i trattori sono all’erta per distruggere le case come rappresaglia, e per rendere inservibili le barche per impedire la fuga. E non si contano le donne che muoiono durante l’aborto.

Alla politica di regime si somma un’atavica misoginia: non avere un erede maschio per i contadini più poveri cinesi era ed è inaccettabile. «È davvero bizzarro – fa dire Mo Yan alla protagonista – quando una donna dà alla luce una figlia, il marito si presenta con un tale volto… Ma se la mucca partorisce una giovenca, la bocca si apre in un largo sorriso». Qui Mo Yan si ferma, alludendo soltanto ai tanti omicidi di bambine alla nascita, che avvengono nelle campagne cinesi per poter provare ancora ad avere un maschio. Tra le righe Mo Yan sembra voler dire che questa politica demografica era una necessità inevitabile per la Cina, ma solo un regime totalitario è stato in grado di imporre e eccessi così inaccettabili. «Perché la parola “neonati” e la parola “rane” nella nostra lingua sono pronunciate allo stesso modo?» si domanda la protagonista. «Perché il vagito di un neonato appena uscito dal grembo materno può sembrare molto simile al gracidare di una rana. La rana è un simbolo di fertilità , in molte regioni non mangiano le rane, perché sono animali amici del genere umano… chi le mangia rischia di diventare idiota». Questo romanzo parabola di Mo Yan allude, tra le righe anche al fenomeno delle madri surrogate a scopo di lucro: ne Le Rane una società di allevamento di rane è in realtà una copertura per un business di reclutamento e commercializzazione del corpo delle donne. Per soldi e disperazione. Come nel caso di una donna dal volto sfigurato da un incendio scoppiato in una fabbrica e che, ci racconta Mo Yan, è costretta ad affittare il proprio utero per pagare le spese mediche per il padre ferito e senza assicurazione sociale. Uno scenario che ci parla di una Cina economicamente rampante, ma dilaniata da feroci sperequazioni sociali. Mo Yan lo fa con uno stile meno appariscente, meno ricco di immagini, ma ritmato da dialoghi vivaci e, come sempre percorso dal suo spiazzante e imprevisto umorismo. Mo Yan ne Le Rane ci appare più distaccato, mantiene i personaggi a una certa distanza, senza darcene una descrizione fisica. Siamo ben lontani da un romanzo realistico o di surreale inchiesta (come accadeva invece ne Le sei reincarnazioni di Ximen Nao ) ma sa regalarci ancora pagine bellissime. Come quelle dedicate ai sogni dell’anziana protagonista.

Fonte:  Globalist/Babylonpost

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Un’estate da leggere

Posted by Simona Maggiorelli su luglio 14, 2009

di Simona Maggiorelli
Picasso

Picasso

Estate tempo di riposo. E, finalmente, tempo di letture. Si direbbe con il signor Lapalisse. Quelle agognate durante tutto l’inverno affogato di impegni e di lavoro. Ma a dare retta a un certo vecchio e usurato costume dei giornali nostrani, che sotto il solleone vanno a caccia di gossip e delitti, gli italiani con l’arrivo delle ferie manderebbero anche il cervello in vacanza. Stanchi di questo vecchio adagio, curiosando fra le novità in libreria, ci siamo immaginati un piccolo vademecum per chi sia già con un piede sull’aereo, sul treno, sulla bicicletta… cercando di fare incetta di enzimi per la mente…

Sotto l’ombrellone

«Tempo!», chiedono con le mani gli allenatori di Pallavolo. E di questi tempi vacazieri, quelli del Beach Volley sulle spiagge. E allora diamoci tempo per un tuffo nelle pagine per cercare di capire qualcosa di più di questo strano Paese in cui viviamo. Un Paese in cui i giornali dei grandi gruppi editoriali “non sempre” fanno il proprio lavoro, mentre singolarmente, e con coraggio, giornalisti e scrittori, passandosi il timone, scrivono la vera storia degli ultimi anni. Parliamo, per esempio, di giornalisti come Lirio Abbate, al lavoro quotidiano in Sicilia contro la mafia, ma anche autore di libri come I complici, tutti gli uomini di Provenzano da Corleone al parlamento (Fazi) scritto due anni fa con Peter Gomez; un libro, pensiamo, che ognuno di noi dovrebbe avere in casa.

