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I musei del nuovo millennio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 15, 2006

Ormai sembrava che il sogno del contemporaneo, a Roma, fosse destinato a svanire. Nonostante la seducente macchina del MAXXI, progettato dall’anglo-iraniana Zaha Hadid, nonostante i grossi annunci, a cui però non sono mai seguiti i necessari investimenti. Progettato nel ’99 il museo del XXI secolo, a agosto, era un cantiere deserto: gli operai in ferie, si diceva, non sarebbero tornati. Ma il ministro Rutelli (ora alle prese con la protesta del suo miglior consulente, il professor Settis, contro il ripristino del silenzio-assenso) almeno una buona cosa l’ha fatta: mettersi in cerca dei circa 60 milioni di euro per completare i lavori. Segnali di disgelo, di ripartita che si leggono anche nel programma di iniziative del direttore del Darc (la sezione architettura del MAXXI) Pio Baldi. In primis l’apertura il 21 settembre, nelle sale di via Reni, della mostra Museums proveniente da Dusseldorf e che, a partire dalla rivoluzione compiuta da Piano e Rogers nel ’77 a Parigi con il Centre Pompidou, racconta il cambiamento radicale del modo di intendere i musei contemporanei nel mondo: non più semplici cubi bianchi, minimalisti, neutri, ma architetture avveniristiche, immagini di fantasia che ridisegnano tutto il paesaggio attorno. Paradigma di questa novità, il Guggenheim progettato da Franck O.Gehry, vorticosa creatura dì titanio che con le sue spirali decostruttiviste è diventata presto un’icona. Tanto da far parlare di “effetto Bilbao”. Ma accanto a progetti come questo, apparentabile per ricchezza di materiali utilizzati al museo del XXI secolo di Dusseldorf, sono nati, più di recente, anche musei capaci di integrarsi nel paesaggio diventando un elemento quasi naturale. È il caso dell’elegante Mart di Rovereto di Mario Botta che ha sconfessato in Italia vecchi pregiudizi sul contemporaneo diventando a tempo di record meta di un turismo culturale attento e che si rinnova di continuo. Seguendo un’ispirazione analoga, accanto alle “grandi cattedrali” come il nuovo Moma newyorkese di Taniguchi e accanto all’astronave in acciaio e cristallo pensata da Coop Himmelb(l)au per Lione, ecco la costruzione “naturale”, con materiali e colori caldi della Catalogna, realizzato da Richard Meir nel ’92 per Barcellona e che è diventata in pochi anni un polo importante di vita culturale e un fòrte centro di attrazione turistica. Attraverso schizzi, bozzetti, plastici e video la mostra Museums racconta questa metamorfosi dei musei, da semplici contenitori, funzionali a spazi d’invenzione, di fantasia, dove il segno degli architetti si fa sempre più forte e originale. Portando i visitatori in un immaginario viaggio intorno al globo, ma anche proiettandoli nell’orizzonte futuro del MAXXI di Hadid, con le sue linee morbide e sinuose, per scoprire, poi, oltre al futuro dei musei più all’avanguardia, anche alcune piccole perle “hyperlocal” che a sorpresa si scovano qua e là in Italia, come il Man, spazio d’arte d’eccellenza del tutto inaspettato in un paesaggio urbano di una piccola cittadina come Nuoro.

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"La città degli Uffizi"

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 8, 2006

Fine studioso di Leonardo e di Andrea Del Sarto, Pontormo e Rosso, a cui una decina di anni fa dedicò un’affascinante mostra: L’officina della maniera. Ma anche direttore di oltre trecento restauri di dipinti e paziente riordinatore delle sale degli Uffizi culminata di recente nel recupero della sala della Niobe. Da venticinque anni Antonio Natali lavora agli Uffizi, ma mai come in questi giorni si è visto sulle cronache dei giornali. Per esserne diventato, con un passaggio del tutto naturale, il nuovo direttore. Ma anche per un fatto più spiccio, quei 1600 euro di busta paga da direttore degli Uffizi che sono finiti in prima pagina del Domenicale del Sole 24 Ore. «Lo stipendio più chiacchierato d’Italia», scherza il professore, con vena un po’ bianciardiana, da maremmano doc. «L’intento dell’articolo era lodevole, andava oltre me, per denunciare una situazione generale, molto dura; per chi lavora nei musei e nelle soprintendenze italiane — commenta Natali — ma non capisco perché essere pagato come un semplice insegnante dovrebbe essere offensivo, come qualcuno ha scritto. Mia moglie, che insegna a scuola, si è arrabbiata moltissimo».

Negli ultimi anni, però direttore, la situazione è peggiorata. Assunzioni bloccate per i giovani e un rapido allentamento di dirigenti di vaglia, alla soglia della pensione. Come, per parlare degli Uffizi, è toccato un paio di anni fa a Anna Maria Petrioli Tofani. Un ministero un po’ ingrato verso chi ha dedicato una vita al patrimonio artistico? Anna Maria è stata un’ottima direttrice, se ne è andata per raggiunti limiti d’età. Ma è vero che sono tempi questi in cui, per ragioni finanziarie, non viene concessa proroga, a nessuno. Parlando degli Uffizi, poi, penso anche che non si debba puntare sulla cronaca ma sulla storia. Perché questo è un edificio che non si misura né con i mesi né con gli anni, ma con l’eterno. Sarà la storia a giudicare quello che ognuno di noi ha fatto o avrebbe potuto fare e non ha fatto. Ma è anche vero che è difficile lavorare bene solo se le strutture mancano o se chi va in pensione non viene sostituito, come spesso capita. Nel nostro ministero, in questo senso, c’è stato un gioco al ribasso, che ha riguardato tutti i livelli e gradi della professione. Il risultato pratico è che i custodi sono sempre di meno, le segreterie sempre più sguarnite e mandare avanti un’istituzione come questa, che pesa come un carro armato e ha il motore di una Vespa cinquanta, è difficile.

