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Nadia Fusini: Shakespeare inventò una nuova lingua

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 26, 2010

Nelle sue tragedie e ancor più nelle commedie Shakespeare ribaltò con ironia l’immagine femminile angelicata. «Non più figura inerte ma soggetto attivo del proprio desiderio». A colloquio con Nadia Fusini,  studiosa e traduttrice del grande bardo

di Simona Maggiorelli

Macbeth di Shakespeare, dipinto da Sargent

Professoressa Fusini, il genio  Shakespeare nasce anche da un cambio di orizzonti culturali?
Il momento shakespeariano fu una congiuntura straordinaria e complessa: di crisi politica (la regina Elisabetta moriva senza eredi) ma al contempo di apertura di orizzonti legata ai viaggi transoceanici e a “scoperte” di nuove terre. Alla fine del Cinquecento Londra era una metropoli, con mille razze e mille lingue. Un clima elettrizzante. In quella koiné Shakespeare inventò una lingua estremamente mobile, varia, espressiva. Fu un periodo pieno di vitalità e insieme di ansie, di paure di qualcosa di apocalittico, mentre il nuovo stava emergendo.

La teologia, lei scrive, non era più vista come la scienza dominante nell’Inghilterra protestante di William Shakespeare.
C’è un nuovo sapere che si afferma, un sapere dell’uomo. La domanda che più volte torna in Shakespeare è proprio: che cos’è l’uomo? Si comincia a non cercare più la risposta nella teologia cristiana. C’è un nuovo sguardo. S’intuisce che bisogna scoprire l’umano nel rapporto con la natura e nelle relazioni con gli altri esseri umani. Anche gli studi di medicina contribuirono a riportare la “creatura” a terra.

Shakespeare filosofo? Come scrive Colin McGinn in un libro uscito due anni fa per Fazi?
Shakespeare non è un filosofo. Semmai è un poeta filosofo, comediceva T.S.Eliot, perché è uno che lavora con la lingua, che crea immagini. e attraverso le immagini che inventa passano emozioni, passano pensieri. Shakespeare pensa per immagini.

Conobbe il pensiero di Giordano Bruno che fu Oltremanica dal 1582 al 1585?
Un contatto indiretto ci fu. Shakespeare della sua epoca coglie le idee più vive, fa parte di circoli di persone che discutono nuove ipotesi. Shakespeare non incontrò personalmente Giordano Bruno ma incontrò certi suoi pensieri. E, per quanto fossero diversi anche nella scrittura, lo stesso Bruno per far passare ciò che pensa usa una lingua drammatica.

Come per Bruno, per Shakespeare l’immaginazione è positiva, non una maligna fantasia come invece dicevano invece Hobbes e Spinoza?
Assolutamente sì. Shakespeare sta dal lato bruniano della questione. Al contempo Shakespeare drammatizza la polisemia della parola, che vuol dire anche fiction e finzione. Allora che cos’è la verità? Domande così percorrono e dinamizzano tutti i suoi testi.

La Tempesta di Shakespeare, Miranda

«Dagli occhi delle donne lui impara»,fa dire Shakespeare a un suo personaggio. Le donne sono rappresentate in modo nuovo nelle sue opere?
Shakespeare stigmatizzava con ironia il Dolce Stil Novo. Lasciandosi alle spalle l’idea poetica di una donna “sovrana” da corteggiare ma che il cavaliere non conquisterà mai. Anche in Romeo e Giuletta, per citare la tragedia più romantica, c’è comunque un personaggio come Mercuzio che, a suo modo, prende in giro l’immagine angelicata della donna.

Del resto Shakespeare è anche l’autore de La bisbetica domata, dove Caterina si ribella all’idea della donna obbediente e silenziosa. Come lei stessa ha scritto nel libro I volti dell’amore...
Qui l’idea dell’amore angelicato viene addirittura ribaltata. Io penso che la ricchezza di Shakespeare stia proprio nel mostrare molti punti di vista e, riguardo ai personaggi femminili, molti tipi di donne. Soprattutto nelle commedie sono ragazze molto sveglie e che sanno come conquistare l’amore. In Tutto è bene quel che finisce bene, per esempio, c’è un’ eroina, Elena, che parte per andare a cercare l’uomo che ama e che l’ha rifiutata per banali motivi di classe. E lei riesce a “conquistarlo”. La donna non è più figura inerte, qui è soggetto attivo del proprio desiderio. Ofelia, certo non è così. Ma Shakespeare sa rappresentarla nel momento in cui sboccia; è una bellissima immagine, però, come accennavo, non si iscrive nel Dolce Stil Novo. Anche il fatto che lei impazzisca a causa della freddezza di Amleto rende ancora più drammatica questa figura di fanciulla che si trova vittima di una trama psicologica e politica che la supera. Ma pensi anche a una figura come Cordelia di  Re Lear, è un personaggio femminile che dice quello che pensa, che va alla corte di Francia per difendere il padre. Non possiamo dimenticare un fatto storico, ovvero che fino al 1603 Shakespeare vive in un Paese in cui sul trono c’è una donna. Vive in una cultura misogina ma concretamente c’è comunque Elisabetta, una donna, al comando. Insomma una figura che, per quanto regale, faceva pensare che la donna non fosse necessariamente il sesso debole.

Da ultimo, una domanda a Nadia Fusini traduttrice. Quanto si perde leggendo Shakespeare in italiano?
è il grande sconforto di chi come me prova a tradurre. Io so bene che la lingua in cui trasporto Shakespeare non è assolutamente all’altezza. Non è per fare una boutade ma non è un caso che Shakespeare non sia nato in Italia. L’italiano è una lingua che non credo avrebbe mai potuto partorire un autore come lui. L’italiano è una lingua diversa e non consente quelle arditezze, quelle acrobazie straordinarie. L’inglese di Shakespeare è una lingua molto concreta, onomatopeica, una lingua di suoni aspri, gutturali, è molto difficile tradurla nella nostra lingua, qualcosa necessariamente si perde.

Ma forse nemmeno l’inglese di oggi, molto standardizzato, sarebbe adatto a renderne l’espressività?
L’inglese di oggi è molto più facile da tradurre, perché è molto più povero. L’inglese di Shakespeare ha un vocabolario molto ma molto grande. Attinge da un lato alle radici latine, dall’altra alle radici sassoni, c’è una ricchezza originalissima.

da left-avvenimenti

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Il collezionista di bambine

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 19, 2010

Passato alla storia come libro per l’infanzia, Alice nel paese delle meraviglie era in realtà l’esca con cui il reverendo Dodgson – alias Lewis Carroll – adescava le sue vittime. Lo racconta in un libro la scrittrice e avvocato siciliana che da anni si occupa della difesa di minori

di Simona Maggiorelli

Lewis Carroll Alice Liddell

«Caro Signore, mi è balenato, dopo che ci siamo separati in strada ieri sera, che forse lei è il proprietario di una certa “Ruth Mayhew” che Mrs Arnold e altri amici mi hanno detto che dovrei fotografare. Se così fosse la giornata è di una bellezza così inconsueta che mi arrischio a proporre che lei o Mrs Mayhew la portino qui. Mi capita di avere del tempo libero e sarò in casa alle 2 e un quarto o alle 3, ma più vicini al mezzodì, migliore la luce…». Così il reverendo Charles Lutwidge Dodgson – più noto con lo pseudonimo Lewis Carroll – scriveva in una lettera inviata il 29 novembre del 1878 da Christ Church (il collegio maschile di Oxford dove insegnava matematica) al padre di una bambina che avrebbe voluto come modella. In altre missive chiedeva a genitori compiacenti di poter «prendere in prestito» le loro figlie per portarle nel piccolo mondo a parte del suo laboratorio di fotografia.