Ma pensando a Napoli, alle stragi di camorra e non solo, parliamo anche dei libri di Roberto Saviano che, recentemente per Mondadori ha raccolto i suoi reportage scritti fra il 2004 e il 2009, nel libro La bellezza e l’inferno. Abbate e Saviano, due giornalisti diversissimi, ma che in questo Paese strano vivono entrambi sotto scorta. Una stranezza che la statunitense Freedom house ha passato al vaglio classificando l’Italia all’ultimo posto in Europa per la libertà di stampa.

In campagna

Dedicato a chi va in campagna. In senso letterale. E metaforico, pensando a ciò che si muove o non si muove, ahinoi, a sinistra sulla scena politica italiana. Pensando al teatrino delle candidature alle primarie del Pd a cui già in questi giorni stiamo assistendo e, a chi non rassegnandosi a morire democristiano, berlusconiano o finiano, già si sente in campagna elettorale per le elezioni regionali dell’anno prossimo. Così, fra i molti titoli nuovi che ci si propongono ci viene, in primis, da suggerire come lettura per l’estate il libro, anche se non nuovissimo, di Beppino Englaro Eluana, la libertà e la vita (Rizzoli) accanto a Storia di una morte opportuna, il diario del medico di Welby, Mario Riccio, pubblicato da Sironi.

Poi venendo ai libri freschi di stampa, un titolo importante come Religione e politica (Meltemi) in cui si ricostruisce tutto il percorso che va da Del Noce a Habermas allo statuto del Pd, che in molti ricorderanno, stabiliva che la religione non fosse un fatto al limite privato, ma dovesse rientrare a pieno titolo nel dibattito pubblico; persino, in quello parlamentare. Ma guardando ancora in casa propria pur sforzandoci di pensare Antonio Di Pietro di sinistra, memori delle sue sacrosante battaglie da magistrato, vale la pena approfondire la deriva populista dell’Antonio nazionale, analizzata da Alberico Giostra in Il Tribuno. Vita politica di Antonio Di Pietro (Castelvecchi).

Per chi va in montagna

Pensieri in vetta, dopo lunghe camminate. Un libro, un rifugio. Recita il titolo di una rassegna di incontri con l’autore in Alta Badia, che il 5 agosto, a La Villa-Corvara, invita il direttore del domenicale de Il Sole 24 ore, Riccardo Chiaberge, a presentare il suo ultimo libro La variabile Dio (Longanesi) che indaga le radici dell’insanabile conflitto fra religione e scienza. Ma di scienza e di scoperte mentalmente “ad alta quota” si occupa, fra romanzo e storia, anche il libro del fisico Gino Segré, Faust a Copenaghen (Il Saggiatore) che ricostruisce la vita, le relazioni (nonché la passione per l’alpinismo) e l’impegno assoluto nella ricerca del gruppo di scienziati, sei uomini e una donna, che nel 1932 lavoravano per Istituto di fisica teorica di Copenaghen.
Erano il gruppo di Niels Bohr e di Werner Heisenberg, i “rivoluzionari” della fisica quantistica. Per i più contemplativi, invece, c’è il bel libro curato da Chiara Dall’Olio La Montagna rivelata Fotografie di grandi viaggiatori e alpinisti tra ’800 e ’900 (Skira) e per gli scalatori del limite, invece, il libro testimonianza di uno dei più grandi scalatori al mondo, Alexander Huber La montagna ed io (Corbaccio). E ancora sul versante più “domestico”, riecheggiando il titolo del celebre viaggio in Italia di Dürer, ecco In viaggio sulle Alpi (Einaudi) di Marco Albino Ferrari, che l’autore presenta il 24 luglio a Courmayeur.