Lei conosce a fondo gli Uffizi. Ci lavora dall’81. Tutti s’immaginano che sappia già dove mettere le mani, nel suo nuovo ruolo di direttore…

Dove mettere le mani? Per ora, fra i capelli. Se fossi stato chiamato a dirigere un museo, da straniero, probabilmente avrei avuto quei 4 o 5 giorni di felicità e di gratificazione. Poi magari, una volta sul posto, mi sarebbe venuto qualche pensiero. Qui sapevo già cosa mi aspettava, non ho dovuto scoprire niente. So bene che in tempi brevi bisognerà procedere al riordino della galleria. Cpn una nuova distribuzione delle opere, la ricostruzione di una trama espositiva che renda il più possibile educativa, lieve, il meno possibile impacciata una visita agli Uffizi.

Periodicamente, con la mostra “I mai visti” negli anni passati ha fatto riemergere molte opere dai depositi degli Uffizi, si parla di tanti capolavori accatastati. Cosa contengono veramente?

Come dicevo dinanzi, l’idea è quella di pensare a una diversa distribuzione dei quadri della galleria, a maggiori intervalli fra opera e opera. Un progetto in linea con le direzioni che mi hanno preceduto. Gli Uffizi fra qualche tempo godranno di spazi raddoppiati, e finalmente potranno dare la possibilità di una lettura delle opere che abbia tempi diversi. Oggi ci sono sale in cui capolavori indiscussi sono sistemati a una ventina di centimetri l’uno dall’altro. Dal momento che sono testi poetici, e non feticci turistici, come visitatore devo poter avere agio di vedere il quadro, di poterne per le mie capacità percepire la poesia interna, senza che il mio sguardo sia frastornato, come accade, dal quadro accanto di un altro artista o dello stesso artista ma di un altro periodo. Leggere insieme Foscolo e Leopardi affasteliandone le letture non è utile. In futuro i dipinti che ora si trovano all’ultimo piano passeranno al piano sottostante e recupereremo opere anche dai depositi. Ce ne sono tantissime ma non tutte sono compatibili con il tenore delle sale nobili. I depositi sono dei serbatoi del gusto: quello che oggi si considera importante magari domani non lo sarà più. Nel tempo muta il gusto e servono differenti regie. Nei depositi degli Uffizi ci sono opere che oggi la critica non ha sufficientemente rivalutato, ma non bisogna pensarli come luoghi di poca cura. Sono spazi ben ordinati, dove le opere non hanno tutti i traumi di quelle esposte. Non c’è il via vai dei turisti, c’è un’oscurità costante, non ci sono sbalzi di temperatura. Le opere più importanti, comunque, entreranno in galleria. In parte anche quelle, soprattutto del seicento e del settecento, conservate ora nel corridoio vasariano.

Un’altra ala importante degli Uffizi, che conduce fino a Palazzo Pitti. Che futuro avranno le opere che ora sono lì esposte?

Fatta la premessa che in Italia, diversamente che in Francia o altrove, il direttore di museo ha solo una certa autonomia, esprime dei pareti etici e ideologici che poi devono essere sottoposti al soprintendente con una precisa gerarchia, posso dire che la mia idea sarebbe che il corridoio vasariano fosse un piano nobile in cui non ci sia soltanto un transito aereo attraverso la città per arrivare a Boboli con mura nude o quasi spoglie. Le collezioni degli Uffizi sono talmente vaste che rinunciare al corridoio vasariano significherebbe rinunciare a un luogo dove ci sono circa settecento opere. E che non possono essere sistemate in luoghi d’avventura. Una soluzione potrebbe essere portare una parte di queste opere in galleria e, per quanto riguarda i ritratti, che sono una parte consistente, sul modello della National Gallery di Londra, far nascere qualcosa di simile all’adiacente National portrait gallery, con una ricca sezione iconografi ca di disegni e ritratti di condottieri, di principi di duchi, di scienziati, che qualche volta portano firme importanti. Potrebbero essere un archivio poetico di memorie, fatto non solo di carte fredde.

Dove potrebbe nascere questo ideale musei dei ritratti?

Dietro agli Uffizi si sta per liberare il Palazzo di Giustizia, elegante, austero, mi sono chiesto se una parte non potrebbe essere dedicata a queste collezioni che altrirnenii rischiano di restare poco viste. Oltretutto si tratta di un edificio fra il Bargello e gli Uffizi, in una sorta di strettoia, magari potrebbe essere raggiungibile passando dal sottosuolo. Io penso che il futuro dei musei nelle città di oggi sia molto nei sotterranei, come accade al Louvre. Sarebbe un polmone importante anche per il Bargello, un museo di una bellezza fuori dell’ordinario, ma costipato, che non può accogliere più nemmeno uno spillo.

Uno scenario affascinante ma rischia di scontrarsi poi con gli inceppi della burocrazia. È già successo con la Loggia progettata da Isozaki. Cosa ne pensa? Penso che vada fatta. Per ora il retro degli Uffizi è equiparabile al retro di un cinema di seconda categoria, davanti bellissimo dietro molto meno, anche maleodorante. Sarebbe nobilitato da una grande loggia. E poi se si fa un concorso a cui partecipano i più importanti organi dello Stato poi non si può dire abbiamo scherzato.

A Firenze è molto forte la tradizione del Rinascimento, ma certe opere, per i turisti, rischiano di diventare feticci?

Lo sono già per quei turisti che non si fermano nemmeno a dare uno sguardo alle altre opere che ci sono nella sala per vedere la Venere di Botticelli.

Occorrerebbe allargare lo sguardo?

Il bene con gli Uffizi coincide con il bene di Firenze. Se gli Uffizi sono ingolfati occorre che la città tutta, in ogni suo angolo diventi un polo di attrazione culturale. E può farlo. Quando ero un giovane collaboratore di Luciano Berti, una figura per me fondamentale dal punto di vista morale, di studio e di trasporto per questa città, pensai a un titolo agostiniano per una mostra “La città degli Uffizi”. Non a caso. C’è un rapporto davvero osmotico con la città. Non si tratta di un museo in una piana americana riempito con opere del Trecento e Quattrocento che arrivano da molto lontano. Le opere degli Uffizi vengono da palazzi e chiese della città. Basta dire che seguendo la linea dell’Arno, dalle finestre della galleria si intravede il complesso conventuale di San Bartolomeo da cui proviene l’Annunciazione di Leonardo. È lì accanto mentre noi guardiamo l’opera. Bisogna mantenere vivo questo rapporto. Chi fa la fila per vedere il David all’Accademia va informato che a pochi passi c’è il chiostrino dei voti dell’Annunziata dove ci sono le origini della Maniera moderna: il giovane Andrea del Sarto, l’ancor più giovane Rosso Fiorentino e il parimenti giovane Pontormo, uno snodo culturale fondamentale non solo per l’arte italiana.