Uno studio che si era fatto costruire ad hoc a latere della sua abitazione e che, agli occhi delle piccole ospiti, doveva sembrare una wunderkammer, una camera delle meraviglie zeppa com’era di giocattoli, di bambole semoventi e di bauli di costumi di scena. Qui l’autore di Alice delle meraviglie metteva in atto tutte le sue strategie per arrivare a poter fotografare le bimbe nude in pose da adulte oppure vestite da reginetta, piccola geisha, damina o in altri abiti esotici. Ogni volta promettendo, da uomo a uomo, al pater familias di non andare oltre i limiti pattuiti. Una contrattazione che il reverendo Dodgson faceva per posta con un linguaggio freddamente razionale, mettendo i nomi delle bambine fra virgolette, quasi quei segni grafici fossero asettici guanti bianchi per afferrarle. Poi lo scrittore avrebbe pensato a ricompensare le madri regalando alle figlie copie rare e autografate della sua Alice nel paese delle meraviglie, da ostentare in società.

Fin qui la parte di verità che si può ricostruire attraverso i diari di Dodgson-Carroll e i rari documenti sopravvissuti alla censura operata dal nipote dello scrittore inglese che, alla sua morte nel 1898, si premurò di cestinare le testimonianze più scabrose. Oltre la superficie della storia documentabile di recente si è avventurata, con sensibilità, la scrittrice Simonetta Agnello Hornby, dedicando all’attività di fotografo di Lewis Carroll il libro Camera oscura, pubblicato dall’editore d’arte Skira. Un romanzo breve quanto folgorante nel ricostruire l’uso e l’abuso che si faceva delle bambine nella società vittoriana, puritana e sessuofoba, dove a 13 anni si poteva essere date in sposa a uomini maturi. Ma anche un libro che si segnala per il preciso e inquietante ritratto psicologico del padre di Alice. Che dopo una giovinezza da esteta con brame di scalata sociale, alla morte del padre, tornò all’ordine seguendone le orme, nonostante fra i due ci fosse stato un rapporto difficilissimo.Così il balbuziente reverendo Dodgson, appartato e serissimo a scuola, viveva una doppia vita, frequentando recite per bambini e altri luoghi dove poter incontrare nuove «amichette». Le disillusioni della vita, le amarezze, le incomprensioni che lo avevano spinto a isolarsi quasi completamente diventavano «delizie» quando Carroll poteva puntare il suo obiettivo su un’Alice in carne e ossa, fissando sulla carta fotografica quelli che lui definiva «indicibili momenti trascorsi in amabile intimità». Già il fotografo e studioso d’arte, Brassaï, in un saggio del 1970 aveva raccontato che il reverendo Dodgson era capace di «infiniti maneggi per impadronirsi di una ragazzina. Le spiava nelle strade, nei giardini pubblici, in treno, nelle gare di tiro con l’arco, nelle feste massoniche e, soprattutto, nei teatri londinesi per bambini». «Ligio al suo clan – aggiungeva Brassaï – le sceglieva di preferenza tra le figlie dei suoi “colleghi” a Oxford… quel timido professore di matematica osava le più incredibili audacie per conquistare una nuova ninfetta, sollecitava gli amici per farsi introdurre nella sua famiglia, era capace di ogni sorta di stratagemmi». La sua esca più riuscita, come si accennava, era proprio quel romanzo che nella storia della letteratura non solo inglese è entrato come libro per l’infanzia. E mentre in Inghilterra in contemporanea con l’Alice cinematografica di Tim Burton è uscita la biografia apologetica In the Shadow of the dreamchild di Karoline Leach (tradotta in italiano da Castelvecchi) in cui si sostiene che «Carroll era una persona normale con normalissimi gusti sessuali, socievole e interessato al teatro», sulla strada aperta da Gianna Sarra con il romanzo Il collezionista e la farfalla (Nutrimenti, 2006), Simonetta Agnello Hornby ha il coraggio di affrontare, attraverso il registro della finzione narrativa, la terribile violenza psicologica che Carroll esercitava sulle bambine che finivano nella sua trappola coperta da fini artistici.

Così, in questo ficcante libricino fornito di apparato fotografico e di un’importante sezione di documenti, la scrittrice siciliana che da trent’anni lavora a Londra come avvocato difendendo minori fa precipitare il lettore nella mente malata del reverendo Dodgson, mostrandone, pagina dopo pagina, la fredda lucidità nell’adescare sempre nuove «bambine-amiche», incurante della distruzione che provocava in loro. Usando magistralmente gli strumenti della narrazione per essere il più fedele possibile alla psicologia del suo personaggio, colta per intuizione. Poi rientrando nei panni usuali della donna di legge nell’appendice biografica del libro Agnello Hornby si chiede: Chi era il vero Charles Dodgson? «Come il padre ecclesiastico – ricostruisce la scrittrice a margine del romanzo – Dodgson junior perdeva il senso dell’umorismo dinanzi a innocue allusioni sulla Bibbia». L’inventore di Alice nel paese delle meraviglie era un bigotto, che faceva molta elemosina agli orfanotrofi (sic!), un uomo – aggiunge – che benché dichiarasse al figlioccio di essere un uomo appagato e felice, nei diari rivela un animo mangiato dai sensi di colpa e un corpo esaurito dalle notti insonni, in cui non riusciva a frenare pensieri ossessivi. Insomma – conclude Agnello Hornby- Charles Dodgson – Lewis Carroll era quello che si dice un vero dr Jekyll e mr Hyde».

Intervista a Agnello Hornby: «pedofilia, un crimine inaccettabile»

Da trent’anni come avvocato, la scrittrice siciliana Agnello Hornby è un questi giorni in Italia per partecipare al Festival del diritto di Piacenza e per presentare il suo nuovo romanzo La monaca (in uscita il 29 settembre per Feltrinelli), «un libro – racconta a left – in cui avrei voluto tracciare due storie parallele: su una ragazza islamica costretta al matrimonio e su una ragazza  europea, in particolare siciliana, costretta allo stesso passo. Poi però questa seconda vicenda mi ha preso la mano. La Monaca, potremmo dire, è un libro nato… da un mio errore.
E La camera oscura, come è nato?
Da un lunghissimo lavoro di studio e di ricerca su documenti originali. Benché sia un romanzo breve, mi ha richiesto molto impegno. Tutte le parole che Dodgson-Carroll pronuncia nel libro sono sue, ovvero, sono tratte dai suoi scritti.
Come si spiega la compiacenza dei genitori che in una società vittoriana e puritana, gli affidavano le figlie?
Purtroppo c’era una connivenza, cosciente o meno. Ed ha molte risonanze nel presente. Pensiamo a come è stato coperto lo scandalo pedofilia nella Chiesa. Ma anche al fatto che in un Paese come l’Inghilterra quasi ogni scuola privata registra casi di pedofilia. Da avvocato ho potuto constatare quale distruzione provochi questo crimine su un bambino. Perdipiù l’adulto violenta approfittando di una posizione di potere e di fiducia. E i pedofili vanno proprio a cercare di infilarsi in quelle istituzioni dove sanno che troveranno dei minori. è davvero perverso.

da left-avvenimenti del 4 settembre 2010

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Vargas Llosa, un Nobel al Sudamerica liberale

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 9, 2010

di Simona Maggiorelli

 

Mario Vargas Llosa

 

Nel Sudamerica la letteratura è una presenza concreta nella società, un elemento di stimolo alla riflessione pubblica. Da noi il mito della letteratura è molto importante nella vita pubblica e privata. E mi colpisce che qui da voi, invece, la cultura sia scaduta a livello di intrattenimento. C’è una deriva frivola, preoccupante”: così lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa raccontava della sua idea alta di letteratura a margine del Festival Anteprime, in Versilia, dove pochi mesi fa è stato chiamato per parlare del nuovo libro Il sogno del Celta che uscirà a novembre per Einaudi ( che sta ripubblicando tutta la sua opera, e che racconta la storia del diplomatico britannico David Casement che fu amico di dello scrittore Joseph Conrad.