Per chi va al lago

Maurizio Pallante, il teorico italiano della decrescita, presenta il 23 luglio nel Parco Laghi Margonara a Gonzaga, in provincia di Mantova il suo ultimo libro La felicità sostenibile (Rizzoli) che parte da alcuni assunti semplici ed essenziali: tra processo di trasformazione e uso finale, una lampadina a incandescenza disperde il 95 per cento dell’energia; per ricavare una bistecca di manzo da un etto, occorrono tremila litri di acqua. Invitando a una battaglia, in teoria elementare ed evidente a tutti, contro gli sprechi. Ma un pesante sasso nel lago stagnante della politica italiana, che sotto Berlusconi (e purtroppo, anche sotto l’ultimo governo di centrosinistra) si è dimostrata quanto mai genuflessa ai diktat vaticani lo getta in primo luogo Gianluigi Nuzzi, con il libro Vaticano Spa (Chiarelettere).
In un Paese cattolico come il nostro da alcune settimane, curiosamente, in cima alle classifiche di vendita dei libri troviamo proprio questo titolo che documenta come lo Ior, la Banca vaticana, abbia negli anni prestato il fianco al riciclaggio di denaro sporco. E non solo. Una storia che si riesce a mettere ancor più a fuoco leggendo il libro di Nuzzi in parallelo con il libro Qualunque cosa succeda del giovane avvocato Umberto Ambrosoli, figlio dell’assassinato Giorgio (appena uscito per Sironi con la prefazione di del presidente Carlo Azeglio Ciampi). E per chi voglia andare ancora più a fondo in questa storia cruciale d’Italia, utilissima è anche la lettura comparata del libro Il Caffé Sindona (Garzanti) che gli autori Gianni Simoni e Giuliano Turone presentano il primo agosto a Courmayeur proprio con Umberto Ambrosoli.

Per chi viaggia

«Per viaggiare basta vivere», scriveva giustamente il portoghese Fernando Pessoa. E proprio per chi sceglie di vivere intensamente attraverso un viaggio ci sentiremmo di suggerire alcuni titoli che ci liberano dalla maschera della felliniana Gelsomina: di chi nulla sa, ma peggio ancora, nulla vuole sapere. Pensiamo a libri come l’autobiografia di Rebya Kader, ex imprenditrice dello Xinjiang, acclamata ai massimi gradi del parlamento cinese perché «arricchirsi è glorioso» e poi subitaneamente cacciata per la sua strenua difesa dei diritti umani nel Turkmenistan orientale. Qualche mese fa Kadeer, leader degli uiguri, esule negli Usa dopo anni di prigione in Cina, è venuta in Italia per presentare il suo libro, La guerriera gentile (Corbaccio), preconizzando un drammatico giro di vite nella sua terra.
Alla luce degli oltre 800 morti denunciati da fonti uigure, uccisi dalla repressione cinese, questo appassionante libro è essenziale per tentare di capire cosa sta succedendo. Dall’Estremo al Medio Oriente, altri focolai di rivolta e repressioni che si consumano sanguinosamente sotto il nostro sguardo distratto. Pensiamo all’Iran e alla rivolta di tanti giovani contro le elezioni truccate dal presidente Ahmadinejad. Anche in Italia sono usciti alcuni titoli che interrogano radicalmente il regime, a cominciare dalla Storia dell’Iran 1890-2008 (Bruno Mondadori) dell’italo-iraniana Farian Sabahi e dalla Storia dell’Iran dai primi del ’900 a oggi di Ervand Abrahamian (Donzelli).