Un rapporto più stretto fra patrimonio e territorio. Fa venire in mente la casa natale di Pontormo, a Empoli che lei ha appena inaugurato.

Un luogo straordinario della memoria di uno dei massimi artefici della pittura del Cinquecento. È un esempio concreto di recupero che dimostra come l’arricchimento culturale di quello che c’è intorno non sia un impoverimento di quello che c’è qui agli Uffizi e che comunque ci sarà sempre.

Simona MaggiorelliEuropa

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Beni culturali non petrolio, ma anima dello sviluppo

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 17, 2006

Incontro con Salvatore Settis, nuovo presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali.

Arte, bellezza, ambiente non sono né “giacimento” né Patrimonio Spa, ma inalienabile ricchezza di tutto il paese. La legge Tremonti va cambiata e bisogna tornare alla Costituzione in una visione dinamica dell’interesse nazionale. Le mostre devono valorizzare i musei non sostituirli.

Una foltissima passione civile attraversa tutto il percorso di Salvatore Settis, che non è solo archeologo di rango e fautore di importanti edizioni scientifiche come quella del papiro di Artemidoro che sta lavorando in questi mesi. Fuori dalle aule della Normale di Pisa (di cui è rettore), il professore si è sempre tuffato nella discussione pubblica, in difesa del patrimonio artistico italiano. Con articoli, pamphlet, libri. Ma anche accettando di tenere una certa dialettica con la politica. In posizione critica, da outsider, come consulente di Urbani per il Codice e ora, in modo più diretto, raccogliendo l’invito di Rutelli a ricoprire la carica di presidente del Consiglio superiore dei Beni Culturali del ministero.

Professor Settis nel libro Italia S.p.a, denunciava l’assalto al patrimonio culturale compiuto con la creazione della Patrimonio S.p.a. Che cosa ha prodotto dal 2002 quella società voluta da Tremonti?

Quell’operazione è stata un fallimento. Quello che ha prodotto di introiti per lo Stato è stato infinitamente inferiore a ciò che ci si aspettava. E mi piacerebbe sapere quanto è costato metterla in piedi. Spero che questo governo faccia chiarezza rendendo pubblici dati ufficiali certi. Per fortuna la parte più aggressiva della norma che rendeva vendibile l’intero patrimonio pubblico è stata arginata da un decreto congiunto fra il demanio e il direttore generale dei Beni culturali. Ma è ancora una legge dello Stato e, a mio avviso, andrebbe modificata in modo radicale. In base a un principio per cui il patrimonio pubblico si può vendere solo quando non abbia valore culturale. Ciò che ha valore culturale deve ricadere nell’assoluta inalienabilità, come dice peraltro il codice civile.

Un suo recente articolo sul Sole 24 Ore ha acceso un dibattito sul cosiddetto “benculturalismo”. Che impressione ha avuto dalla reazione dei giornali?

In realtà era un articolo dal tono scherzoso. L’ho scritto per divertirmi e per divertire il lettore. Ma c’è qualcuno a cui, evidentemente, non piacciano le battute di spirito, e che ha preso alla lettera come, non so quale manovra della sinistra. Devo dire che ho trovato tutto ciò assolutamente esilarante. Riguardo alla dizione beni culturali va ricordato che si è scelto questo termine cercando una definizione il più possibile neutra. Ma da un certo punto in poi ha cominciato, invece, ad indicare il valore economico del patrimonio. Quando fu creato il primo ministero dei Beni culturali presieduto da Spadolini, nel 74-75, lo si fece dicendo che il patrimonio culturale meritava più investimento, poi il discorso si è degradato e c’è stato chi, assimilando i beni culturali al petrolio, li ha considerati come oggetti del salvadanaio che quando serve si rompe. Questa concezione troppo economicistica di beni culturali ha prodotto dei danni. Ma non è la parola che non funziona, ma l’uso che se ne fa. Va riempita di contenuti. E in questo abbiamo un compito facilitato, perché i contenuti sono quelli dell’articolo 9 della Costituzione. Non c’è niente da cambiare.

Con questa concezione economicistica si sono spolpate di competenze le soprintendenze territoriali, affollando di manager e posizioni di vertice gli uffici del ministero. Come si cura questo squilibrio?

Ripristinando la priorità della competenza. Nessuno si affiderebbe ad un medico che non sia un medico. Così non capisco perché un sociologo, per fare un esempio, debba prendere decisioni vitali per l’archeologia. È completamente insensato: è uno degli elementi molto negativi della riforma Urbani che va assolutamente corretto.

Anche sbloccando le assunzioni?

La media degli addetti oggi è di 55 anni, le nuove assunzioni sono necessarie, ma vanno fatte sulla base di competenze reali, di dati concorsuali di sicurissima qualificazione, eliminando la tentazione demagogica di fare assunzioni ope legis, che non garantiscono qualità.

I giovani storici dell’arte oggi, anche se preparati, fanno fatica a inserirsi nel mondo del lavoro. Che fare?

Negli ultimi quindici anni c’è stata un’assoluta schizofrenia. Gli stessi governi – quelli di centrodestra hanno particolarmente brillato in questo – da un lato hanno incoraggiato la formazione di nuove facoltà di beni culturali invitando le persone a studiare storia dell’arte, l’archeologia eccetera, dall’altro lato hanno completamente bloccato le assunzioni. Così hanno creato delle fabbriche di disoccupati. Certo riaprire le assunzioni risolverebbe il problema, purtroppo però riforme universitarie sempre più infelici, da quella Berlinguer a quella del ministro Moratti, hanno portato a differenziare i curricula universitari in un modo drammatico. Ora bisogna davvero ripristinare la priorità della competenza, chiarire quali sono i profili professionali di cui abbiamo bisogno. Si è creata una straordinaria confusione che danneggia il paese ma anche i migliaia dei giovani, spesso molto preparati, nonostante lo spezzettamento del sapere nelle università da cui provengono.

In questo quadro come dare nuova incisività al Consiglio di cui è diventato presidente?