Scrittore raffinato che ha cercato una propria strada fuori dal solco già tracciato del realismo magico sudamericano, giornalista e polemista, capace di interventi spiazzanti e scomodi, sperimentatore di generi assai diversi – dal noir al teatro, dal romanzo storico al cinema- Mario Vargas Llosa (classe 1936) fin dai suoi primi romanzi ha rivelato una vena di impegno civile nella lotta contro il totalirismo e la violenza, suscitando non di rado reazioni forti. Tanto che La città e i cani, fu bruciato sulla pubblica piazza in Perù. Proseguendo per la propria strada senza lasciarsi intimorire, il liberale Vargas Llosa mise la denuncia dell’autoritarismo al centro di un altro suo capolavoro Conversazione nella cattedrale (1969), ambientato negli otto anni di regime del generale Odría (1948-1956), la dittatura che ha segnato lo scrittore, allora adolescente. E poi ancora coraggiosa satira di denuncia nella Festa del Caprone ,incentrato sugli ultimi giorni di vita di Rafael Leonidas Trujillo Molina, dittatore della Repubblica Dominicana, assassinato nel 1961 da un gruppo di uomini di sua fiducia appoggiati dalla Cia.

Intanto,  nel romanzo Chi ha ucciso Palomino Molero?Vargas Llosa narrava del tenente Silva e della guardia Lituma, un soldatino, ucciso per aver osato corteggiare una giovane bianca e altolocata. La violenza militare, lo strapotere del colonialismo, il machismo sono il filo rosso che lega molti suoi romanzi. Senza dimenticare il tema dell’eros, esplorato non certo nella chiave conformista e prevedibile della letteratura erotica ma in romanzi che descrivono i percorsi mentali tortuosi, se non malati, di una certa alta borghesia peruviana.

L’opera letteraria di Vargas Llosa ha il merito anche di ricuperare voci che raramente troveremo nei manuali di storia, come quella di Flora Tristan, attivista dei diritti delle donne nella Francia del primo Ottocento la cui vicenda scorre in parallelo a quella della fuga del pittore Paul Gaguin verso i mari del Sud nel “Il paradiso è altrove” . La cultura e la storia francese, va detto, hanno sempre giocato un ruolo da protagonista nell’orizzonte di Vargas Llosa che, oggi rivendica di sentirsi ancora vicino a Camus ma non più a Sartre. ” Si potrebbe dire di lui che contribuì con più talento di chiunque altro alla confusione contemporanea. Era troppo cerebrale” ha scritto in Sartre e Camus uscito in Italia nel maggio scorso per Scheiwiller.Aggiungendo poi ” L’invenzione letteraria in Sartre manca di mistero: tutto è sottomesso al governo della ragione”.

Raccogliere le “sfide alla libertà” (come recita il titolo di una sua raccolta di articoli) è sempre stato l’impegno dello scrittore peruviano. Anche se leggendo le motivazioni dell’Accademia di Svezia per l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Vargas Llosa ( “ per aver tracciato una cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini taglienti della resistenza dell’individuo”) viene da ricordare che questa sua strenua difesa della libertà dell’individuo non è stata sempre senza ombre. Difficile dimenticare, per esempio, il suo attacco a Morales a Chàvez dalle colonne del giornale argentino conservatore la Nación, tacciati, in quanto indios, di ordire governi razzisti contro i bianchi.

E se è da apprezzare la sua condanna della violenza israeliana contro i palestinesi (in Israele e Palestina, Pace o guerra santa, Scheiwiller) che dire del Diario di bordo sulla guerra irachena che Vargas Llosa disse di voler scrivere dal punto di vista degli iracheni? Terminava dicendo: “ la distruzione della dittatura di Saddam Hussein, una delle più crudeli, corrotte e furibonde della storia moderna, era una ragione di per sé sufficiente a giustificare l’intervento Usa”.

dal quotidiano Terra 8 ottobre 2010

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Cercare l’assoluto. La follia di Ingeborg Bachmann

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 8, 2010

di Simona Maggiorelli

Ingeborg Bachmann

Mentre l’editore Einaudi pubblica i versi disperati e splendidi della raccolta Oscurato del poeta Paul Celan, Guanda presenta una biografia di Ingeborg Bachmann scritta da un illustre germanista come Hans Höller. Nel libro La follia dell’assoluto lo studioso dell’università di Salisburgo – che il 18 ottobre presenterà questo suo ultimo lavoro nella biblioteca comunale di Trento – ripercorre tutta l’opera filosofico-letteraria di Ingeborg Bachmann ( Klagenfurt 1926- Roma 1973), leggendola in filigrana con la sua tormentata vicenda esistenziale, segnata dalla guerra, dal maschilismo dell’ambiente intellettuale, ma anche da un corrosivo male di vivere a cui la scrittrice oppose una inesausta ricerca sul linguaggio poetico e letterario.

Una ricerca che, dopo i tentativi giovanili di smascherare la violenza del pensiero di Heidegger, divenne l’assoluto della sua vita, mangiandosi tutto il resto. Al contrario del razionale Malina, protagonista dell’omonimo romanzo pubblicato in Italia da Adelphi, Ingeborg Bachmann aveva lasciato che l’inquietudine scandisse i suoi giorni e i suoi pensieri. Diversamente da molti uomini che aveva incontrato nella vita e sulle pagine dei libri di filosofia, lei si era lasciata contagiare dalla vita, finendo però per abitare soprattutto il dolore.

Poi distillato in versi brucianti, irti di accenti gutturali e insieme capaci di una segreta armonia. Il suo tedesco austriaco, come ricostruisce Höller in questo suo libro, si vestiva di malinconia, con infinite, delicate sfumature. Versi di una bellezza assoluta che Ingeborg Bachmann scriveva nella continua fuga da una città all’altra: Zurigo, Roma, Berlino. E poi di nuovo Roma.

Era il 1965 ed era «la quarta volta che si stabiliva nel suo paese primigenio per un periodo lungo – racconta Höller – questa volta senza la speranza di un nuovo inizio, «perché non si riesce ad andar via da un luogo su cui si è investito così tanto», come scriveva la Bachmann stessa. In lei non c’era più l’entusiasmo della giovane studentessa viennese, anche se ora viveva in una specie di casa-castello vicino a piazza di Spagna, circondata da amici. Ai quali cercava di nascondere i segni di una violenta autodistruzione.

A Roma, Bachmann lavorò intensamente al ciclo Todesarten, che considerava la sua opera più ambiziosa. Continuando a rimandare la consegna del manoscritto all’editore che ormai lo attendeva da anni. Il libro era finalmente finito quel tragico 17 ottobre 1973 quando la scrittrice morì per le ustioni che si era procurata addormentandosi con la sigaretta accesa. Il suoi amici di sempre, fra cui il compositore Hans Werner Henze, l’11 novembre sporsero una denuncia alla Procura di Roma per sospetto omicidio: come era possibile procurarsi ustioni così gravi senza svegliarsi? Ma alcool e farmaci, probabilmente le avevano abbassato la soglia del dolore, dissero i medici. Il caso Bachmann venne archiviato con la dichiarazione che non sussisteva alcuna responsabilità di terzi: «deceduta a seguito di gravi ustioni riportate  accidentalmente». Una coincidenza: «Ma quando ci sono di mezzo le coincidenze deve trattarsi di qualcosa che ha radici molto lontane», come aveva appuntato la scrittrice austriaca.

da left-avvenimenti

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Sabra, un eccidio in nome di Dio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 12, 2010

Esce in Italia Sabra zoo. Un esordio toccante. Per  ricordare il massacro di civili palestinesi a Sabra  e Shatila. Compiuto  da libanesi e israeliani

Malgrado il successo del film Un valzer con Bashir, oggi l’eccidio di Sabra e Shatila pare caduto nell’oblio. E pochi giovani sanno cosa accadde veramente tra il 16 e il 18 settembre di quel 1982 quando cristiani maroniti libanesi, controllati dall’esercito israeliano, massacrarono centinaia di civili palestinesi nei campi profughi. Anche per questo il giornalista Misha Hiller ha deciso di tornare a documentare quell’assassinio a freddo di persone inermi. Ricorrendo alla narrazione per arrivare a un più largo pubblico.