Ma non solo. Con fantasia, raccontando per metafore, spinte da esigenze espressive ma anche dalla necessità di sviare la censura, giovani scrittrici iraniane raccontano tra le righe il cambiamento sotterraneo che la società di Teheran sta vivendo, anche grazie all’impegno delle donne. La studiosa Anna Vanzan ha raccolto le loro voci nel libro Figlie di Shahrazad. Scrittrici iraniane dal XIX secolo a oggi (Bruno Mondadori). E ancora. Dal Medio Oriente all’emergenze dell’Africa, Benito Li Vigni, esperto di geopolitica nel libro I predatori dell’oro nero e della finanza globale (Baldini Castoldi Dalai), indaga a tutto campo sui legami tra «mondo del petrolio» e potere politico-finanziario, inquadrando le verità nascoste che riguardano il futuro dei giacimenti, le guerre, le tensioni geopolitiche e l’uso dell’«arma petrolifera» da parte dei maggiori produttori, primo fra tutti la Russia. «Lungo una sorta di cintura che lega il Sud del mondo, passando dall’Iraq al Sudan e alla Nigeria, per arrivare in Venezuela e Colombia scrive Li Vigni – gli “imperi del profitto” si scontrano e si alleano. La fame di petrolio spinge a mutamenti epocali negli assetti politici internazionali, basti pensare alla silenziosa colonizzazione cinese dell’Africa e a un evento impensabile come l’affacciarsi della flotta militare di Pechino nel Mediterraneo». Uno scenario instabile nel quale si affaccia la «svolta verde» di Barack Obama e la sua politica estera fin qui moderata.

E ancora a chi voglia viaggiare con cognizione in terra d’Africa suggeriamo I signori della sete (Piemme) di Sergio Grea che offre – in chiave di romanzo ma sostanziata da una fitta messe di documenti – un drammatico spaccato delle conseguenze delle guerre per una risorsa primaria come l’acqua. Il libro sarà presentato il 19 luglio a San Marzano Oliveto in provincia di Asti. Last but not least, un libro essenziale per chi quest’estate prendesse le rotte dell’India: parliamo di Quando arrivano le cavallette (Guanda) della scrittrice e coraggiosa reporter Arundhati Roy. Nonostante i passi avanti che ha fatto la più grande democrazia mondiale, sono molte ancora le pagine di ingiustizia. La straordinaria romanziera de Il dio delle piccole cose qui fa cronaca di denuncia documentando azioni di apparati dello Stato deviati e la corruzione di una magistratura prona agli interessi delle multinazionali.

Per chi sta a casa

«L’amore è un viaggio. Ed è meglio viaggiare che arrivare, come diceva qualcuno». Quel qualcuno era il maestro del romanzo d’avventura Stevenson, quello dell’Isola del tesoro. Ma chi siglava questa nota nel 1918 era uno scrittore di lingua anglosassone, forse ancor più grande: D.H. Lawrence, l’autore scandaloso per quegli anni del romanzo L’amante di Lady Chatterly. Di Lawrence in questi giorni Adelphi fa uscire una interessante raccolta di saggi intitolata Classici americani. Di fatto una serie di folgoranti ritratti, di grande penetrazione psicologica di maestri come Edgar Allan Poe, Nathaniel Hawthorne (l’autore de La lettera scarlatta) e di Herman Melville. Il libro, scritto in prima persona, ha come voce narrante quella di un ragazzino di 11 anni che vede suo padre morire improvvisamente.

Ma volendo continuare a viaggiare con la mente nella grande e contraddittoria terra americana, Adelphi offre anche un altro titolo da non perdere di vista: l’affascinante Zia Mame di Patrick Dennis in cui si racconta la grande mela degli anni Venti ricca di jazz e nuove culture con lo sguardo ancora una volta di un ragazzino rimasto orfano, ma in questo caso affidato a una affascinate zia che non aveva mai voluto sposarsi. E ancora per restare in terra a stelle e strisce, mentre il giovanissimo Todd HasakLowy in Prigionieri (Minimum Fax) traccia un corrosivo ritratto dell’America dei nostri giorni in cui – ipse dixit «tutto è andato completamente a puttane, il governo, le grandi aziende, tutto», esce in rinnovata edizione italiana Uomo invisibile (Einaudi), il romanzo dello scrittore afroamericano Ralph Ellison, che per primo nel 1947 seppe fondere la tradizione orale del Sud con il registro poetico di Dostoevsky per raccontare la storia di un meticcio che ha più di qualche assonanza con quella del presidente Obama, il quale in passato, se non proprio citando Uomo invisibile, ha fatto riferimento ai libri di Ellison.

