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Gaza. L’arte della resistenza

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 14, 2014

graffiti palestinesi

graffiti palestinesi

Usano le note e le immagini come armi. E lavorano per recuperare l’antico patrimonio culturale della Cisgiordania. Sono gli intellettuali e gli artisti che Fiamma Arditi racconta in Buongiorno Palestina

di Simona Maggiorelli

Said Murad usa la musica per raccontare al mondo cosa sta accadendo in Palestina. Le note sono le sue armi. Nel 2004, quando alcuni israeliani protestarono contro le politiche di destra del governo di Tel Aviv, con due telecamere e proiettori Said organizzò la performance Art without walls trasformando un muro in un maxi schermo per superare le divisioni. «La consapevolezza della difficoltà di questo processo non gli impedisce di continuare a piantare quei semi di cui parlava il poeta Mahmoud Darwish » scrive Fiamma Arditi nel libro Buongiorno Palestina (Fazi editore), che traccia una sorprendente mappa della “resistenza creativa” messa in atto da artisti, musicisti, architetti, registi, drammaturghi e romanzieri palestinesi, fondendo ricerca artistica e lotta per i diritti umani e per la liberazione della Palestina, aggredita militarmente da Israele. Fra loro ci sono anche intellettuali come Nadera Shalhoub Kevorkian, unica docente palestinese alla Hebrew University di Gerusalemme e impegnata ad aiutare la propria gente a superare i problemi fisici e psicologici connessi alla distruzione delle loro case . «Devo essere pazza – dice Nadera alla giornalista e scrittrice italiana che è andata a incontrarla nella vecchia Gerusalemme -, insegno a questi ragazzi e loro ci sparano, demoliscono le nostre case». Ma a spingerla non è lo spirito di sacrificio. «Ciò che faccio – aggiunge –  non toglie gli effetti dell’occupazione. Cerco di neutralizzarla, di combatterla. Continuando a vivere, ballare, amare».

«Noi palestinesi non vogliamo essere dei martiri, vogliamo vivere », diceva con altre parole la scrittrice e architetto Suad Amiry alla presentazione del suo nuovo libro Golda ha dormito qui (Feltrinelli) a Bologna il 9 luglio. n romanzo in cui l’autrice dell’ironico e spiazzante Sharon e mia suocera (2003) e di libri inchiesta come Murad Murad racconta la dolorosa esperienza della confisca della casa, che anche i suoi genitori dovettero subire. Nella Gerusalemme ovest diventata israeliana nel 1948, ricostruisce Amiry, le abitazioni più belle venivano assegnate agli alti funzionari dello Stato, fra i quali anche Golda Meir che fu primo ministro.

SuadScrittrice di successo internazionale, ma anche fondatrice di Riwaq, organizzazione non governativa per la tutela del patrimonio artistico e architettonico della Palestina, Suad Amiry nel frattempo è rientrata a Ramallah. «Qui è davvero terribile» ha scritto pochi giorni fa in una mail indirizzata all’amica Fiamma Arditi, raccontandole di una manifestazione di diecimila Palestinesi al check point Qalandia fra Gerusalemme e Ramallah e della violenta reazione dei militari israeliani, che hanno ucciso dieci persone e ne hanno ferite almeno duecento. I Palestinesi «protestano con le loro voci, con le loro bandiere, ma vengono attaccati con le armi» sottolinea Arditi. E i morti sono già più di mille, senza contare i tantissimi feriti. «Il direttore del Conservatorio Edward Said di Gaza, Ibrahim Al Najjar – prosegue la giornalista – mi ha scritto “vogliamo stare tutti insieme in questo momento, figli, nipoti, amici”. Cerca di dare valore agli affetti. Non perde tempo a lamentarsi.

Tanto il mondo vede quello che sta succedendo». Ed è questa fiducia nell’umano, nonostante tutto, questo tentativo di affermare la propria identità rifiutando la violenza, il filo rosso che unisce le storie di artisti e intellettuali che Arditi ha scelto di raccontare in Buongiorno Palestina. «Questo non è un libro politico» avverte però l’autrice che vive e lavora a New York. «È dedicato a quegli artisti che, con fantasia, cercano di reagire e di trasformare l’oppressione che subiscono quotidianamente in una lingua che possa parlare al resto del mondo».