Salutato dalla critica di Oltreoceano come un importante esordio. il suo toccante Sabra Zoo esce il 16 settembre in Italia per Newton Compton con il titolo Fuga dall’inferno. «La spinta a scrivere è nata dal rendermi conto che nessuno aveva raccontato davvero questa storia. Di certo non in Occidente», racconta Hiller a left. «Ma anche dall’essermi accorto di quanto questa storia abbia conseguenze nel presente: se vogliamo capire che cosa sta accadendo in Occidente con tensioni e scontri fra culture dobbiamo aprire gli occhi su quanto sta accadendo nel mondo arabo e riconoscere le nostre responsabilità.
In Medio Oriente la memoria di Sabra è ancora viva?
Sì, fa parte della loro memoria collettiva. Anche se va detto che in Libano i giovani non sanno molto della propria storia.
Quanto i monoteismi hanno agito e agiscono da detonatore di violenza?
Tutte le religioni apparentemente predicano la pace. Di fatto tutte e tre i monoteismi abramitici hanno le mani sporche di sangue. Basta pensare alle crociate. Ma la loro storia, spacciata per un conflitto fra bene e male, non è mai stata raccontata in maniera corretta e veritiera in Occidente. I coloni israeliani, dal canto loro, invocano l’Antico testamento per giustificare la loro appropriazione di territori e i loro attacchi ai palestinesi. E posizioni fondamentaliste si riscontrano anche nell’islam. L’attacco alle Torri gemelle di New York docet. è evidente che le religioni, con tutta la loro retorica, non hanno rapporto con la sofferenza vera delle persone. E rendono più difficile il dialogo fra i popoli. Le persone deluse, che non hanno voce e non trovano chi le rappresenti in politica, con più facilità cadono nella trappola di chi millanta di avere la soluzione ai loro problemi. Ciò spiega la crescita di partiti a base religiosa. Che a mio avviso non potranno mai rispondere a istanze che riguardano i diritti umani e la giustizia. La religione ha causato sempre problemi incoraggiando una mentalità tribale e settaria.
Il conflitto israelopalestinese potrebbe trovare soluzione oggi?
Non ci sono segnali positivi, anche se i cosiddetti processi di pace vanno avanti. Temo falliranno come i precedenti, perché nulla è cambiato nella realtà concreta. è un balletto che ogni tanto ci viene riproposto per rassicurarci. Ma poi il balletto finisce e l’occupazione continua. Finché non si deciderà la fine dell’occupazione, è un can can senza senso.
Che ruolo gioca Obama?
Obama ha messo fine alla retorica guerrafondaia di Bush e ha fatto ben sperare. Anch’io speravo che fosse un buon amico di Israele. Che fa un amico quando vede il suo sodale che, ubriaco, picchia i bambini? Certo non lo giustifica dicendo che è depresso, che ha ferite aperte, cose da dimenticare. Un vero amico dice: stai distruggendo tutti intorno a te. Gli dice: in questo modo ti stai autodistruggendo. Perciò oggi c’è meno ottimismo riguardo al fatto che Obama abbia delle possibilità di incidere in questa annosa situazione. Non perché pensi che sia ingenuo, ma perché non ha il potere di realizzare ciò in cui crede.

di left-avvenimenti del 24 settembre

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Lo strano sorriso di Pol Pot

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 8, 2010

Ha raccolto testimonianze dai sopravvissuti al genocidio dei Khmer ricostruendo come funzionava la disumana Organizzazione messa in piedi da Pol Pot. Ma non solo. Il sorriso di Pol Pot, uscito a inizio settembre per Iperborea ricostruisce le responsabilità egli intellettuali occidentali di sinistra che sulla Kampuchea democratica non volleroaprire gli occhi

di Simona Maggiorelli

Angkor wat

Nell’agosto del 1978 una delegazione di svedesi ottiene il permesso dai khmer rossi di atterrare a Phnom Penh. Per conto di associazioni umanitarie di sinistra ha il compito di verificare le politiche del governo di Pol Pot. Fra loro c’è anche uno dei più influenti intellettuali svedesi: Jan Myrdal, figlio dei premi Nobel per la Pace Alva e Gunnar Myrdal. Sulla strada della costruzione dell’“uomo nuovo”, Pol Pot e i suoi, fra il 1975 e il ’79, hanno ucciso quasi due milioni di persone. Freddamente derubricate come «ostacoli» alla rivoluzione. In questo clima la spedizione svedese viaggia scortata per la Kampuchea democratica. Distese di campagne, contadini al lavoro, alla vista degli stranieri si fermano, salutano, parlano, si fanno fotografare. Nei suoi reportage Mydal ne racconta le magnifiche sorti e progressive. Non lo sfiora il dubbio che la realtà sia ben diversa. E ancora quando Peter Fröberg Idling, ex cooperante e giornalista svedese, lo cerca per un’intervista, a trent’anni di distanza, Mydal risponde che non ha nulla da aggiungere a ciò che scrisse allora. Negli anni Duemila, finalmente, anche se con molto ritardo, viene processato lo scrupoloso professore di matematica “Duch” che ha torturato e ucciso almeno 17mila persone nel centro di detenzione S-21. Con lui, alla sbarra, una manciata di altri feroci sodali di Pol Pot che, nel frattempo, è morto senza aver mai fatto i conti con la giustizia. Ma ancora oggi il comunista Mydal si dice suo sostenitore non pentito. L’ ideologia gli impedisce di vedere la violenza cieca del regime. Da questo episodio Idling è partito per questo suo toccante libro inchiesta, Il sorriso di Pol Pot, appena uscito per Iperborea. Nato nel 1972, quando i socialdemocratici svedesi guardavano con interesse a quella che credevano essere “una rivoluzione contadina”, Idling compone questo suo bruciante puzzle di storia con tasselli sfaccettati e preziosi: testimonianze inedite di scampati al genocidio raccolte percorrendo in un lungo e in largo la Cambogia (Idling parla khmer e ha vissuto nel Sudest Asiatico), filmati e documenti d’epoca cercando di leggere al di là delle veline di regime. E poi interviste a quei partecipanti alla spedizione svedese che hanno accettato di parlare. Ma anche frammenti di memoria di quando l’autore, ancora bambino, veniva portato nel passeggino dalla madre alle manifestazioni pro Cambogia. Tutto si mescola e si integra nella prosa d Idling. La cosa importante è non «finire nei numeri». Cercare di ridare un volto e una voce a chi è stato gettato nelle fosse comuni, cancellato dai documenti ufficiali.
Idling, che significatoassumono oggi i processi ai khmer rossi sopravvissuti?
A mio avviso sono molto importanti. Almeno da almeno due punti di vista. Purtroppo la giustizia ancora oggi in Cambogia è una farsa. Chi ha soldi e amicizie altolocate gode di assoluta impunità. E questi processi rappresentano uno stop, inseriscono almeno una discontinuità in questo modo di procedere. è il primo passo per ricostruire la fiducia della gente nella giustizia. E poi la gran parte dei cambogiani non sa perché ha vissuto quell’inferno. A scuola fin qui il capitolo khmer rossi non è mai stato affrontato nei programmi di storia perché ancora troppo angosciante e doloroso. La conoscenza e la consapevolezza di ciò che è accaduto nel Paese sono scarsissime. I processi trasmessi in tv e per radio possono dare il la a un processo di elaborazione collettiva.
Cosa pensa dei molti intellettuali di sinistra che in Europa hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte al genocidio ?
Myrdal è un rivoluzionario di vecchia scuola, di quelli che dicono: bisogna rompere delle uova per fare una frittata. Sì, certo, in alcuni casi devi romperne proprio tante ma per quelli come Myrdal ne vale la pena se lo scopo è una società migliore.
Lei scrive che anche un intellettuale pacifista come  Noam Chomsky contribuì a mistificare la verità su Pol Pot. Come è accaduto?
Il caso di Chomsky è diverso da quello di Myrdal. Non si è fidato dei reportage che arrivavano dalla Cambogia perché in larga parte basati sul sentito dire. Di sicuro erano un esempio di cattivo giornalismo, ma nel corso del tempo è emerso che dicevano il vero.
Non crede che non aver creduto alle parole dei profughi che parlavano di genocidio sia stato un fatto gravissimo?
L’immagine della Kampuchea Democratica all’estero era stravolta. Il dramma è, però, che nel frattempo le violenze subite e la fame denunciate da quei pochi che riuscivano a fuggire dalla Cambogia, in Occidente venivano lette come esagerazioni per ottenere aiuti e uno status di rifugiati in Occidente.
Nel suo libro ricostruisce  la vicenda di Pol Pot fin dagli anni di formazione in Francia.  Che influenza ebbe su di lui quella cultura?
La Rivoluzione francese lo aveva colpito molto. Del resto anche andando a scuola nell’Indocina francese aveva studiato gli stessi programmi di storia di un suo coetano che fosse nato a Lione o a Nantes. Poi, nei primi anni Cinquanta, è andato all’università a Parigi, entrando in contatto con i comunisti francesi che erano molto vicini allo stalinismo. Ma a Parigi incontrò anche molti giovani provenienti dalle colonie francesi che volevano lottare per l’indipendenza dei propri Paesi di origine. E furono ancora più importanti nel suo percorso. In questa rete di rapporti diventò un comunista ma anche un ferreo nazionalista cambogiano.
Nel suo libro lei ricostruisce che da piccolo il futuro Pol Pot era «il timido Sar, la cui gentilezza sfiora l’autoannullamento». Ma anche Sar dallo strano sorriso seducente. Una maschera di normalità che nascondeva altro?
Io non saprei fare una diagnosi precisa, quello che ho ricavato dalle testimonianze che ho raccolto è che era una “charming person”, una persona che appariva piuttosto piacevole, addirittura seducente. Ma è un fatto che Pol Pot abbia costruito un sistema completamente pazzo, diventandone parte. Un sistema che univa una devastante incompetenza con una feroce brutalità.  Un sistema che in Cambogia era chiamato allora l’Organizzazione onnipotente e onnipresente quasi quanto la cospirazione antirivoluzionaria che Pol Pot vedeva ovunque. L’Organizzazione distorceva la percezione della società che Pol Pot aveva intorno e negava la reale sofferenza della gente.   Pol pot cercò di costruire una società razionale. Praticamente era il caos. Lui ci credeva ciecamente, ci aveva investito tutto se stesso, tanto da non poter più tornare indietro. Se qualcosa non funzionava cercava di farlo camminare a forza. I costi umani diventarono per lui del tutto secondari.  Certo, tutto questo può anche essere descritto come  pazzia.
In Italia il Pci non discusse mai veramente il caso Cambogia, dicendo che se Pol Pot era un pazzo, non per questo si poteva gettare l’idea di comunismo…
Non sono per niente d’accordo. C’è qualcosa di terribilmente sbagliato nel marxismo-leninismo. Ogni volta che si è cercato di metterlo in pratica si è finiti in un bagno di sangue. La sinistra più radicale deve assumersi la responsabilità di riflettere su ciò che è accaduto in Cambogia, in Cina, in Urss, in Albania, nella Corea del Nord… Non possiamo ripetere sempre gli stessi errori. Io mi considero una persona di sinistra ma dopo aver vissuto in Cambogia per me la parola comunismo è morta. Il comunismo sembra la risposta più razionale , la risposta più semplice a questioni complesse. Ma la realtà non può essere cambiata da un giorno all’altro. A meno che tu non sia disponibile a sacrificare un sacco di persone. E anche in questo caso, come Pol Pot, Stalin e Mao ci hanno dimostrato, non funziona lo stesso.