Un tempo, parlando di superpotenze culturali e non solo politiche, sbirciando da casa il mappamondo e avendo a portata di mano una degna biblioteca, a questo punto, si sarebbe andati a scovare qualche perla di novità letteraria nei territori della ex Urss. Ma letterariamente parlando oggi la temperatura culturale di Mosca sembra essere “non pervenuta”. Come se di dittatura in dittatura, da quella staliniana a quella putiniana, la voce dell’arte fosse stata più che mai tacitata. Mentre le voci critiche dei giornalisti, drammaticamente, vengono azzerate a colpi di pistola. Come la cecena Natalya Estemirova, come Anna Politkovskaya. Alle quali Voland dedica Ragazze della guerra di Susanne Scholl, in uscita nei prossimi mesi.

Nello scacchiere mondiale dell’arte, accanto a nuovi voci emergenti da vaste aree e continenti fin qui ingiustamente considerati periferia del canone occidentale come India, Africa, Caraibi, America Latina, svetta ancora, nonostante la censura, il colosso cinese, che uno scrittore di tradizione alta come Mo Yan ne Le sei rincarnazioni di Ximen Nao (Einaudi) racconta con accenti epici e sottile ironia nel passaggio lungo mezzo secolo che va dalla riforma agraria, alla rivoluzione culturale di Mao, fino agli esiti più recenti, di un’economia liberista e macchiata di sangue. Più giovane, caustico e disposto a raccontare gli ultimi anni della storia cinese al grado zero, Ma Jan, l’autore di folgoranti storie dal Tibet, raccolte in Tira fuori la lingua (Feltrinelli), nel nuovo romanzo Pechino è in coma (Feltrinelli) traccia un poderoso e agghiacciante ritratto di quel che è accaduto nel Paese di Mao a partire dal quel fatidico 4 giugno 1989 in cui la migliore gioventù cinese morì n piazza Tienanmen.

Dovunque andiate

«Nonostante l’epoca sia così nera, così difficile, piena di teologi, di ladroni, la poesia non ha perduto il suo valore, la sua efficacia, l’unica cosa che rimane ancora che possa trasformare il mondo, almeno allusivamente – un ultimo miracolo che ci resta – è forse la poesia; anche per questo suo dono di avere gli occhi divaricati, di poter abbracciare diverse cose insieme… ». Così, ricordando queste parole forti che Angelo Maria Ripellino affidò al suo Splendido violino verde (Einaudi), dovunque andiate o non andiate, ci sono dei libri che non deludono mai: sono le raccolte di versi.E fra i tanti classici a cui si può ricorrere per trovare buona linfa, ne segnaliamo anche uno uscito in questi mesi. è Ecco il mio nome (Donzelli) del poeta siriano Adonis. Un libro di versi dedicato al Medio Oriente dove l’autore è nato, ma anche ai sentieri incrociati di New York e di Parigi, dove ha scelto di vivere. A far da filo rosso della raccolta i temi che Adonis esplora poeticamente da cinquant’anni, il desiderio, il rapporto con la donna, il rifiuto della violenza, a cominciare da quella della religione. «Sono nato anti-ideologo e areligioso, perché temo molto tutti coloro che hanno la risposta a ogni domanda», spiega Adonis in una recente intervista.«Il monoteismo è la fonte dei nostri problemi e delle guerre che hanno sempre insanguinato il Mediterraneo; questo posso dirlo certamente come conoscitore dell’islam. Ma lascio a voi la critica del giudaismo e del cristianesimo, gli altri due grandi monoteismi». Nei suoi versi Adonis configura una sua laica antropologia. Con parole risonanti, sfaccettate, dense di significati. Lontane da ogni astrattezza filosofica. «Io vedo l’uomo come essere capace di amore e come creatura anti violenta. Credo davvero che l’uomo possa essere al sommo della creazione, intesa non in senso religioso, ma naturalistico».