Suad Amiry

Suad Amiry

Buongiorno Palestina «è un libro importante perché è un libro sulla vita e non sulla morte », ha detto Suad Amiry presentandolo a Roma. «Perché rompe gli stereotipi che dipingono i Palestinesi come terroristi». «Non è stata una scelta razionale, fatta a tavolino – spiega la giornalista italiana – è nata dagli incontri, dal desiderio di raccontare la resistenza psicologica e la voglia di reagire delle persone». Come lo scrittore Raja Shehadeh, attivista dei diritti umani che denuncia l’illegalità dell’occupazione e la criminalità dei bombardamenti che colpiscono i civili. Come Khaldun Bshara, condirettore di Riqwa che ha aperto la Onlus ai giovani facendone una fucina di nuovi talenti. Come i tanti writers palestinesi che hanno fatto fiorire impreviste immagini di libertà sul muro di Gerusalemme.

«Con grande dignità queste persone lavorano e portano avanti i loro progetti nonostante l’accerchiamento che dura da 75 anni e che non ha eguali al mondo », rimarca Arditi. Affrontando ogni giorno difficoltà di ogni tipo, dalla scarsità di mezzi, alla censura, alla repressione violenta.

Tristemente esemplare in questo senso è la vicenda della curatrice Vera Tamari che nel 2002 realizzò l’installazione Let’s go for a ride riciclando carcasse di auto che erano state schiacciate dai carri armati israeliani. «Ne ripulì una quindicina e le dispose in fila indiana sopra una gettata di cemento che – ricorda Fiamma Arditi – simulava una strada senza inizio né fine, dove non si poteva procedere né tornare indietro». Dalle auto uscivano note rock, hip hop, musiche e canti tradizionali, trasmesse in contemporanea dalle autoradio mentre voci si levavano da più parti, gridando e formando una cacofonia di suoni. Un’installazione artistica e di protesta «che non faceva male a nessuno», chiosa Arditi.

EmilyPer tutta risposta il 23 giugno del 2002, giorno dell’inaugurazione, i soldati israeliani entrarono nel campo con i carri armati e schiacciarono le auto una seconda volta. La censura israeliana è arrivata anche all’assurdo di impedire ai pittori palestinesi l’uso del bianco, del rosso, del verde e del nero insieme in un quadro, perché sono i colori della bandiera palestinese. Alla fine degli anni Settanta l’artista palestinese Sliman Mansour con altri aveva dato vita alla Galleria 79 a Ramallah.

«Ma i soldati israeliani entravano e uscivano. E se a loro non piaceva qualche quadro perché aveva contenuti politici lo confiscavano», racconta ancora Arditi. E per quanto oggi a Gaza non abbiano nemmeno la luce, alcuni artisti cercano di organizzare laboratori e allestire mostre.

Emily Jacir per Venezia

Emily Jacir per Venezia

Uscire dai Territori per esporre altrove, del resto, significa dover fare i salti mortali per ottenere dei permessi speciali. Ma capita anche che impedimenti al lavoro degli artisti palestinesi sorgano per «ragioni di sicurezza». Come è accaduto a Emily Jacir, che vive tra Roma e Ramallah e che, per la Biennale di Venezia, aveva concepito un’opera che affiancava al nome italiano delle stazioni dei vaporetti la traduzione in arabo.

Alla fine il progetto fu stoppato, proprio per supposte ragioni di sicurezza. «Che diventano così una forma di discriminazione – commenta Arditi-. Tutti i Paesi hanno un loro spazio in Biennale con installazioni di ogni tipo, questa era un’opera silenziosa ed è stata negata. Ma mentre le bloccano un progetto Emily passa al progetto successivo, studia come uscire dalle maglie di questa censura universale, non solo israeliana, per continuare a raccontare e raccontarsi».

dal settimanale Left

 

Manifestazione per Gaza

Manifestazione per Gaza

Appello alle Nazioni Unite per Gaza. Il commento di Abdalhadi Alijla

di Simona Maggiorelli

«Israele ha ancora una volta scatenato tutta la forza del suo esercito contro la popolazione palestinese imprigionata, in particolare nella Striscia di Gaza assediata, in un disumano e illegale atto di aggressione militare». Così recita l’incipit dell’appello indirizzato alle Nazioni Unite da intellettuali e premi Nobel. Fra i firmatari figurano anche registi come Ken Loach e Aki Kaurismäki, musicisti come Brian Eno, Roger Waters e molti altri. «Ogni uomo libero, ogni donna libera sulla terra conosce la verità e comprende bene la necessità che finisca l’occupazione militare», commenta lo scrittore Abdalhadi Alijla, ricercatore all’Università di Milano e direttore dell’Institute for Middle East Studies, Canada «Questo manifesto rappresenta un impegno importante. Ma i Palestinesi hanno bisogno di azioni concrete. L’inerzia dell’Onu e degli Stati Uniti è vergognosa. Occorre un embargo contro Israele»..

