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L’Italia dei nuovi talenti

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 4, 2010

Franco Purini Eurosky

I giovani talenti in Italia ci sono. Ma mancano committenti pubblici e privita disposti a investire sull’innovazione. Parola del preside della Facoltà di architettura Valle Giulia, l’architetto Franco Purini

di Simona Maggiorelli

Professor Franco Purini, i giovani talenti, in Italia, riescono a emergere?
La situazione dei giovani architetti italiani è piuttosto difficile in Italia, anche se la loro preparazione ha ben poco da invidiare a quelle dei loro coetanei europei e americani. Soprattutto per tre motivi. Il primo è il grande numero (quasi 150mila architetti iscritti agli ordini professionali). In secondo luogo le istituzioni italiane, dal dopoguerra a oggi, non hanno dimostrato reale interesse per l’architettura. Il terzo punto è la scarsa propensione della committenza pubblica e privata per la sperimentazione. Nonostante ciò ci sono alcune possibilità, per quanto esigue e interstiziali, che consentono a architetti aperti e intraprendenti di dare vita a opere significative. Solo per fare un  esempio: il volume che Casabella pubblica sulle ultime generazioni presenta molte architetture di ottima qualità. Va detto però, evocando Brecht, che non è un buon Paese quello che chiede ai suoi giovani architetti di essere eroi.

Le nuove tecnologie incoraggiano un avvicinamento della progettazione alle arti visive?
In generale oggi l’architettura sta cercando una identificazione con l’arte. Ma gli ambiti e i fini non coincidono. Il risultato è il confluire negativo della prima nell’area dell’industrial design. Così l’architettura perde la sua memoria, dimentica il suo impegno a esprimere la durata. D’altro canto però l’architettura è un’arte essa stessa, e dovrebbe mostrarsi come tale nella sua specificità, che è fatta di spazi abitabili; un’arte nella quale i materiali costruttivi e le relazioni con il contesto sono fondativi. Le arti visive non c’entrano molto con questa sfera di contenuti.

Che ruolo ha oggi l’architettura italiana nel quadro mondiale?
Nonostante ciò che dicevo all’inizio, ha ancora un ruolo importante: la propensione alla teoria, l’attenzione al rapporto tra architettura e città, un sapere avanzato sul restauro, un sicuro senso della misura (è il segno principale del Made in Italy) che pone gli architetti italiani al riparo dagli eccessi dimensionali e formali, fanno sì che la nostra cultura progettuale occupi una posizione migliore di quanto farebbero pensare le difficoltà attuali.

Fuori dal “pensiero unico” delle archistar vede proposte  nuove e stimolanti?
Il modello mediatico delle cosiddette archistar mi è estraneo. E non credo al loro primato nel determinare la ricerca oggi nel mondo. Come Mario Perniola (nel libro Contro la comunicazione, Einaudi) sono convinto che le architetture migliori siano ideate oggi da chi opera in ambiti più appartati e autonomi, fuori dalle pressioni della “società dello spettacolo”. In questo senso ritengo che architetti come Clorindo Testa, Henri Ciriani, Max Dudler, Claudio D’Amato, Antonio Monestiroli, per limitarmi solo a pochi nomi, rappresentino nelle loro diversità un’alternativa più che credibile al frastuono performativo, propagandistico ed effimero della quasi totalità dell’architettura contemporanea.

dal left-avvenimenti 15 ottobre 2010

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La proposta. Un cantiere delle idee

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 4, 2010

di Simona Maggiorelli

Palazzetto bianco di Massimo Fagioli

Quali scenari per l’architettura del XXI secolo? Quali obiettivi per una ricerca non appiattita? Quali possibilità per nuovi talenti di emergere in questa  penisola in cui ogni Comune, piccolo o grande che sia, pretende il ritorno d’immagine massmediatico che dà l’ingaggio delle solite archistar? E, soprattutto, quale nuovo rapporto con la politica di sinistra per fare fronte ai danni prodotti dai condoni, dall’emergenza, dalla deregulation che – come denunciano gli urbanisti Paolo Berdini e Vezio De Lucia  – sta facendo morire il Belpaese sotto una coltre di cemento? Sono alcune delle domande che questa settimana abbiamo rivolto a eminenti “addetti ai lavori”, alcuni dei quali proprio di questi temi hanno discusso il 15 e il 16 ottobre 2010 all’auditorium Pirelli HQ, in occasione del convegno Idee italiane, un osservatorio sulla cultura del Paese organizzato dalla Fondazione per l’Istituto italiano di scienze umane.