Occorre riguardare competenze e composizione del Consiglio, che da alcuni anni è stato di fatto esautorato. La decisione politica di ridargli vitalità, fiato, funzionalità è del ministro Rutelli. Spero molto, nelle nuove competenze che il ministro vorrà dare a questo organo, di poter giovare a questa opera di rilancio dei beni culturali. Abbiamo quasi dimenticato che questo può essere uno dei settori trainanti per lo sviluppo del paese. Dobbiamo tornare a questa auto-consapevolezza anche attraverso una fierezza professionale di chi lavora in questo settore. Credo che in questo il Consiglio superiore potrà dare una mano al ministro quando lo avrà resuscitato dal letargo in cui giace.

La proliferazione di mostre ha fetta parlare di un’Italia malata di “mostrite”. Non sarebbe più opportuno investire per riattivare una rete museale di più largo respiro?

Oggi c’è questa strana idea per cui da un lato ci sarebbe il museo come pura e passiva conservazione, dall’altra le mostre come pura attività. Ma non è affatto così. La quantità di cose che si possono e si dovrebbero fare nei musei e nel territorio è gigantesca. Ed è lì che servono le competenze. Faccio un esempio, un archeologo può occuparsi del rapporto fra le città che crescono e le preesistenze archeologiche, pensare a come valorizzarle, in modo che i cittadini siano consapevoli che sotto casa loro una volta c’era una villa romana o una città greca come succede in Sicilia. Io credo che le nuove professionalità debbano forgiarsi anche in una nuova capacità di dialogare con il cittadino. Questo non si fa solo attraverso le mostre. Le mostre ci vogliono ma devono avere una funzione, l’effimero deve servire al permanente, non il contrario. Stiamo arrivando al paradosso per cui i musei sono i serbatoi da cui si traggono le mostre, invece le mostre dovrebbero servire a rivitalizzare i musei.

E cosa fare, invece, per la rete del contemporaneo che in città come Roma o Firenze appare ancora come una tradizione un po’ debole?

È uno dei grandi paradossi del nostro paese. Per tutto il Novecento l’Italia è stata ai margini della scena internazionale rispetto alla Francia e agli Usa, quando invece ha avuto momenti importanti come il futurismo, l’arte povera o come lo straordinario laboratorio fiorentino di videoarte in cui si è formato Bill Viola negli anni 70. L’Italia ha sempre avuto grande vitalità nell’arte contemporanea, ma non si è tradotta in una presenza museale sufficiente. Negli ultimi anni si comincia a vedere un cambiamento di segno, basta pensare a esperienze come quella del Castello di Rivoli o al Mart di Rovereto, ma anche a iniziative campane come la certosa di Padula, al MAXXI di Roma, che promette di essere una realtà assai interessante. Una vera inversione di tendenza. Ora non dobbiamo correre dietro agli altri per recuperare il tempo perduto. La sfida è creare qualcosa che sia collegato alla nostra tradizione. E poi dovremmo valorizzare l’esperienza della Biennale di Venezia, che ha straordinari archivi che pochi conoscono.

Accanto ai grandi centri d’arte sta crescendo in provincia una rete di piccoli musei del contemporaneo, molto attivi. Come la Gam di Bergamo, per esempio.

Bergamo, ma anche Sassari, e c’è da registrare un crescente collezionismo di arte contemporanea, di singoli privati, ma anche di banche, di imprese. Sta nascendo una nuova sensibilità per forte contemporanea che fa ben sperare.

Un altro fenomeno che colpisce è l’interesse pubblico che stanno suscitando libri come il suo Battaglie senza eroi o Gli storici dell’arte e la peste con presentazioni affollatissime. Citando l’Italia che impressione ne ha avuto?

Noto che l’interesse è molto alto. Quando si dice che gli italiani non si interessano del loro patrimonio artistico si sbaglia. Semmai è vero che questo è stato un tema molto marginalizzato dalla politica, in parte perché a certi politici non importa nulla, in parte perché c’è sempre qualche tema più importante, dalle pensioni alla guerra in Iraq. Però il cittadino italiano è molto interessato. Alle presentazioni di librino trovato straordinaria passione, presenza e voglia di partecipare, di dire la propria e in modo molto sensato. È molto raro che il cittadino comune tiri fuori delle idee bislacche come vendersi i monumenti o il patrimonio d’arte. Queste sono idee che vengono in mente solo ad alcuni politici perversi.

Simona MaggiorelliEuropa

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Gli storici dell’arte al contrattacco