da left-avvenimenti del 3 settembre 2010

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La Cina ancora da conoscere

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 12, 2010

Letteratura e cinema, negli ultimi anni ci hanno avvicinato al Paese di mezzo. Ma della sua cultura millenaria in Italia si sa ancora mediamente pochissimo. Nonostante la forte immigrazione dal Paese di Mao

di Simona Maggiorelli

Gong Li

E’ una coraggiosa galoppata attraverso duemila anni di storia cinese La rosa e la peonia che la sinologa Valentina Pedone ha scritto con l’italianista Wei Yi per l’Asino d’oro Edizioni. Un libro curiosamente a doppio senso di marcia: mentre da un lato invita il pubblico italiano ad avvicinarsi alla millenaria cultura cinese, dall’altro racconta ai lettori cinesi, nella loro lingua madre, capitoli salienti di storia della letteratura italiana. «Questo volume è stato pensato come strumento di lavoro per chi si occupa di mediazione culturale. Ma anche con l’auspicio che possa entrare nelle biblioteche, nelle scuole, nelle case, in quei quartieri dove italiani e cinesi vivono fianco a fianco, facilitando il dialogo e la conoscenza reciproca», racconta a left una delle due autrici, Valentina Pedone, che all’insegnamento di Letteratura cinese all’università di Urbino e di Firenze affianca lo studio del fenomeno dell’immigrazione cinese in Italia. A questo tema ha dedicato di recente una mostra fotografica nella facoltà di Studi orientali della Sapienza, che si trova nel cuore multietnico di Roma. Una mostra in cui la ricercatrice ha presentato ventidue ritratti di cinesi che hanno scelto l’Italia come Paese dove vivere e lavorare. Nonostante il nostro non possa certo dirsi un Paese ospitale. Proprio da qui è partita la conversazione:Valentina, un vecchio luogo comune vorrebbe che le comunità cinesi in Italia siano gruppi chiusi, poco disponibili a farsi conoscere, è davvero così? «Certo è meno facile fotografare la comunità cinese rispetto ad altri gruppi di immigrati. Ma è falsa la rappresentazione dei cinesi come persone introverse, silenziose. Chiunque sia stato in Cina sa che sono molto loquaci, socievoli, curiosi. Volendo ricorrere a un cliché contro un altro, direi che nei modi di fare ricordano i napoletani».

Qualche anno fa, però, il sinologo francese François Jullien presentando al pubblico del Festival di filosofia di Modena il suo libro Elogio dell’insapore (Raffaello Cortina) raccontava l’immigrazione cinese in Francia come silenziosa, flessibile, quasi felpata, leggendovi in controluce elementi di pensiero tradizionale cinese. «In Cina – ricostruiva Jullien – il reale è sentito come un processo in continuo mutamento. Non c’è la scissione fra realtà oggettiva e soggetto tipica dell’Occidente». Seguire il corso degli eventi, farli arrivare a maturazione e coglierne i frutti, ecco il punto. Con questa “filosofia”, assecondando la processualità continua, i cinesi sanno trovare la chance per imporsi, spiega Jullien. Così le loro comunità si sarebbero a poco a poco insediate a Parigi aprendo negozi e attività, in modo capillare. Un modello che ci riporta alla mente i modi pacati, quasi sotto traccia, con cui la prima generazione di immigrati è approdata a Prato, a Campi Bisenzio e nelle altre cittadine toscane dove oggi un abitante su due è di origine cinese, senza però, purtroppo, aver avuto da parte italiana un riconoscimento di cittadinanza.