Una tavola rotonda multidisciplinare (fra i relatori figurano Stefano Rodotà, Marc Fumaroli, Vittorio Gregotti, Franco Purini Joseph Rykwert e molti altri) da cui abbiamo preso spunto per lanciare un nostro dibattito e accendere l’attenzione su un’architettura alternativa che in Italia c’è già: fuori dal clamore da archistar, avendo il coraggio di innovare in maniera alta, creativa. Perché se come dice la direttrice della Biennale di Venezia 2010, Kazuyo Sejima «L’architetto del nuovo millennio deve sapere inventare spazi reali per l’incontro e l’emozione» poi bisogna saper passare dalle parole ai fatti.

da left-avvenimenti  15 ottobre 2010

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Il sogno dell’opera totale

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 3, 2010

Da Wagner a Kandinsky, fino alle opere multimediali. Il ricco sviluppo del rapporto fra suono e immagine raccontato da chi,  come l’architetto Franco Purini, per comporre usa mattoni e cemento di Simona Maggiorelli

Kandinsky, il sogno dell'opera totale

Un tema affascinante, impegnativo, il rapporto fra immagine e suono, è al centro, il 30 maggio 2008 di un convegno all’università la Sapienza di Roma. Con artisti, storici dell’arte, filosofi, sinologi, musicisti e musicologi a confronto. Tra i relatori anche l’architetto Franco Purini, che, anni fa, per Laterza ha pubblicato un libro dal titolo significativo: Comporre l’architettura. «La parola composizione – spiega Purini – viene all’architettura dalla pittura, ma anche dalla musica. Architettura e musica condividono questo termine che significa mettere insieme, creare un’armonia profonda».
Professor Purini , dietro c’è l’idea dell’opera totale, come fusione di più linguaggi. Wagner immaginava di poter risemantizzare la tragedia classica che aveva il coro. Quest’idea poi ha avuto molti sviluppi, che lettura ne dà?
Senza dubbio si parte da lì ed è un tema che attraversa i secoli. Centrale è la questione del ritmo. Ogni composizione è dotata di un suo ritmo interno. La poesia, la metrica ma non solo. Quasi tutte le arti incorporano un versante musicale. Specie la pittura moderna. Basta pensare a Kandinsky o a Klee. C’è chi dice che quelle di Klee siano composizioni musicali tradotte in pittura.Ciò che conta nel ritmo sono anche le sue contrazioni, le proporzioni fra le varie parti della tela, i rapporti cromatici. A loro volta capaci di evocare le stesse relazioni, qualitative e quantitative, che esistono fra le note. Non a caso definiamo un certo tipo di pittura tonale, che parliamo di pittura timbrica, per spiegare questa qualità “visiva” del suono .
Tra il 1908 e il 1914 Kandinsky fece esperimenti interessanti in questo senso. Con Suono giallo tentò una ricerca sul preverbale e di rappresentare l’invisibile. Che cosa ne pensa?