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 3, 2006

Lei è una studiosa di rango, per un decennio la direttrice della Galleria d’arte moderna di Roma, e ex soprintendeote dei beni artistici del Piemonte. Lui è un giovane curatore della collezione ottocentesca della Gnam, che si è fatto le ossa nella piccola soprintendenza modello di Matera. Insieme, Sandra Pinto e Matteo Lanfranconi hanno scritto un libro affascinante che ha creato un piccolo terremoto nel mondo culturale, facendo uscire allo scoperto storici dell’arte e accendendo sui giornali un dibattito intorno ai temi della tutela e della valorizzazione del patrlinonio d’arte. A poco più da un mese dall’uscita, Gli storici dell’arte e la peste (Electa, 269 pagine, 19 euro) è un caso editoriale. Contro la cultura da blockbuster e dell’effimero. Riportando alla ribalta una principessa all’apparenza decaduta come la storia dell’arte. «Con questo libro abbiamo voluto chiamare alla riscossa i colleghi, tentando un’operazione di recupero, rispetto alla situazione disgraziata in cui versano l’università e le soprintendenze», racconta Sandra Pinto. «Come storici dell’arte vorremmo essere un po’ meno innocui» rilancia Lanfranconi. Nonostante la distanza generazionale Pinto e Lanfranconi, insieme a molti altri studiosi d’arte, si sono trovati di fronte a uno stesso bivio: «Vogliamo chiamarci fuori rispetto alla crisi del “beniculturalismo”? Chiuderci in una torre d’avorio? Arrenderci dicendo che chi ne ha voglia continua, chi non ne ha più cambia lavoro? Oppure riconosciamo che dobbiamo fare qualcosa per cambiare questo stato di cose? Anche come autori — racconta Pinto — ci siamo accorti che per prima cosa dovevamo superare la lunga desuetudine a lavorare nel corpo vivo della società, superare il rischio di essere diventati un po’ autoreferenziali». Così siete partiti per questo vostro viaggio alla riscoperta delle eccellenza italiane. Scegliendo una forma accattivante quella della narrazione, strutturata in dieci giornate. Una brigata di storici dell’arte che cercano di sfuggire alla peste del degrado culturale? Lanfranconi: Ci piaceva l’idea di svolgere il nostro discorso in una forma dialogica. Pinto: Dopo una quarantina di interviste abbiamo deciso di fermarci. E dando una partizione alla materia ci siamo accorti che ne venivano fuori dieci capitoli, da qui l’idea delle dieci giornate. – Ma anche la scelta di raccontare storie e situazioni positive, resistenti non solo mali culturali… Non volevamo fare la solita lamentazione. Rendere all’onor del mondo una realtà di livello europeo come la biblioteca di Palazzo Venezia, per esempio, ci è sembrato contribuire alla rimonta di una gloriosa istituzione culturale. Questa è stata un po’ la scella di metodo. Questo tentativo di riportare alla luce i gioielli dell’arte e della nostra cultura quanto si scontra con la concezione dei beni culturali» emersa nella politica italiana, dalla famigerata frase di De Michelis, «l’arte il petrolio d’Italia», fino alle cartolarizzazioni della Patrimonio spa? Lanfranconi: Personalmente sono cresciuto negli anni 70 e ho assistito al formarsi di una artificiosa spaccatura: “beni culturali’ versus “opere d’arte, cultura, patrimonio”. Oggi in molti stanno riconoscendo, finalmente, che questa strada di scorporare dalla cultura in senso vasto il tema dei beni culturali, in virtù di una ipotetica tripartizione fra conservazione, conoscenza e valorizzazione, non regge. Perché la valorizzazione rischia di scivolare pericolosamente verso la redditività. E questo parametro è indipendente dal crescere o meno della conoscenza. Pinto: Quando ero giovane si parlava di Antichità e belle arti. Si disse: non funziona. Peccato, dico oggi. E lo dico come si può rimpiangere un bell’abito dell’Ottocento. Proprio parlando della disciplina, giovani storici dell’arte che fine hanno fatto? Sembrano diventati stranamente invisibili, mentre è salita alla ribalta una nuova figura, quella del curatore, con molti giovani talenti. È in corso una trasformazione? Lanfranconi: L’emergenza della figura del curatore è avvenuta soprattutto nell’arte contemporanea. Oggi il curatore sostituisce anche, in parte, le funzionalità dello storico dell’arte antica legata alla creazione di mostre. Dunque la sua figura sembra al pubblico qualcosa di più sostanzioso e di più visibile, rispetto a quella dello storico dell’arte che non fa mostre. E anche questo mi pare negativo, perché sembra che chi è fuori dal giro delle mostre non abbia una funzione culturale e sociale. Mentre invece i giovani storici dell’arte oggi hanno una preparazione forte e rigorosa, costruita nel lungo periodo di formazione a cui costringono i tempi geologici che occorrono per avere un posto. Ma questa difficoltà di inserimento, però, deprime anche ogni ambizione.
Pinto: A questo posso aggiungere che i funzionari sono anziani e anche piuttosto gelosi e preoccupati di un eventuale ingresso di nuove linfe. Questo sistema dovrebbe essere corretto. E se è vero che i giovani storici dell arte oggi sono preparati anche per il fatto che dopo la laurea, come diceva Matteo, prendono la specializzazione, il dottorato, il master, eccetera, è anche vero che qualcosa sta mutando proprio sotto i nostri occhi. il pericolo è per quelli che stanno studiando adesso con la riforma dei crediti. Finiranno per perdere solo gli ultimi sprazzi della disciplina. Si dà la laurea a persone che non hanno la minima base urnanistica che è rinviata, non si sa perché, alla specializzazione, quando dovrebbe essere il contrario. Dire che i tre anni intanto preparano delle figure intermedie che servono come figure ausiliarie ai livelli scientifici più alti è una menzogna, anche perché nelle nostre università non c’è chi insegna queste nuove materie come, per esempio, l’informatizzazione dei dati. Con questo sistema vedo l’analfabetismo culturale salire gradino dopo gradino, a partire dal liceo. E se i giovani incontrano difficoltà, dall’altra parte, negli ultimi anni non si è neanche valorizzata l’esperienza del “veterani”. Soprintendenti di rango come Jadranka Bentini e direttrici di museo come Anna Maria Petrioli Tofani sono stati prepensionati senza troppi complimenti. Pinto: Per mia esperienza posso dire che quelle sono state scelte politiche. Senza contare come sono stati reclutati coloro che poi sono entrati al loro posto. Con il ministro Urbani sono emerse figure dal mondo esterno e la cui competenza non è stata in alcun modo valutata. Lafranconi: Si fa sempre più chiara la scomodità di alcune figure che difendono la disciplina nella sua interezza, nella sua complessità. Con il rischio che si formi una schiera pronta all’assalto, disposta a sposare le esigenze più snelle, ma anche più manageriali. Con il neologismo “mostite” avete anche denunciato la deriva di mostre effimere e da Blockbuster. Cosa sta accadendo? Lafranconi: La proliferazione di mostre di scarso rilievo è un fenomeno collegato alla globalizzazione, al turismo di massa ma, mentre in altri paesi già questo boom si sta affievolendo perché non produttivo, in Italia si continua sull’onda della parcellizzazione massima. E questa polverizzazione d’iniziative non aiuta a trasmettere un messaggio culturale. Va tutta a detrimento della formazione del pubblico che è disorientato da questo proliferare di piccole mostre, di mostre che hanno la pretesa di essere grosse ma che non producono nulla.
Pinto: Appare male attuata una giusta intenzione di fare didattica da parte delle istituzioni, piccole e grandi E questo discorso vale anche per certa pubblicistica da edicola, dall’aspetto molto appagante, ma che però dà pochissimo, salvo familiarizzare il pubblico con dei feticci Lanfranconi: Il problema più grave riguarda la liquidazione della didattica. Pinto: E se questo è il punto chiave, gli storici saranno sempre considerati sussiegosi se non si mettono a fare comunicazione, per dirlo con una brutta parola. Altrimenti il museo viene visto come un luogo difficile. A meno che non sia un museo di tutti capolavori, per cui prevale la logica: più ne ingoio più sto bene e quando non ne posso più me ne vado. In questa congiuntura come dove intervenire lo storico dell’arte? Pinto: Aiutando a realizzare le mostre che servono o per introdurre nuovi problemi o per rileggere in chiave diversa fatti storici già studiati. Evitando spettacolanirzazioni fini a se stesse come quella a cui abbiamo assistito al museo Egizio. E ancora facendo un lavoro di critica serrata. Altrimenti passa il messaggio che una mostra come Gli impressionisti e la neve che si potrebbe citare come esempio massimo di negatività, viene considerata un iniziativa di successo solo perché ha venduto molti biglietti, mentre una mostra bellissima, scientificamente importante, come Le corti e la città, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino, resta nell’ombra, perché non ha avuto un adeguato lancio pubblicitario. Lafranconi: Ripartire dalle mostre di valore, anche dalle soprintendenze come uffici, come sportello pubblico, che in Italia inun arco sensibile di tempo hanno costituito unprirnato rispetto a altri paesi europei. Un patrimonio che è un vero peccato sperperare così.