Abdalhadi Alijla,

Abdalhadi Alijla,

Come giudica ciò che sta accadendo a Gaza?

L’attacco alla Striscia di Gaza è un’aggressione e una chiara indicazione che Israele non vuole la pace. Hanno attribuito ad Hamas il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani ma la televisione tedesca ha dimostrato che il governo di Tel Aviv ha mentito, avendo le prove che la responsabilità era di un altro gruppo. Inoltre Israele ha fatto finta di nulla fino a quando non sono stati ritrovati morti per alzare la tensione e minare la tenuta dell’Autorità palestinese. Una strategia tesa a distruggere la possibilità per i Palestinesi di avere uno Stato indipendente. L’invasione di Gaza e l’uccisione di bambini, donne e anziani erano pianificati da tempo.  Il rapimento è stato solo un pretesto di Netanyahu e del suo governo reazionario per costringere i Palestinesi ad accettare le condizioni di Israele per non essere sterminati. Sono azioni di pulizia etnica. E’ in atto un genocidio.

 Nonostante le violenze in atto, molti artisti palestinesi e scrittori cercano di utilizzare l’arte come arma. È possibile in questo contesto?

 L’arte è una forma di lotta e di resistenza. È importante lottare per i nostri diritti. Sono in atto tentativi da parte di Israele di distruggere la nostra cultura. Ogni artista palestinese deve essere in prima linea per impedirlo, usando la propria creatività.

 Cosa pensa dei report giornalistici italiani che riguardano Gaza?

Oggi per fortuna non ci sono più solo i canali di informazione tradizionali. Ci sono i social media e alcuni giornalisti a Gaza – in particolare quello del quotidiano Il Manifesto- stanno facendo buona informazione anche tramite facebook, twitter e youtube.

E del concerto di Noa annullato a Milano?

È il classico modo sionista per mettere a tacere chiunque critichi Israele. Non mi sorprende affatto.

 

Mister Abdalhadi Alijla. which is your opinion on the Manifesto for Gaza signed by Nobel Prizes, intellectuals and artists like Brian Eno, Ken Loach and many others?

Every free man and woman on earth knows the truth. They understand that there is a need for the end of occupation. We thanks them and their efforts but it is not enough. The Palestinians need actions and not only words and appeals. We have seen the stand of the UN and the USA, it is shameful. Their efforts must be extended to raise awareness and call for boycotting Israel in general.

What do you think of  Israel’s attack on the Gaza strip? 

Well, the attack on the Gaza strip is an agression and a clear indication that Israel does not want peace. They fabricated the kidnapping of the 3 Israeli kids and claimed that it was Hamas. Last week, the German TV showed an investigation report  that proved that the kids were not kidnapped by Hamas and it was  a criminal act. Israel knew the kids were kileld from the beginning too. So, they did this play to undermine the Palestinian Authority ability and to destroy the Palestinians ability to have an independent state. The attack was planned long ago before the the kidnapping of the three kids. It was a scape goat for NETANYAH and his radical government from peace process and to make pressure on the Palestinian Authority and the Palestinians in general to accept what Israel want.  The attacks are mostly against civilians, women and children. All of this indicate that Israel committing a genocide. They murdered dozens families totally(the parents, sons and daughters and uncles). At the end, this aggression is a continuous ethnic cleansing of the Palestinian since 1948. It is not knew.

Despite the violence, many palestinian artists an writers try to use art as a weapon. Is it possible?

Art is one way for struggle. It is similar to writing and fighting in the battle field. It is important to fight for our culture rights and to spread the word through artistic work. There is also Israeli attempts to steal our culture and we need those artist to be in the front lines in our culture battle. Writings and activism is also another way, cooking also a fight for the rights of the Palestinians.
 What do uou think of  Italian media reports on Gaza?
You know, the international media is always try to be neutral, even on the expenses of the victims and the true words. Nowadays, the media is one way, there is social media(Facebook, twitter and youtube). Some reporters in Gaza are doing well. Georgio of Manifesto is doing great job. Also international activists..
And about actions like the cancellation of Noa’s concert in Milan?