dal quotidiano Terra, 18 luglio 2009

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Con le armi della creatività

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 29, 2008

Da Saramago a Marquez, da Abramovic a Quédraogo. Scrittori, artisti, registi e videomaker insieme per i diritti umani di Simona Maggiorelli

abramovic

Qualche anno fa il filosofo Domenico Losurdo, a proposito di diritti umani, invitava a tornare a riflettere sul nazismo e sulla sua  distruzione sistematica del concetto universale di uomo. Riflessione essenziale anche perché le radici di quel tipo di pensiero nazista, non ancora del tutto lette e interpretate, restano subdolamente ancora attive. In forme più o meno mascherate. Magari nascoste sotto una evangelica battaglia a stelle e strisce contro il terrorismo. Come quella in cui si sono cimentate due generazioni di presidenti Bush e che ancora vede decine di internati nel carcere di Guantanamo, senza diritti, torturati e condannati in base a confessioni estorte con la violenza. In un micidiale combinato disposto di violenza fisica e psichica. Di fronte a tutto questo, le giustissime battaglie in difesa dei diritti umani troppo spesso non bastano, sembrano non incidere. Per questo, con le armi non convenzionali del cinema, della letteratura, delle arti figurative, artisti da ogni parte del mondo in Storie di diritti umani (Electa in collaborazione con l’Alto commissariato per i diritti umani) invitano ad approfondire la riflessione, ad andare avanti nel cercare un modo di parlare di diritti umani che sia potente e incontrovertibile. Garcia Marquez, Kaled Hosseini, Josè Saramago, Assia Djebar, Toni Morrison, Mo Yan a molte altre voci autorevoli della scena letteraria internazionale in questo volume che racconta un’opera filmica a più mani, intrecciano il proprio sguardo con quello di registi e performer come il maestro del cinema Idrissa Quédraogo e l’artista Marina Abramovic che da sempre nel proprio lavoro denunciano, con un’urgenza poetica fortissima, il dramma dei diritti umani violati. In Africa, nella ex Jugoslavia, in Cina, in Thailandia e in moltissimi altri Paesi; compresi gli Stati Uniti. Perché, come emerge in questo libro a più voci, non basta l’affermazione di un generico diritto alla felicità, basato sulla rivendicazione dei diritti naturali come quello che si legge nella Dichiarazione di indipendenza americana del 4 luglio 1776. Affermazione generica e, oltretutto, quanto mai ipocrita se si pensa al genocidio degli indiani ma anche alle stragi di civili che gli Usa hanno fatto in Iraq con armi proibite dai trattati internazionali. Ma forse – come è stato notato da altri – anche la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui si sono da poco celebrati i sessant’anni, pur facendo affermazioni importantissime, manca del tutto di una riflessione su quella identità umana, più profonda, su cui si basa ogni diritto umano, e che permetterebbe di respingere le tesi confuse e religiose di chi parla di diritto naturale o di astratta sacralità della vita. creatMa c’è anche un’altra considerazione da fare. La suggerisce la stessa Abramovic in alcune sue brucianti opere dedicate alla memoria del genocidio nella ex Jugoslavia (ora raccolte in una monografia edita da Phaidon), ma anche in questo suo nuovo video dedicato ai bambini del Laos: la battaglia per i diritti umani non può fermarsi solo alla denuncia e al rifiuto della violenza fisica e della distruttività tangibile della guerra. Dalle sue performance e dai suoi lavori di videoarte emerge in filigrana anche la rappresentazione di una violenza invisibile, che all’apparenza non sparge sangue, ma che può essere più terribile delle bombe. Il filosofo Losurdo ne accennava, appunto, in quel suo libro Heidegger e l’ideologia della guerra (Bollati Boringhieri) quando parlava di quella modalità heideggeriana di “essere per la morte” che implica l’eliminazione (l’annullamento) dell’altro per la propria sopravvivenza. E se la riflessione razionale dei filosofi arriva fino a un certo punto, quella di alcuni artisti, anche se inconsapevolmente, sembra suggerire di più. Left 52-53/08

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