Simona MaggiorelliEuropa

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Arte: critici e storici all’Unione

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 25, 2006

Ormai è fatta. La legislatura è finita. E i danni lasciati sul campo sono palesi. Quello che una volta, sciaguratamente, Gianni De Michelis indicava come il petrolio d’Italia, ovvero i beni culturali, sono stati abbondantemente saccheggiati e svenduti. Grazie a invenzioni di “finanza creativa” come la Patrimonio spa, ai condoni, ma anche grazie al famigerato Codice dei beni culturali varato dal ministro Urbani. Senza dimenticare i danni prodotti dai tagli dei finanziamenti pubblici. Tagli drastici perfino del settanta per cento dei trasferimenti nell’ultima finanziaria di Tremonti che hanno colpito gli anelli più deboli del sistema dell’arte: gli archivi, le soprintendenze territoriali, i centri d’arte contemporanea. Portando molti enti sull’orlo della chiusura, mentre il ministro dei Beni culturali Rocco Buttiglione minacciava le dimissioni, guardandosi bene dall’attuarle. Di fronte al sacco, poche le voci limoide che si siano levate contro. Pochissime fra i politici. Molte fra gli intellettuali e storici dell’arte, voci competenti, ma rimaste a lungo inascoltate e che, ora – chiamate a dare consigli al centrosinistra in vista delle elezioni – si levano qualche sassolino dalle scarpe. Le politiche per i beni culturali del centrosinistra, «un disastro», denuncia Lea Vergine, firma di spicco della critica d’arte più engagé. «La “sinistra” – dice – continua a preferire politici e burocrati a studiosi e intellettuali alla guida delle istituzioni pubbliche. Con il risultato che tutto il sistema dell’arte italiano è andato ingessandosi, perdendo di vitalità di slancio». Basta mostre (in testa Monet e la Senna, la Biennale di Venezia e I capolavori del Guggenheim) con più di 100mila visitatori. «In questo proliferare di mostre locali, piccole e di scarsa rilevanza culturale – commenta Achille Bonito Oliva — la tecnica è quella di utilizzare un grosso nome, ad esempio Caravaggio per squadernare poi solo opere molto minori». Ma la colpa non è rutta dei politici, secondo il più eccentrico, ma anche il più prolifico dei critici italiani, da sempre riottoso a chiudersi nella torre d’avorio di studi separati dalla realtà. «Accanto a enti che praticano una politica culturale miope e appiattita sul già esistente – dice – ci sono anche amministrazioni sensibili che investono in progetti produttivi di arte pubblica». Qualche esempio? «Tanti, Gibellina, Napoli, città con molti problemi, ma che svolgono un’importante ruolo di committenza pubblica chiamando critici e artisti a intervenire in zone degradate, in quartieri anonimi». Come quello di Napoli dove è sorto “Il museo necessario”, un grande museo nella metropolitana che con un centinaio di opere di artisti emergenti da una nuova identità a un “non luogo” di passaggio. Ma di esempi di strutture per l’arte contemporanea nate con molto coraggio e che potrebbero funzionare da esempio, rilancia, Achille Bonito Oliva ce ne sono sempre di più in Italia. «Dal Castello di Rivoli, al Mart di Rovereto, al Macro di Roma – dice -, senza dimenticare una rete di gallerie e di Kunsthalle giovani che vanno dalla GameC di Bergamo a Quarter di Firenze, al Man di Nuoro e che, in assenza di politiche statali a supporto delle nuove generazioni svolgono un lavoro culturale importantissimo nel lanciare e sostenere i giovani artisti». «La politica dovrebbe tornare a riflettere sul valore civile e sociale che ha l’arte e la ricerca in genere – rilancia Sergio Risaliti, direttore del Quarter di Firenze -, Settori strategici per la formazione, per lo sviluppo del paese. Anche per costruire una nuova e più aperta cittadinanza. Perché i progetti d’arte oggi sono sempre più internazionali e studiare l’arte da una grande lezione di tolleranza, aiutando ad abbattere barriere culturali e pregiudizi. Per questo – conclude il curatore del più importante centro d’arte contemporanea fiorentino – la missione di chi lavora in questo settore è sempre eminentemente pubblica. E una seria politica di centrosinistra non può e non deve dimenticarlo.

da Europa 25 marzo 2006

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È su piazza la cultura italiana