Cancellation of Noa’s concern is one way of the zionist everywhere to shut up everyone who able to criticize Israel. I am not surprised at all.

dal settimanale left

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Bombe di creatività

Posted by Simona Maggiorelli su agosto 15, 2011

William Parry racconta come il Muro sia stato trasformato dai writers in un manifesto della Resistenza palestinese
di Simona Maggiorelli

Bansky, Palestina

L’impatto del Muro è stato particolarmente duro per le comunità rurali palestinesi, per la distruzione di alberi, raccolti e sistemi di irrigazione provocata dal sistema di reticolati elettrici, strade di pattuglia, fossati e zone cuscinetto che attraversano le coltivazioni palestinesi. Ma la cosa più grave e che in otto degli undici governatorati cisgiordani, la traiettoria del Muro isola campi e serre, sottraendo terra e risorse idriche a decine di migliaia di palestinesi. Secondo una ricerca dell’Agenzia delle Nazioni unite per i profughi palestinesi (Ocha/Unrwa) del 2007, solo nel Nord della Cisgiordania sono 67 le comunità la cui terra è stata isolata nell’area chiusa compresa fra il Muro e la Linea verde, una popolazione stimata di 220mila persone». Da questa sintesi del parere consultivo espresso dalla Corte internazionale di giustizia nel 2009 emerge tutta la drammaticità dell’impatto della barriera costruita tra il 2004 e il 2005 da Israele in Cisgiordania, ufficialmente per impedire «l’intrusione di terroristi palestinesi sul proprio territorio». Nei fatti il Muro impedisce quotidianamente alla popolazione palestinese l’accesso alle cure mediche, al lavoro, all’educazione, alle relazioni personali.
Meglio di qualsiasi saggio, Contro il Muro. L’arte della resistenza in Palestina(Isbn edizioni) del giornalista e fotografo William Parry documenta la creatività con cui i palestinesi reagiscono alla violenza israeliana denunciata dalla Corte di giustizia. Catturando le immagini dei graffiti e murales che hanno trasformato il Muro eretto da Israele in una sorta di gigantesca tela (lunga 275 chilometri) di solidarietà e resistenza. Scorrendo le pagine di questo volume fotografico colpisce la vivacità e la freschezza con cui artisti internazionali e attivisti palestinesi, tra cui Bansky, e Blu, lanciano i loro messaggi di pace e non violenza.

Così qualcuno traccia una scala su cui idealmente si può salire per scavalcare la barriera di cemento. Qualcun altro immagina soldati israeliani, faccia al muro, perquisiti da una bambina che vuole buttar via le loro armi. E ancora, in colori sgargianti campeggiano scritte in cui ci si domanda: «Come è potuto accadere che l’oppresso sia diventato oppressore?». E ancora, rivisitazione del celebre Guernica di Picasso, dove appaiono in frammenti le immagini degli eccidi di donne e bambini palestinesi.
Più in là l’artista americano Ron English veste il classico Mickey Mouse con la kefiah e sopra scrive: «Non sei più a Disneyland», lanciando strali a chi ha persino tentato di trasformare il Muro in un’attrazione turistica. Ma su tutto svetta la vitalità e il continuo incredulo interrogarsi dei writers palestinesi che con le loro immagini chiedono al mondo di aprire gli occhi sulla politica sanguinaria e oppressiva dello Stato di Israele.

da left-avvenimenti del  18 settembre 2010

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Il vero volto della regina di Saba

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 10, 2009

img2-da-scontla regina di Saba secondo Moreau

in alto sculture yemenite III millennio a.C

Donna di leggendaria bellezza secondo la cultura araba preislamica.