La rosa e la peonia

«Questo modello silenzioso di immigrazione esiste certamente – commenta Valentina Pedone – ma è tipico soprattutto di coloro che provengono da una parte della Cina, dal Sud-Est del Paese. Ma è vero – aggiunge la sinologa – che tratti di pensiero tradizionale e confuciano, in particolare, si ritrovano anche nei cinesi di seconda generazione. Anche all’università molti di loro conservano una grande attenzione al proprio ruolo di studente, sforzandosi al massimo di essere appropriati a ciò che viene loro richiesto. Alcuni, per educazione, non guardano mai negli occhi l’insegnante. Ma questo dagli italiani non di rado viene recepito come sfida. Ed è molto doloroso per questi ragazzi cinesi, che per lo più hanno fatto un grosso lavoro su se stessi e hanno consapevolezza del loro appartenere a più culture». Ma questo tipo di incontro-scontro culturale per chi, per esempio, è nato in Italia non dovrebbe essere un fatto già superato? «Il problema – spiega Pedone – è che la prima generazione di immigrati per una decina di anni ha pensato soprattutto alla sussistenza e a farsi una posizione economica. I loro figli sono cresciuti più a contatto con gli italiani ma avvertendo attorno a sé forti pregiudizi. Per molti di loro l’interfaccia con l’Italia, di fatto, resta ancora difficile». Nel suo libro La rosa e la peonia lei scrive che il popolo cinese non ha mai subito il fascino del monoteismo, né della metafisica. è ancora vero nella Cina di oggi? «Assolutamente sì. I cinesi sono ancorati alla vita terrena; sono poco inclini al trascendente. Fra i cinesi che vivono a Roma però – approfondisce Pedone – si trova un discreto numero di cristiani. Ma la maggioranza dei cinesi semmai conserva il culto tradizionale degli antenati, oppure prega Buddha come un santo, con una modalità “pagana” e popolare». Una mescolanza sincretistica di pensiero tradizionale cinese, confuciano ma anche taoista, del resto, ha connotato pure molta letteratura cinese del Novecento. Dagli anni Ottanta poi il confucianesimo ha conosciuto una forte rinascita di studi nell’ambito accademico, tanto che, come spiega John Makeham nel saggio “La filosofia cinese del XX secolo” (ne La Cina verso la modernità, Einaudi) «per tutto il decennio successivo si è parlato addirittura di febbre confuciana (per analogia con la febbre culturale che era divampata nel decennio precedente)».

Anche nei settori alti della cultura cinese fu una reazione alla galoppante globalizzazione che, per quanto cercata sul piano economico, sul piano dell’identità culturale era avvertita come minaccia e rischio di occidentalizzazione. Ma se questo tipo di reazione conservatrice in letteratura ha portato al cosiddetto “ritorno alle radici” e a un’ampia fioritura di romanzi che raccontano una Cina rurale e magica, quasi per reazione negli anni Ottanta, annota Pedone nel suo libro, si è avuto pure un massiccio ritorno al realismo. Un esempio di neoralismo diretto, a tratti anche crudo, ci ricorda la studiosa, è per esempio quello di Su Tong. Dal suo Moglie e concubine del 1990 il regista Zhang Yimou trasse il celebre film Lanterne rosse che lanciò Gong Li sulla scena internazionale. Un altro capolavoro del cineasta cinese, Sorgo rosso, invece era tratto da un romanzo di un maestro di realismo magico come Mo Yan, «e il cinema – sottolinea Pedone – ha avuto grande importanza nel far conoscere all’estero la letteratura cinese». Intanto la censura sui fatti di Tian’anmen ha fatto sì che solo alcuni scrittori cinesi della diaspora, per anni, abbiano voluto e potuto farne un tema da letteratura alta e di denuncia. E oggi? «Più che la censura – spiega Valentina Pedone – pesa l’autocensura. O meglio, è come se oggi si raccogliessero i frutti della cultura di Deng. Persa ogni spinta ideale, dopo il maoismo, si è passati a una forte disillusione. Letteratura di consumo, come i romanzi di cappa e spada, vanno per la maggiore. Ma ci sono anche autori più creativi e interessanti. Ciò che accomuna tutti quanti però è la sfacciataggine: dicono di scrivere solo per soldi».

Sullo scaffale. Percorsi di lettura

Se il libro La rosa e la peonia de l’Asino d’oro Edizioni ha il dono della sintesi nell’offrire un primo documentato e avvincente assaggio, La Cina di Einaudi, invece, affronta la storia della cultura cinese con importanti approfondimenti. Dei tre libri che compongono l’opera curata da Maurizio Scarpari per la casa editrice torinese è uscito nel 2009 il terzo volume, La Cina verso la modernità, con saggi, tra gli altri, di Federico Masini sulla riforma della lingua e di Nicoletta Pesaro sulla letteratura cinese moderna e contemporanea. Mentre Corrado Neri si occupa di cinema, Iwo Amlung di scienza e John Makeham affronta la vexata quaestio se «esista una filosofia cinese» o piuttosto il termine filosofia porti con sé un’accezione troppo occidentale e inadatta a descrivere lo sviluppo del pensiero cinese. A distanza di un anno esce ora il secondo volume La Cina. L’età imperiale dai Tre Regni ai Qing (a cura di Mario Sabattini e Maurizio Scarpari) con interventi di Nicola di Cosmo sugli imperi nomadi nella storia della Cina imperiale, saggi sul buddismo cinese  di John Mcrae e di Francesca Tarocco e sul daoismo a firma di Livia Kohn; senza dimenticare, fra i molti altri lavori, lo splendido intervento su arte e archeologia di Nicoletta Celli. E ancora la rinnovata attenzione verso il colosso Cina da parte di Einaudi si segnala anche attraverso una serie di monografie, saggi di storia e opere letterarie. Fra le uscite più recenti c’è l’agile volume di Maurizio Scarpari sui fondamenti e i testi del confucianesimo ma anche la monografia di Maurice Meisner Mao e la rivoluzione cinese, che rilegge la figura di Mao Zedong indagandone  sia il volto da rivoluzionario che quello di tiranno. In Cina, ventunesimo secolo, invece Guido Samarani analizza le sfide che aspettano il Paese nel nuovo millennio. Tra inarrestabile ascesa economica e negazione dei diritti umani, come denuncia il fatto che la Cina sia in testa alle classifiche mondiali per numero di persone mandate a morte. Su un versante completamente diverso, ovvero quello della poesia, si segnala infine la pubblicazione di Con il braccio piegato a far da cuscino del maestro taoista del XIII secolo Bai Yuchan. Uscendo da casa Einaudi, poi, fra le moltissime pubblicazioni di romanzi ci limitiamo qui a ricordare il toccante Un mattino oltre il tempo (Fazi editore) della cinese Yang Yi che oggi vive a Tokyo. Attraverso la storia di un’amicizia fra adolescenti, si racconta il soffocamento nel sangue della rivolta studentesca in piazza Tian’anmen.

da left-avvenimenti 6 agosto 27 agosto 2010

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Graphic Novel. E’ vera ricerca

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 10, 2010

Tina Modotti, graphic novel

Anche chi (come chi scrive) non ha mai avuto grande fiducia nella decompartimentazione dei generi letterari praticata negli anni Settanta da una critica inneggiante alla commistione fra alto e basso (e che nei manuali includeva, alla pari, Dante e fumetti, poesia e canzonette) si trova ora piacevolmente a fare i conti con un fenomeno culturale che si pone esattamente su un crocevia fra generi diversissimi: la narrativa e l’illustrazione, incrociando talvolta persino la storia e l’inchiesta giornalistica.

Il fenomeno è quello del graphic novel, genere di cui left si è già occupato in precedenza raccontando opere e autori, a cominciare da quella dell’americano Will Eisner che, con Art Spiegelman, è considerato un maestro del settore.

Ma quella che poteva sembrare solo una curiosità o una scelta di nicchia, ovvero che Einaudi, proprio con Eisner (e ora con libri dal segno modernissimo come I quattro fiumi di Fred Vargas), si aprisse al graphic novel, è diventato nel frattempo un fenomeno diffuso nell’editoria italiana, non riguardando più solo case editrici underground. Prova ne è, di recente, la riscoperta da parte di Adelphi di un piccolo gioiello come L’arpa muta dell’americano Edward Gorey. Sceneggiatore, scrittore, artista, il poliedrico Gorey nel 1953 creò questo inusuale libricino sulle avventure e disavventure di uno scrittore alle prese con la pubblicazione di un romanzo. Con stile grafico elegantemente retrò, disegnato come se fosse uno storyboard per cinema muto, ecco un’operina che non si smetterebbe mai di tornare a sfogliare.