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 23, 2004

di Simona Maggiorelli

La storia dell’«assalto al patrimonio culturale» comincia a fine 2001, quando circola la prima Finanziaria del governo Berlusconi che ventila la possibilità di un massiccio intervento dei privati nel settore dei beni culturali. La notizia si diffonde anche oltre confine e 37 direttori di musei firmano a New York un appello al governo italiano. Ma il ministro dell’Economia Tremonti, come nota Settis, si comporta come quel ministro lituano protagonista delle correzioni di jonathan Franzen che organizza via internet la vendita a pezzi del proprio paese, creando la Lithuania Incorporeted, «una nazione for profit». Così, con un decreto del 15 aprile 2002, il ministro dell’Economia da vita alla Patrimonio spa «per la valorizzazione, gestione ed alienazione del patrimonio di Stato». Scatta l’allarme . Al ministro arriva anche una lettera di Ciampi. Ma dopo qualche leggero aggiustamento, a giugno, il decreto diventa legge. Comincia a circolare la parola “cartolarizzazione”, termine fin qui ignoto agli italiani. Alla Patrimonio spa d’ora in avanti potranno essere trasferiti «tutti i beni immobili del patrimonio disponibile e indisponibile dello Stato». Ma un decreto del ministro dell’Economia precisa che i beni potranno essere trasferiti in proprietà anche all’altra società per azioni, la Infrastrutture spa, aperta a capitale privato. In questo modo si crea un grosso fondo di beni che potranno essere «controllati mediante pacchetti azionari, ma anche venduti e dati in affitto». Anche il patrimonio culturale italiano entra a far parte di questo fondo, con l’unica garanzia in più che, per la sua vendita, ci vorrà anche la firma del ministro dei Beni culturali. Un principio del resto presto sconfessato. Il 24 dicembre 2003, ultimo giorno di finanziaria, viene approvato il decreto che introduce la dismissione urgente degli immobili pubblici, mettendo in vendita in tre giorni decine di palazzi e strutture, senza consultare il ministero dei Beni culturali. Fra questi l’ex Manifattura tabacchi di Firenze, edificio monumentale vincolato dal ministero, che sarebbe dovuto diventare la nuova cittadella della cultura e dell’arte contemporanea. Un altro esempio è la Manifattura di Milano, già destinata alla scuola nazionale di cinema. Stesso acquirente, la Fintecna. società privata controllata dallo stesso ministero dell’Economia. Sul Giornale dell’arte del febbraio 2003, intanto, l’archeologo e docente dell’University College di Londra, Gaetano Palumbo, scrive: «Sono 35 le proprietà vincolate messe in vendita nella prima fase delle aste Scip, la società di cartolarizzazione degli immobili pubblici creata, prima della Patrimonio spa. Sono già stati venduti Palazzo Correr a Venezia, un palazzo storico al centro di Palermo, e un edificio a Milano, costruito sulla zona dell’anfiteatro romano, mentre ancora invenduti risultano Palazzo Artelli a Trieste, la residenza termale dei Granduchi di Toscana a San Giuliano Terme, e Villa Manzoni a Roma. Questi ultimi – spiega Palumbo – essendo stati battuti già due volte, verranno messi in vendita con uno sconto del 25 per cento. Se anche in quel caso le proprietà non saranno vendute, sarà battuta un’altra asta con base scontata del 35 per cento. L’asta finale sarà a base libera, quindi teoricamente qualcuno potrebbe portarsi via queste proprietà per pochi euro». È andata male a Villa Manzoni a Roma, ma per fortuna il comune di San Giuliano è intervenuto impedendo lo scempio. Il fatto che tutta l’operazione gli sia passata sopra la testa fa pensare al ministro Urbani di aver bisogno di consiglieri. Nomina così un comitato scientifico di consulenza sulla tutela; ne fanno parte anche Salvatore Settis e l’ex ministro Antonio Paolucci. Nel frattempo, Urbani si mette a scrivere un nuovo codice dei beni culturali. Il lavoro sulle diverse edizioni delle bozze si protrae per mesi. Il 3 marzo, sul numero 52 della Gazzetta Ufficiale, viene pubblicato il decreto del 6 febbraio, firmato dal ministro dei Beni culturali, per la verifica dell’interesse culturale dei beni da ven-dere.Alla metà di marzo, il ministro Urbani, rispondendo alle interrogazioni sui criteri di vendibilità del patrimonio pubblico, giura di essersi svincolato dal rampante liberismo di Tremonti. «Non è il Demanio a proporre a noi quali beni possono essere alienati, siamo noi come ministero – assicura- a predisporre un elenco di beni cosiddetti non culturali, che potrebbero essere venduti». Lo spostamento di baricentro, secondo il ministro, sarebbe attribuibile proprio alla spada di Damocle del meccanismo del silenzio-assenso, di cui si dice fiero. Peccato che il 17 marzo si sia tenuta la prima riunione operativa dell’Agenzia del demanio per la messa a punto di una lista di beni che potrebbero, da qui a poco, essere venduti. Secondo una prima proiezione del Demanio, riportata sul Corriere della Sera del 17 marzo potrebbero essere I Smila i beni immobili interessati dalla privatizzazione nei prossimi tre anni. «Il Demanio – scrive Paolo Conti, nell’articolo – ha messo a punto on line una scheda per fornire tutte le indicazioni tecniche per completare l’istruttoria. Le schede verrano inviate alle soprintendenze che dovranno motivare il parere sulla cessione ai privati». E aggiunge: «Da tempo il rilevante del nostro patrimonio verrà svenduto ai privati. Ma associazioni culturali e ambientaliste continuano a temere il peggio, cioè una dismissione selvaggia». Nuove promesse smentite del ministro Urbani in una comparsata a “Che tempo che fa” di Fazio, subito rintuzzata da un soprintendente di chiara fama come Vittorio Emiliani che sull’Unità scrive: «In base alla legge Bottai del 1939 recepita nel testo unico del 1999 i beni immobili pubblici erano inalienabili in quanto tali. Non è vero quello che ha detto il ministro Urbani in tv e cioè che potevano essere venduti» Nelle votazioni alla Camera per la finanziaria del 2000 la Lega infilò un emendamento che ribaltava il principio della inalienabilità, «L’intero polo – scrive ancora Emiliani – votò quello, anche parte dell’Ulivo». Spitz, direttore dell’Agenzia del demanio, incaricata di un programma di vendita annuncia: saranno presto sul mercato gli immobili demaniali conferiti alla Patrimonio Spa. Entro aprile sarà pubblicato il bando pubblico per la vendita di 29 dei 39 cespiti conferiti con un decreto del 21 luglio del 2003. Non ci sono stime esatte sull’incasso che la società potrebbe ottenere dalla vendita di alberghi, terreni, aree fabbricabili e addirittura un isolotto nella laguna veneziana. Gli avvisi di vendita compariranno sui giornali e poi il via alle aste. Italia Nostra, insieme a molte altre associazioni, promette battaglia denunciando la possibile dismissione del Poligrafico della Zecca dello Stato oltre che del palazzo del servizio geologico nazionale a Roma. Tanto per cominciare. Il primo maggio intanto entra in vigore il nuovo codice. Secondo il soprintendente delle Marche, Francesco Scoppola, con il meccanismo del silenzio assenso, il lavoro delle soprintendenze, soltanto per i beni demaniali, si moltiplicherà per sette. «Il must sarà “fare cassa”- scrive Titti De Simone -. allarme c’è. perché il susseguirsi dei provvedimenti fin qui prodotti dal comitato di affari di questo governo rischiano di trasformare in un colabrodo quel museo a cielo aperto, unico al mondo, che è il nostro paese».