La tradizione ebraico-cristiana la degradò a demone dal piede caprino.

di Simona Maggiorelli

Una lunghissima e feroce storia di alterazione dell’immagine perseguita la Regina di Saba: donna di leggendaria bellezza e sapienza secondo la cultura preislamica araba, che la tradizione ebraico-cristiana degradò a demone dal piede caprino. Mentre i Vangeli di Matteo e Luca ne fecero addirittura un’astratta allegoria della Chiesa in cerca di Cristo. Una storia feroce e millenaria, più subdola di una damnatio memorie. Tanto che se ne possono ancora cogliere segni nella mostra veneziana Nigra sum sed formosa che, presentando in Ca’ Foscari reperti archeologici e testi antichi provenienti dall’Etiopia, ascrive tout court la regina di Saba alla tradizione copta, facendone la “madre santa” della stirpe salomonide che sarebbe arrivata fino al Negus.
«Di lei non sappiamo con piena certezza né il nome né l’epoca in cui visse, anche se la comunità scientifica oggi è concorde nel dire che la leggendaria regina di Saba sia esistita davvero» scrive Daniela Magnetti nel volume La regina di Saba, arte e leggenda dallo Yemen (Electa). Conosciuta come Bilqis in Yemen, Makeda in Etiopia e Nikaulis in Palestina, gli storici collocano il regno della regina di Saba in quell’Arabia felix che i Romani tentarono invano di conquistare; e più precisamente in quella città di Marib, che nel Nord dello Yemen fu abbandonata intorno al 570 d. C, dopo il crollo della diga che la preservava dal deserto. Non a caso nelle storie della tradizione orale yemenita Bilqis è la regina adoratrice del Sole, signora di una terra fertile di giardini e fontane. E un autorevole studioso come Alessandro de Maigret oggi conferma: “In base alle campagne di scavo, condotte fin dal 1980 in Yemen, si può datare il regno di Saba al decimo secolo avanti Cristo”: la regina Bilqis, spiega l’archeologo italiano, probabilmente favorì la trasformazione dell’altopiano in terre fertili grazie a complessi sistemi di irrigazione.
Oggi dell’antichissima città di Marib dove sorgeva il palazzo reale dei sabei non restano che suggestivi ruderi. Una città fantasma alle soglie del deserto, terra di beduini ma anche, purtroppo, di sequestri di turisti. Per percorrere i 120 km che separano la capitale Sana’a da Marib serve la scorta di militari armati e un faticoso percorso a tappe fra i posti di blocco. Anche per questo, forse, vedere d’un tratto le svettanti colonne del tempio del Sole, su cui si arrampicano ragazzini che sembrano usciti dal nulla, è un’emozione che difficilmente si dimentica.

Ed è qui, in uno dei due templi della regina di Saba che Omar, un po’ guida un po’ cantastorie della tradizione yemenita, ci ha fatto conoscere la storia di Bilqis secondo una delle versioni islamiche più suggestive, quella di Ta’labi, commentatore del Corano, vissuto intorno al 1053. Come nelle storie tramandate oralmente dai beduini, la sua Bilqis nasce dalle nozze del re Hadhad con la figlia del re dei Jiinn, che nelle credenze arabe popolari erano creature dai poteri soprannaturali. Secondo questa versione l’incontro fra la regina e Salomone sarebbe stato un gioco di inviti attraverso un upupa messaggera e di seduzioni da parte della bella regina. Ma, diversamente da quanto racconta la Bibbia, per la tradizione araba, quello fra Bilqis e Salomone sarebbe stato un confronto alto fra due diverse identità e due diverse culture e sapienze. “Bilquis – racconta il nostro Omar sulla scorta di Ta’labi – sfidò la sapienza leggendaria di Salomone, il re di Gerusalemme,mettendosi in viaggio verso la sua reggia con una carovana di cammelli che portavano oro, pietre preziose e gioielli poi donati al re da ragazzi vestiti come fanciulle e viceversa. Ma – avverte Omar – c’era un enigma che, agli occhi di Bilqis, Salomone doveva sapere sciogliere: per raggiungere il suo cuore doveva distinguere le ancelle femmine dai maschi, forare una splendida perla e infilare un fio d’oro nella conchiglia». Una storia che avrebbe affascinato nei secoli poeti e artisti, non solo nei Paesi arabi. Anche in Occidente. Basta pensare ai ritratti della regina di Saba che ci hanno lasciato pittori come Piero della Francesca, Tintoretto e Moreau (nella foto in basso) . «Una vicenda affascinante- conclude de Maigret – anche se sul piano della storia quell’incontro probabilmente non avvenne mai dal momento che il regno del re di Gerusalemme fu tra 961 e il 922 a.C ,mentre quello della regina di Saba fu assai più antico».

da left-Avvenimenti del 3 aprile 2009

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