Fatto è che la tragicomica vicenda del malcapitato Mr Earbrass, che Gorey racconta con humour sottile, fa tutt’uno con lo stile delle immagini, facendo de L’arpa muta un unicum irripetibile. Forse, dovendo indicare un minimum comun denominatore nel mare magnum del graphic novel -che annovera libri illustrati, romanzi in strisce, illustrazioni con parole e molto altro – sceglieremmo proprio questo aspetto: tutti gli autori di graphic novel sono dotati di un singolare modo di comporre testo e immagini, sfuggendo così alla logica ripetitiva e seriale del fumetto. Quasi che il graphic novel derogasse del tutto dalle rigide caratteristiche della letteratura di genere. Qualche esempio? Assoluta originalità di composizione di parole e immagini caratterizza la visionaria riscrittura della favola di Hansel e Gretel firmata da Lorenzo Mattotti per Orecchio acerbo. Ma un personalissimo modo di mettere insieme testo e strisce connota anche le tavole autobiografiche di Persepolis della giovane iraniana Marjane Satrapi. Solo per citare due cult anni Duemila che più diversi fra loro non potrebbero essere. Ma veniamo al presente, cercando di percorrere, seppur in rapida panoramica, le proposte più interessanti degli ultimi mesi. Sulla linea di Mattotti, cioè sul versante alto che sfiora il libro d’arte, si iscrive il racconto che Irene Cohen-Janca fa della tragica vicenda di Anne Frank nel Libro di Anne (Orecchio acerbo).

Qui l’illustratore Maurizio Quarello sposa il punto di vista della bambina, con sguardi sbalorditi e indifesi che, da sotto in su, osservano il disumano mondo dei nazisti. E sul versante della rilettura per immagini di vicende biografiche importanti della nostra storia, non possiamo non citare il sorprendente La nebbia e il granito di Caci Gambotto Surroz (001 Edizioni), che ripercorre la vicenda umana e politica di Altiero Spinelli: dagli anni Venti della lotta antifascista e clandestina nel Partito comunista all’approdo fra i socialisti, fino all’arresto e al confino a Ponza dove entrò in contatto con Colorni e Rossi. E poi alla stesura del manifesto per un’Europa libera e unita che apriva un’idea moderna di Europa federalista. E se sul versante della controinformazione e del giornalismo d’inchiesta uno degli esempi più importanti e impegnati è il libro di Luca Moretti e Toni Bruno Non mi uccise la morte (Castelvecchi) sulla uccisione in carcere di Stefano Cucchi, sul versante più didattico, ecco Il carcere spiegato ai ragazzi della Manifestolibri, in cui Patrizio Gonnella e Susanna Marietti fanno ricorso al disegno per denunciare la situazione delle prigioni italiane. Uno studioso di Filosofia della scienza come Giulio Giorello, intanto, si presta a sostenere la straordinaria storia della filosofia “a fumetti” Logicomix (Guanda), in cui Alecos Papadatos e Annie Di Donna tratteggiano nientepopodimeno che le avventure intellettuali nella logica di Russel di Frege, Wittgenstein e Gödel. La torinese 001Edizioni, invece, ingaggia il matematico Piergiorgio Odifreddi per presentare Ultima lezione a Gottinga di Davide Osenda, in cui si racconta l’opposizione del grande matematico David Hilbert alla purga nazista verso la «fisica ebrea» di Einstein e Bohr.

Fueye, il suono del tango

Ma a questa piccola e coraggiosa casa editrice, 001edizioni, che del graphic novel ha fatto la propria scelta di vita, si devono anche tre delle opere più affascinanti degli ultimi anni, ovvero Fueye, il suono del tango, in cui Jorge Gonzàlez con segno pittorico nutrito di penombre e chiaroscuri tratteggia le atmosfere passionali del tango e la nostalgia degli emigrati italiani in Argentina nei primi anni del ’900. E poi i due volumi sulla vita e sulla passione politica della fotografa Tina Modotti, disegnati dallo spagnolo Angel de la Calle. Mentore Paco Ignacio Taibo II che, nell’antefatto di questo racconto, appare disegnato fra i personaggi. Fantasia da brivido è il registro de La governante (Orecchio acerbo) di Edouard Osmont grazie alle illustrazioni stilizzate, quasi da teatro delle ombre di Sara Gavioli (autrice della tavola su cui stiamo scrivendo). Nipote d’arte ed ex modella, la giornalista Sophie Dahl offre un tuffo in una favolosa (alla lettera) storia d’amore ne L’uomo dagli occhi danzanti edito in Italia da Donzelli. Decisamente meno sognante è invece la love story fra Adamo ed Eva secondo un maestro come Mark Twain, che nel 1883, con la complicità dell’illustratore Lester Ralph, scrisse quello che a buon diritto si può considerare un incunabolo di graphic novel. Stiamo parlando de Il diario di Adamo ed Eva (Cavallo di ferro) che gli editori di Twain all’epoca, si rifiutarono di pubblicare, per il tono caustico e irriverente che il romanziere americano riservava ai due “protagonisti sacri”. Eccone qualche assaggio: «Dal diario di Eva: Per tutta la settimana gli sono stata dietro cercando di fare amicizia. Sono stata io ad attaccare discorso perché lui è timido… sembrava contento di avermi lì e io ho usato non so quante volte il socializzante noi perché sembrava potesse lusingarlo il fatto di essere incluso in qualcosa!». Ma poi Twain annota, sbirciando fra le righe del diario di Adamo del lunedì: «Lunedì. Questo nuovo essere di pelo lungo è un bastone fra le ruote. Mi sta sempre intorno… il nuovo essere dice che si chiama Eva». E alla celeberrima costola Mark Twain, con piglio divertito, lascia l’ultima parola: «Dal diario di Eva domenica: Ho cercato di prendere qualcuna di quelle mele per lui… Sono proibite, quelle mele. Lui dice che potrebbe accadermi qualcosa di male. Ma se dovesse succedermi qualcosa di male per cercare di essere carina con lui, beh, allora, è un male di cui non me ne importa un bel niente».

dal left-avvenimenti del 5-25 agosto 2010

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Cercasi critica militante

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 22, 2010

Anticipazioni spettacolarizzate, interviste sdraiate, stellette. L’informazione letteraria è sparita dalle maggiori testate. La denuncia del critico Gian Carlo Ferretti e di un team di studiosi

