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Posts Tagged ‘Danien Hirst’

Il museo della maraviglia

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 2, 2012

di Simona Maggiorelli

Philippe Daverio

«Vorrei far rivivere nella mente tutte le grandi figure dell’arte nostra, vorrei intenderle al punto di immedesimare l’animo mio con loro», scriveva Giovanni Morelli (1816-1891), grande conoscitore d’arte.

Grazie al suo metodo “indiziario” basato su una attenta osservazione dei dettagli scoprì la mano di Giorgione nella Venere di Desdra ed ebbe un ruolo chiave in molte altre attribuzioni. Il diavolo si nasconde nei dettagli, direbbe Philippe Daverio, che, come Morelli, ha lo sguardo fine del conoscitore capace di scoprire l’autografia di un quadro senza ricorrere a fonti esterne. Da ex mercante, il critico di origine alsaziane è anche maestro di “gnosi sensoriale”, forte di anni di vicinanza tattile e carnale con i quadri nella sua bottega milanese. Una conoscenza diretta, vissuta, mai paludata, per quanto erudita. Che Daverio trasforma in piacere del racconto in programmi tv (Passpartout e Il Capitale) e ancor più in libri e in riviste come la sua Artedossier, lasciandosi andare in rapsodiche trattazioni dei quadri più amati, con la libertà di nessi inediti, inaspettati, irrazionali. Dalle pitture rupestri di Altamira per arrivare al Novecento. Fermandosi sulla soglia di quel Postmoderno che, allo sguardo del poliglotta e fieramanete inauttale Daverio, è poco più che paccottiglia. Inutile e assai costosa. Infischiandone bellamente degli squali in formalina di Damien Hirst, il Nostro preferisce scorrazzare lungo millenni di storia dell’arte creandosi ad hoc un suo museo ideale di capolavori assoluti, belli e imperituri. Come fa ne Il museo immaginato (Rizzoli),l ibro coltissimo, scritto con piglio agile e scanzonato. Un lavoro che, come accennavamo, deve molto alla lezione di Morelli anche se l’autore si dice solo debitore di André Malraux e del suo Musée Imaginarie. Andando ancora più indietro nel tempo questo museo immaginario di Daverio con capolavori di epoche diversissime squadernati in anticamera, Grand Salon, cucina, pensatoio, biblioteca e camere da letto (dove si dorme assai poco) ci riportano al modello dello studiolo del principe rinascimentale: Wunderkammer in cui campeggiano uova di struzzo (dipinte da Piero della Francesca) e lussureggianti nature morte (fiamminghe), bizzarrie arcimboldesche e acquerelli di Turner («anticipatore dell’action painting»!). Ad ogni stanza una manciata  di opere. Disposte come nell’arte della memoria di Giordano Bruno. Indimenticabile, sul camino, la Tempesta (1503) di Giorgione, finalmente liberata da qui ogni «accanimento ermeneutico interpretativo». E dove meno te l’aspetti sensuali quadri mitologici di Correggio e splendidi ritratti femminili (da Piero di Cosimo a Leonardo da Vinci) commissionati da banchieri e signori. Quadri che, nota Daverio, dicono «che il maschio occidentale fu guerriero, pensatore e rivoluzionario e assai repressore delle femmine. Che a seconda del rango hanno avuto diritto al potere del fascino, alla libertà della loro autonomia raramente, al potere sottile sempre».

 

da left-avvenimenti

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Io sarò il tuo specchio

Posted by Simona Maggiorelli su giugno 11, 2009

Il lato ”oscuro” della Pop art e del suo guru. Nel diario America e in una serie di interviste edite Hopefulmonster

di Simona Maggiorelli

Andy Warhol versione dada

Andy Warhol versione dada

Oggi è ancora uno degli artisti che riscuotono più successo alle aste, fra i più pagati. Le sue Marilyn seriali, sgargianti e inespressive come una lattina di zuppa Campbell’s, si trovano disseminate nei musei di mezzo mondo. Mentre gli artisti che frequentarono la sua factory – a cominciare da Basquiat – sono celebrati come eroi tragici di una genialità naufragata nella droga e nell’autodistruzione. Ora, trascorsi più di vent’anni dalla scomparsa di Andy Warhol, mentre la Pop art è entrata nei manuali, star internazionali come Francesco Vezzoli e Damien Hirst ne rilanciano l’estetica piatta, commerciale, nihilista.

E mentre si potrebbero dire molte cose sui danni prodotti dalla «Business art» di Warhol che annullava ogni differenza fra artista e imprenditore, due interessanti volumi ci invitano a riconsiderare e a conoscere più da vicino la personalità di Andy Warhol. Parliamo del diario per parole e immagini America che il padre della Pop art pubblicò nel 1985 e che ora Donzelli (per la prima volta) pubblica in Italia, ma anche delle interviste che Alain Cueff ha raccolto sotto il titolo emblematico Sarò il tuo specchio (Hopefulmonster). Un volume che ha  il merito di proporre interviste inedite accanto a pezzi celebri come  My true story (1966) in cui Warhol diceva di se stesso:«Se volete sapere tutto di Andy Warhol vi basta guardare la superficie: dei miei quadri, dei miei film e della mia persona, ed è lì che sono io. Dietro non c’è niente». Per poi aggiungere: «Non percepisco il mio ruolo di artista riconosciuto in alcun modo come precario, i mutamenti di tendenza nell’arte non mi spaventano. Non fa davvero alcuna differenza, se senti di non avere nulla da perdere».

Qui e nei passaggi seguenti si trova sussunta tutta la filosofia di Warhol fatta  di esaltazione del consumismo e di apologia del vuoto. E il discorso si fa ancora più chiaro e, per molti versi, impressionante per la sua palese stolidità nelle pagine di America. «Mai come in questo diario si registra l’obliterazione della prassi artistica» nota Andrea Mecacci nell’introduzione del libro edito da Donzelli. In questo libro, spiega, «non si parla di arte perché, semplicemente, non c’è più arte. Questa assenza non solo testimonia l’apatia di una estetizzazione quasi bulimica, che nell’epoca Reagan era diventata  caricaturale, ma annoda Warhol al problema centrale dell’arte contemporanea: la consapevolezza della sua mercificazione, della sua “provvisoria” morte». Ma dalle pagine di questo diario emerge anche qualcosa di altro e di più inquietante: mente Warhol esaltava la merce, faceva della bellezza fisica un feticcio. E persone come il modello Paul Johnson, che Warhol ribattezzò non a caso Paul America, ingaggiato per “sesso a noleggio” e drogato, ne fecero drammaticamente le spese, come racconta il film My Hustler. La violenza nella factory, insomma, non riguardava solo l’imposizione di immagini senza creatività, ma riguardava anche i rapporti interpersonali. La morte prematura di Paul America non fu un caso isolato.

Da Left-Avvenimenti 5 giugno 2009

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