Educazione siberiana. Urka che bufale
Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 16, 2013
Nelle lontane terre degli Urka, antico popolo siberiano, selvaggio e ribelle, di cui narra Nicolai Lilin nei suoi romanzi. Il regista Gabriele Salvatores si è innamorato del suo Educazione siberiana (Einaudi), tanto da trarne un film in uscita nelle sale il 28 febbraio e di cui si parla già molto.
Un kolossal, girato a parecchi gradi sotto zero, con John Malkovich nel ruolo del carismatico e crudele nonno Kuzja, figura chiave del romanzo di esordio di questo giovane scrittore russo che vive a Milano dopo essere stato guastatore in Cecenia e poi investigatore privato, infiltrato e tatuatore secondo una tradizione che in Transnistria si trasmetteva di generazione in generazione.
A trentadue anni, con un tris di bestseller all’attivo e un libro fresco di stampa, Storie sulla pelle (Einaudi) in cui racconta l’abilità di fare tatuaggi come una sorta di arte maieutica, Lilin è un personaggio piuttosto curioso nel panorama letterario, attento a costruire la propria immagine di “uomo duro delle steppe” pezzo dopo pezzo, dosando interviste e apparizioni in programmi come Le regole del gioco (in onda su Dmax) in cui racconta il mondo dei gladiatori sul ring e dei tiratori scelti.
Una cifra di cruda violenza, codificata secondo ancestrali codici di onore, del resto, caratterizza tutta la narrativa di Lilin e in modo particolare l’infanzia di Kolima il piccolo eroe di Educazione siberiana. Tanto che incontrando Gabriele Salvatores dopo l’anteprima dell’omonimo film non possiamo non chiedergli, incuriositi, che cosa lo abbia convinto a tradurre il romanzo di Lilin sul grande schermo.
«La violenza è quanto di più lontano da me ci possa essere – dice il regista -, ma quando i produttori di Cattleya mi hanno chiesto di leggere questo romanzo mi ha incuriosito il popolo Urka di cui racconta. Mi ricorda i pellerossa d’America che difendevano il loro mondo mentre tutto intorno a loro stava cambiando inesorabilmente. Nonno Kuzja è un po’ come l’ultimo dei Mohicani, lo dicevo sempre a Malkovich sul set. Ma più di tutto – racconta Salvatores – mi interessano le domande che sollevano le storie estreme di questi personaggi: quali regole rispettare? Cosa è giusto e cosa non lo è? Domande che chiamano in causa la nostra visione del mondo».
L’etica in cui Kollima cresce è certamente un’etica criminale. Mentre il suo alter ego Gagarin, non ha nemmeno quella. Ed entrambi si trovano del tutto impreparati a vivere un momento epocale come la fine dell’Urss. «La loro storia mi ha riportato alla mente alcuni racconti di Conrad e di London – dice Salvatores – ma anche certa letteratura russa da Dostoevskij a Tolstoj. In particolare Delitto e castigo». E in effetti il film ha un tono da narrativa ottocentesca: immagini pittoriche si alternano a scene cruente, dando alla narrazione un respiro che vorrebbe essere epico. Il piglio è quello del romanzo di formazione avventuroso e a tratti perfino picaresco. Aspetti che non troviamo nel libro di Lilin. «Mi sono permesso di prendere dal libro quello che più mi piaceva – ammette il regista – Trascurando una certa mitizzazione delle armi che non mi corrispondeva. E forse ho aggiunto qualcosa di mio alla storia dei due personaggi. Kollima e Gagarin, che sono l’uno l’opposto dell’altro. Ma mi ha fatto piacere che Lilin si sia sentito comunque rappresentato dal film. Si è addirittura commosso vedendolo».
Un elemento che è molto forte tanto nel romanzo quanto nel film è, invece, la presenza viva della natura, fortissima e ostile. «I personaggi hanno un rapporto quasi panteistico con la natura- commenta Salvatores-. Ma la natura è crudele, non ha pensiero, non ha regole se non quella della continuazione della specie. Per questo tipo di comunità, invece, ogni cosa è derivata dall’ambiente e ho cercato di raccontarlo. Anche se personalmente rifiuto la giustizia sommaria che mutuano dalle leggi naturali. Se un mio amico avesse violentato una ragazza come fa Gagarin io non vorrei più vederlo, non lo frequenterei più, ma non credo arriverei ad ammazzarlo. Detto questo, il film non è un documentario sugli Urka, non vuole essere un’indagine sociologica o antropologica. Né mi interessa, al fondo, sapere se le cose che Lilin racconta come vissute in prima persona gli siano state solo riferite. Credo che il suo romanzo nasca da un misto di invenzione e autobiografia. Per quel che mi riguarda volevo girare una storia di formazione in un mondo lontano dal nostro, reso più affascinante proprio dalla lontananza».
E a questo patto “letterario” si lega il pubblico che per godersi il film non ha bisogno di passare la storia al vaglio della verità. «Per essere esistiti, gli Urka sono esistiti davvero- precisa Salvatores – erano tribù di guerrieri e cacciatori liberi, un po’ come i cosacchi che furono usati come truppe speciali. Gli Urka si rifiutarono sempre di essere assoldati; non accettavano il potere, né quello zarista né quello comunista. Parliamo di una cultura che probabilmente si è estinta, anche questo mi piaceva l’idea di riscoprirla». Spietati con i trafficanti di droga e i traditori, orgogliosi di essere diversi e lontani dalla mafia russia, fin dalla prima scena del film gli Urka vengono presentati con un ossimoro, come «onesti criminali».
Da parte sua, a scanso di equivoci, rivendicandoli come propri avi, nelle interviste Lilin non perde occasione per dire che gli Urka non erano una mafia. «Certo non una mafia come quella russa o italiana di oggi – commenta Salvatores – ma simile alla mafia dell’Ottocento, con un codice d’onore, un’appartenenza a una setta a una famiglia, a un clan, non a caso tornano sempre questi termini». E a chi, come lo scrittore russo Zachar Prilepin, accusa Lilin di essersi inventato tutto di sana pianta, creando un immaginario ad uso e consumo dell’Occidente e dei “brividi delle signore”, Salvatores commenta sorridendo «Probabilmente la realtà delle cose in Transnistria, dove è ambientato il romanzo e dove Lilin dice di aver vissuto fino all’età di 18 anni, è diversa. Ma la forza dell’arte russa è sempre stata quella di basarsi su cose reali, procedendo per metafore. Perciò il realismo magico di Chagall ci incanta». (Simona Maggiorelli)
dal settimanale lft-avvenimenti
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