di Simona Maggiorelli

Tullio Pericoli, illustrazione

Forse, come ora si suggerisce da più parti, non sono da rimpiangere gli anni in cui una critica letteraria neoavanguardista e ideologizzata sentenziava giudizi. Mentre la critica accademica, strutturalista o narratologica che fosse, rovesciava colate di piombo sulle terze pagine dei quotidiani, orgogliosa della propria separatezza e incurante della propria autoreferenzialità. Né tanto meno – ovviamente – andando più indietro nel tempo, sono da rimpiangere gli elzeviri cari al fascismo, di cui certe articolesse accademiche hanno finito poi, involontariamente, per essere figlie. Ma certo in questa Italia di pagine culturali appiattite, seriali, genuflesse davanti agli input del mercato editoriale e ai fabbricanti di best seller (tanto che capitano giorni in cui le maggiori testate nazionali paiono fatte in fotocopia) si sente viva e pungente, quanto mai, l’urgenza di penne dotate di spirito critico, capaci di smascherare il vuoto e la violenza di una certa cultura dominante, berlusconiana e vaticana. Anche se oggi, dopo molti anni dalla discesa in campo del Cavaliere con i suoi Drive in e i suoi Fede (che oggi imperversano anche in Rai), espressioni come “acquisire strumenti critici” o “sviluppare una propria autonomia di pensiero” si sentono sempre più di rado. Perfino nella scuola dove i ragazzi vengono allenati a essere “efficaci” ed “efficienti” secondo la fraseologia oggi più in uso nei giudizi degli insegnanti. Qualche giorno fa lo ricordava opportunamente Massimo Raffaelli alla tavola rotonda che si è tenuta alla Biblioteca nazionale di Roma per presentare la Storia dell’informazione letteraria in Italia (Feltrinelli) di un brillante decano della critica come Gian Carlo Ferretti e del giovane ricercatore Stefano Guerriero. Un libro importante, frutto di un proficuo confronto intergenerazionale e che viene a colmare una lacuna. Non che mancassero saggi e pamphlet su questo argomento. Basta pensare ad acuminati libri di Berardinelli come L’esteta e il politico (Einaudi) e Tra il libro e la vita (Bollati Boringhieri), oppure a La ragione in contumacia (Donzelli) di Massimo Onofri o al Dizionario della critica militante (Bompiani) di La Porta e Leonelli, ma anche a Il giornalismo culturale (Carocci) di Zanchini, solo per citarne alcuni. Nessuno di questi titoli però ha la completezza e l’esaustività di questa Storia dell’informazione letteraria. Che, nel ricostruire il lungo percorso che va dalla nascita della terza pagina nel 1905 sul Corsera ai giorni d’oggi, documenta acutamente tutte le trasformazioni e, non di rado, le degradazioni che ha subito il mondo culturale italiano. In primis sotto la dittatura del fascismo e adesso, seppur diversamente, nel mercato unico dei monopoli editoriali. Una congiuntura che specie negli ultimi anni, scrivono i due autori, ha visto non solo la progressiva scomparsa dai giornali del ruolo della critica militante ma anche di quella più semplicemente di servizio al lettore. Entrambe sostituite da anticipazioni spettacolarizzate, interviste sdraiate, presentazioni para pubblicitarie e stellette. Nel frattempo, va detto, avanza la critica “fai da te”, nei blog, nei social network, in siti come Anobii dove i lettori intervengono direttamente per esprimere un proprio giudizio. Segnali che qualcosa sta cambiando in questa Italia che, rispetto al resto d’Europa, legge poco o niente? Se da un lato questi fenomeni testimoniano una crescita dei lettori, come rileva Guerriero, dall’altro, nota Filippo La Porta, «sono l’esempio di una critica esclamativa», che più che sviluppare una riflessione, «agisce un riflesso». Quello che serve oggi è, soprattutto, «far parlare chi ha veramente competenza ed esperienza», dice Marino Sinibaldi di Fahrenheit. Di fronte a una produzione editoriale smisurata e massificata serve «un’ecologia del selezionare, tornare a saper cernere ciò che è importante», spiega il conduttore di Radio Tre.

Il compito del critico, ribadisce da parte sua Paolo Mauri, «è sviluppare una riflessione calma e approfondita su libri “necessari”, che ti toccano dentro, che ti cambiano e che, alla fine, sono quelli che resteranno nella storia della letteratura». Non certamente, viene da pensare, i “cannibali” in voga negli anni Novanta. «Sono stati una pura invenzione del mercato editoriale – ricorda Mauri -, non sono mai esistiti come movimento e fra loro non si sono nemmeno mai visti in faccia». Ma neanche resteranno, ci permettiamo di aggiungere, i Baricco, le Tamaro, i Faletti e molti altri romanzieri che figurano nel top ten delle vendite italiane. Scrittori blockbuster che nel loro libro Ferretti e Guerriero, giustamente, trattano come fenomeno di costume, più che come fatti letterari. Diverso, invece il caso Roberto Saviano e del suo Gomorra. «Si tratta di uno scrittore-personaggio per necessità, come Rushdie», annota Ferretti. E dal vivo, commentando le feroci critiche a Saviano di un intellettuale certamente non di destra come Alessandro Dal Lago nel suo Eroi di carta (il Manifestolibri) Guerriero aggiunge: «Non si può trascurare che Saviano difende il ruolo della parola anche in senso civile. è uno di quegli intellettuali che oggi supera il ruolo da “brigante di passo” che hanno esercitato in senso elitario tanti letterati nel Belpaese». «Credo che Saviano sia un intellettuale che svolge un lavoro molto importante – aggiunge Mauri -. Un lavoro di denuncia che oggi risulta scomodo, di disturbo alla politica». Anche a certa critica di sinistra? «Ma la sinistra in Italia non c’è più!», stigmatizza il direttore delle pagine culturali di Repubblica. «Bisogna avere il coraggio di dirlo, quella che rimane è una sinistra litigiosa o erede dei democristiani». E in tutto questo  il giudizio di Dal Lago su Saviano? «Inaccettabile, tanto più in questo momento, proprio quando Berlusconi lo ha pesantemente attaccato».

da left-avvenimenti

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Vivere e morire al tempo dei narcos

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 21, 2010

Si assegna questa sera a Firenze il Premio Vallombrosa Von Rezzori. Hector Abad è finalista con il libro che narra la storia di suo padre, un medico  e attivista dei diritti umani assassinato a Medellin dagli squadroni della morte

di Simona Maggiorelli

Hector Abad

Nei mesi scorsi il giornalista e scrittore Hèctor Abad ha sostenuto la campagna del Verde Antanas Mockus alle presidenziali della Colombia, perché dice «Mockus non è solo eminente professore, ma anche un cittadino stanco della politica corrotta, della violenza mafiosa, guerrigliera o paramilitare». E non si tratta solo di un intellettuale un po’ sognatore. «Come sindaco di Bogotà – prosegue Abad – Mockus ha dimostrato che le cose possono cambiare. Infatti durante il suo mandato di sindaco la violenza nella capitale della Colombia si è ridotta dei due terzi». Figlio di Héctor Abad Gómez, medico e attivista per i diritti umani assassinato nel 1987 dai paramilitari, Héctor Abad qualche anno fa ha deciso di raccontare la straordinaria vicenda umana e civile di suo padre, attingendo alle memorie di quando lo scrittore, oggi poco più che cinquantenne, era un bambino e un ragazzo. «Scrivere sul proprio padre non è cosa facile – racconta -. Ancor meno se non c’è più. E meno che mai su un padre famoso trucidato da uno squadrone della morte in una strada di Medellín a pochi giorni dalle elezioni locali in cui avrebbe dovuto correre come sindaco». Di fatto, da questa esperienza di scrittura difficile e dolorosa, ne è uscito un libro appassionato, a tratti persino comico (specie quando stigmatizza le vicende di sagrestia e della zia suora), nell’insieme straordinariamente vitale. Si tratta de L’oblio che saremo tradotto e pubblicato l’anno scorso da Einaudi, ora finalista del Premio Vallombrosa Von Rezzori che verrà assegnato stasera a Firenze. Un premio dalla lunga storia che quest’anno, accanto ad Abad, presenta autori in gara da angoli diversi e lontani del mondo: dal vietnamita Nam Le con il romanzo I fuggitivi (Guanda) al francese Echenoz con Correre (Adelphi), da Percival Everett, Ferito (Nutrimenti) a Rose Tremain, In cerca di una vita (Tropea). Questa mattina alle 11, intanto, Abad sarà alla Feltrinelli di Firenze per parlare del suo libro. Un romanzo del quale Fernando Savater ha scritto sul Pais: «Bellissimo e commovente, e al tempo stesso la testimonianza di un reale impegno civile per la democrazia e la tolleranza». E, al di là di ogni facile retorica, El olvido que seremos (questo il titolo originale del romanzo ispirato a un verso di Borges) è davvero straordinario nel mettere insieme la precisione storica di un memoir con il ritmo narrativo, l’icasticità e l’inventiva del romanzo. Raccontando la propria infanzia, gli affetti, le prime esperienze, la curiosità e le scoperte di un bambino e poi la sua formazione di adolescente e giovane uomo, Hector Abad ripercorre un ventennio di storia della Colombia, gli anni Settanta e Ottanta, dove persone come Héctor Abad Gómez che si battevano per un Paese democratico e moderno in difesa dei diritti umani, dell’istruzione, del diritto alla salute dovevano sostenere uno scontro ferocissimo con politici reazionari e sodali dei narcotrafficanti. «Mio padre, come tanti liberali lottava per il bene del Paese – ricorda lo scrittore -. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato ucciso. Ufficialmente da una banda di paramilitari. Ma i mandanti sono da cercare fra quei politici che aveva denunciato».

dal quotidiano Terra 18 giugno 2010

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