Kandinsky cercava di esplorare quel quid di immaterialità e di indicibile che c’è anche nella musica. Si pensa che la musica sia la forma più immateriale di esperienza. Di fatto il suono è un fenomeno fisico, ma noi lo recepiamo mentalmente ed emotivamente come se fosse una sorta di apparizione dell’invisibile del mondo.
Il problema però Kandinsky si perdeva in un discorso spiritualistico.
Spiritualistico ma anche esoterico. Collegato a una mistica dei rapporti, fatta di segrete armonie per pochi iniziati, dopo un periodo di preparazione. Anche l’architettura è stata percorsa da una corrente spiritualistca. Specie quella antica. Per Palladio le proporzioni di un ambiente sono legate da rapporti numerici, come accade le note musicali. Questa tendenza spiritualista c’è stata anche nel razionalismo moderno. Per esempio, in Le Corbusier, con il suo gusto per la divina proporzione.
E nell’ambiente del razionalismo italiano?
In Figini e Pollini, per esempio, la componente spiritualistica è stata determinante. Basta dire che si facevano costruire delle squadrette particolari i cui lati erano in proporzioni armoniche. Con cui disegnavano già con i rapporti giusti per raggiungere una certa espressione matematico musicale.
Così le costruzioni non rischiavano di diventare completamente astratte?
Questo è un prezzo che si paga volentieri. È un messaggio che si costruisce non pensando alla massa degli utenti. I più possono non avvertire la presenza di queste proporzioni, ma qualcuno le afferra.
Quali architet si sono addentrati di più in questa ricerca fra musica e architettura?
Un’altra figura importante è Luigi Moretti, nella sua rivista Spazio, affronta il tema del proporzionamento delle membrature proprio in termini di architettura musicale. Per il rapporto fra musica e scenografia, Adolph Appia, che esegue una serie di progetti detti spazi ritmici, cercando di tradurre le armonie musicali del compositore Jacques Dalcroze. Alla fine sono pochi quelli che poi non entrano in questo territorio. Vi rientra anche la musica modulare, iterativa. Quella di Philip Glass, per esempio, è una musica sostanzialmente architettonica, contiene tutte le procedure che vengono usate quando si fa un progetto: presuppone la variazione, il contrasto…
Passaggi sonori, sound design, soundscape, sono molto di moda. Ma spesso le installazioni assomigliano a “giardini new age”. Un uso solo estetizzante?
Questi sconfinamenti esistono. Ma certa sperimentazione fra musica architettura mette in risalto un altro interessante tratto comune: la temporalità. Io posso mettermi davanti a un quadro e coglierlo subito nella sua pienezza. Anche se poi ho bisogno di un certo tempo per capirlo. L’architettura, invece, è processionale, devo entrarci dentro, ci devo camminare. Analogamente mi comporto quando ascolto un brano musicale che ha un inizio, uno svolgimento e una conclusione. Faccio un’esperienza in un certo tempo. Anche la letteratura è un’arte temporale.
È un tempo interiore, fatto di emozioni, che ci può apparire straordinariamente più rapido o dilatato rispetto allo scorrere effettivo delle ore.
Al di là di quello che succede in questo tempo, la durata. è di per sé un valore. Per l’architettura è fondamentale. Direi che l’architettura è, in certo senso, uno strumento musicale. Quando cammino in un appartamento o in una Chiesa paleocristiana, il ritmo del passo fa suonare come una cassa armonica.
Stave Lacy, nelle sue performance itineranti, alla Fondazione Mirò come nella chiesa sconsacrata di San Leo guidava il pubblico a vivere e sentire lo Spazio attraverso la musica. Un’esperienza sensoriale ed emotiva.
Nell’architettura c’è anche una dimensione molto corporea. È un’arte che si costruisce nella pienezza dei materiali. Tonnellate di cemento armato di mattoni. Che, però devono riuscire a perdere pesantezza. Nella scultura, invece, è pura forma, la materialità non conta.
Anche in architettura l’immagine deve avere una forma, un contenuto. Per così dire un movimento?
L’architettura è un’arte che incorpora le ragioni per cui la si fa. Incorpora un difetto. Una musica non ha una finalità pratica. Va ascoltata, deve dare emozioni, conoscenze. In una casa, invece, non ci deve piovere. Noi siamo artisti, ma dopo aver assolto a compiti pratici. Non siamo scultori o musicisti, né poeti o pittori. Dobbiamo risolvere problemi molto concreti. Poi possiamo anche fare gli artisti.
Qual è la fase più creativa del suo lavoro?
In realtà comporre architettura significa trovare un modo musicale di disporre le masse. Riguarda lo spazio. Come uno spazio possa essere musicale. Oltre il discorso delle proporzioni di cui parlavamo, c’è questa dimensione più profonda del costruire. In questa armonia invisibile, appunto, misteriosa che troviamo nel rapporto con la musica.
Da qui è partito per fare le scenografie per uno spettacolo sui sonetti di Michelangelo musicati da Shostakovic?
Per lo spettacolo diretto da Beppe Menegatti al Teatro dell’Opera sono partito dal disegno di una parete che si inclina. Nel suo andamento sinuoso, vuole evocare l’irrompere di onde sonore nello spazio. Anche in questo caso si è cercato di trovare un risultato interessante, armonico.
E quando la musica è dissonante, come accade nella contemporanea?
Può essere un ordine armonico o disarmonico, ma è sempre un ordine. Sempre di comporre, si tratta.

Da “LEFT avvenimenti” n° 22 del 30 maggio 2008

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