La teca di vetro progettata da Meyer, che protegge l’altare augusteo della pace, custodisce ora anche un altro tesoro: uno spicchio di Giappone antico e moderno. In poetico bianco e nero. Fino al 18 settembre qui sono esposte le straordinarie fotografie di Domon Ken, che nel secolo scorso ha raccontato per immagini il volto discreto e gentile del suo Paese, “narrando” la vita dei villaggi, delle pescatrici di perle, ma anche gli anni durissimi della guerra, il volto algido e militare del Giappone e poi e la rapida modernizzazione delle grandi città.
Come in un film scorrono sulle pareti, rosse o scure, sequenze di stampe che testimoniano tutte le trasformazioni della nazione dal 1935 al 1979.
Per questo maestro dalla sguardo morbido ed elegante furono più di cinquant’anni di intenso lavoro. All’insegna di un realismo che non si ferma alla documentazione.
Il suo sguardo si posa con pudore e con un profondo dolore su Hiroshima. Domon Ken non si nasconde dietro l’obiettivo. Le sue opere seducenti, evocative, rivelano la sua intima partecipazione a ciò che ritrae. Specialmente quando i soggetti sono dei bambini. Che nelle sue foto appaiono straordinariamente vivi e vitali. Anche in mezzo alle macerie del dopo guerra, quando escono in strada al tramonto inventandosi sempre nuovi giochi.
Nel catalogo Skira che accompagna la mostra, Kamekura Yusaku ricorda il rapporto immediato, d’intesa e di simpatia, che Domon Ken stabiliva con loro. Erano anni di povertà e di fame, di vita nelle baracche e di vestiti laceri, ma bastava poco perché nei più piccoli si accendesse la scintilla dell’immaginazione. E Domon Ken sa cogliere questi momenti “magici”, raccontando i bimbi per strada la sua ricerca tocca i momenti più liberi, alti e spontanei.
Ma affascinanti sono anche i suoi lavori più ufficiali: ritratti di vigili issati su fragili strapuntini in mezzo alle prime strade trafficate del dopo guerra e abbaglianti parate militari, in cui Domon Ken insinua una vena sottilmente ironica, una critica felpata al militarismo evitando le provocazioni, ma al contempo lasciando intendere il suo pensiero.
Bellissimi poi i ritratti di fanciulle in fiore e di giovani donne, sensibili, eleganti, sui tacchi alti e con i vestiti della festa, sognando amori nei giorni della ripresa e di pace. Alcune immagini anni Cinquanta hanno l’appeal tutto francese del cinema alla Alain Resnais. Altre evocano la tradizione antica in abiti di seta richiamando i rituali di una geisha, ma perlopiù sono rare le tracce del passato. Quelle più seducenti vengono dalle maschere del Teatro No e dai templi buddisti in una imprevista esplosione di rosso, di nero e di oro.
L’antica scultura buddista in Giappone
Purtroppo è durata poco più di un mese, dal 29 lungio al 5 settembre la bella mostra che le Scuderie del Quirinale hanno dedicato alla tradizione della scultura buddista in Giappone e qui vorremmo ricordarla per la splendida occasione di conoscenza e approfondimento che ci ha offerto. Facendoci scoprire, nel centro storico di Roma, uno spicchio di Giappone antico e poco conosciuto. L’esposizione curata da Takeo Oku invita a fare un viaggio nell’arte buddista che è fiorita soprattutto nel periodo Asuka tra il VII e l’VIII secolo e poi fino al periodo Kamakura (1185-1333). Un’arte che si è espressa in una elegante e potente statuaria in legno e altri materiali pregiati. La mostra Capolavori della scultura buddhista giapponese (nata nell’ambito di un ciclo di iniziative per far conoscere la cultura e le antiche tradizioni del Giappone) presenta 21 sculture di epoche diverse, provenienti da raffinati e silenziosi templi immersi nel verde, disseminati in varie zone del Paese come mostrano le fotografie che, insieme a approfonditi apparati informativi, accompagnano e contestualizzano le opere esposte. Percorrendo i due piani della mostra s’incontrano rappresentazioni di budda dorati e imponenti, sul volto un’espressione gentile, un sorriso appena accennato che sembra voler alludere a una dimensione interiore di calma e di apertura verso l’altro, ma si incontrano anche samurai dai volti corruschi e guerreschi. Se i primi rimandano alla tradizione indiana che si riferisce al budda storico, il principe Shakyamuni, le seconde sembrano piuttosto inserirsi nella tradizione guerriera giapponese o riferirsi alla mitologia asiatica – coreana in particolare – ricca di maschere grottesche, insieme orrorifiche e fiabesche. A colpire è la varietà di stili e di modi di rappresentazione all’interno di un canone prestabilito, fortemente codificato, che prosegue per parecchi secoli. A trasmettere di generazione in generazione stili e tecniche erano i busshi: spesso si trattava di monaci, in ogni caso erano scultori che lavorano a un risultato collettivo senza apporre la propria firma. Dalle loro mani uscivano non solo rappresentazioni di budda (maestri illuminati) e di sognanti bodhisattva (persone che aiutano gli altri). Ma anche di sovrani celesti corazzati. Quelli in mostra appartengono al periodo Heian (X secolo). E incuriosisce in particolare uno dei sei Kannon di Kyoto, dotato di sei braccia (dal potere taumaturgico). In questo caso appare evidente l’ibridazione fra culture diverse. Il precedente sostrato indù fu assorbito dalla filosofia buddista in Giappone anche utilizzandone l’iconografia. Ma fortissima è anche l’influenza dell’arte buddista cinese che conobbe il momento di massimo splendore sotto la raffinata dinastia Tang. Per approfondire consigliamo la nuova monografia Einaudi L’arte cinese di Sabina Rastetelli.
Simona Maggiorelli