Avvenimenti

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All’incanto

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 19, 2004

Il presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi e l'archeologo Salvatore Settis

Il presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi e l'archeologo Salvatore Settis

A maggio entra in vigore il nuovo codice dei beni culturali voluto da Urbani. Iniziano i saldi di fine Paese. Il nostro patrimonio ceduto al migliore, ma mica tanto, offerente Salvatore Settis: “In 120 giorni le soprintendenze dovranno rispondere se un bene potrà essere venduto. Se tacciono è come se dicessero sì. Ma senza personale e con pochi fondi è difficile che riescano a fare il loro lavoro” di Simona Maggiorelli

Il primo maggio entrerà in vigore il nuovo codice dei Beni culturali voluto dal ministro Urbani e tra pochi giorni inizieranno ad apparire sui giornali gli avvisi di vendita e di aste per la cessione di beni del patrimonio pubblico. In una previsione del Demanio, ancora approssimativa, si parla di oltre 15mila immobili. Le soprintendenze territoriali, già acciaccate da tagli e accorpamenti e, sotto organico, saranno intasate dal lavoro. Su di loro pende la spada di Damocle del silenzio-assenso. Ogni mancata risposta al Demanio verrà letta, così dice la legge, come un via libera alla vendita. Le associazioni ambientaliste, esperti e storici dell’arte denunciano, da più parti, il rischio di dismissioni selvagge. Qualche assaggio si è già avuto lo scorso dicembre con la cessione della Manifattura tabacchi di Firenze. L’ha decisa il ministro Tremonti per decreto, senza consultare il ministero dei Beni culturali. “Alla vigilia della sua entrata in vigore il nuovo codice destava parecchia preoccupazione – spiega Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa, uno dei cinque consulenti di Urbani per la tutela dei beni culturali e autore del polemico volume, Italia Spa – Assalto al patrimonio culturale -. Abbiamo temuto che per beni non si intendesse più ” tutto ciò che ha un interesse culturale”, ma soltanto ciò che ha “un interesse culturale particolarmente importante”. Così si sarebbe potuto considerare importante il Colosseo e magari non una tomba sulla via Appia. Per fortuna il testo è stato corretto in più punti. Ma restano, ancora, diverse ombre”.

Per esempio?
Il confine incerto fra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni. Si è adottata una via molto fumosa: allo Stato spetta la tutela e alle Regioni la valorizzazione. Una distinzione senza capo né coda. Che non ha luogo in nessun paese al mondo. Ma bisogna anche dire che molto si deve alla modifica del Titolo V della Costituzione, di cui la responsabilità politica va al precedente governo. Il presidente della Consulta ha ammesso, di recente, che la metà del lavoro della Corte riguarda l’interpretazione di questo titolo, il che vuol dire che la riforma è stata fatta veramente con i piedi.

Perché si è scagliato contro la norma sul silenzio-assenso? Eppure Urbani dice che con questo meccanismo aumenteranno le tutele.
“Ma no. Questo è un meccanismo molto negativo inserito il gennaio scorso su indicazione del ministro dell’economia Tremonti. Un modo per favorire le vendite. Alle soprintendenze spetterà dire se un bene che il Demanio vuole vendere abbia un valore culturale oppure no. Ma se la soprintendenza non risponderà entro 120 giorni, il silenzio verrà interpretato come un assenso alla vendita”.

Il nuovo codice ridisegna le soprintendenze. Che ruolo avranno?

“Il codice, di fatto, non stabilisce nulla in materia. Ma dà alle soprintendenze tantissimi compiti. Per rispondere entro i tempi stabiliti alle richieste di valutazione ci vorrebbe un adeguato personale. Invece le soprintendenze, da 20 anni a questa parte, stanno perdendo dipendenti. Nei cinque anni del centrosinistra sono state assunte circa 300 persone, a fronte di 3000 dipendenti che, nel frattempo, sono andati in pensione. Di questo passo la situazione diventerà ingestibile. Il ministro Urbani sta approntando un decreto che riordina tutta la materia delle soprintendenze. Ma ci sono aspetti che io trovo molto criticabili. Si continua a moltiplicare il numero delle posizioni di vertice, mentre diminuisce quello delle soprintendenze territoriali. Le posizioni di vertice erano quattro nel 1998. Con il ministroGiovanna Melandri, sono diventate nove. E adesso sono 15. La tutela si fa nelle soprintendenze territoriali, si fa sul luogo stesso, non a Roma nei corridoi dei ministeri. Le posizioni di vertice hanno stipendi elevati, così si depauperano le finanze del ministero, mentre sul territorio ci saranno sempre meno persone”.

Un quadro abbastanza fosco quello delle soprintendenze locali, stipendi bassi, pochi addetti, ridotti quasi a far volontariato…
“È così. Gli stipendi di chi lavora in soprintendenza non sono per nulla competitivi. E spesso si tratta di persone molto preparate. Se lavorassero in un museo americano, con le stesse mansioni, sarebbero pagati almeno 7 o 8 volte di più.”

Il sistema americano in Italia viene spesso citato astrattamente. Lei che è stato responsabile del Getty di Los Angeles che ne pensa? È davvero un modello da inseguire?
“Conosco il sistema americano, gli ho dedicato sei anni della mia vita. Per certe cose mi piace, per altre no. Apprezzo, ad esempio, il rapporto che gli americani hanno con la loro Costituzione: prima di metterci le mani ci pensano su parecchio. Da noi, invece, la Carta è diventata come una sorta di leggina che si può cambiare a piacimento. Per quanto riguarda i musei in senso stretto, non credo siano un modello esportabile in Italia. Le condizioni sono completamente diverse. Il Metropolitan Museum o il Getty non hanno nulla a che fare con il territorio circostante. Si va al Metropolitan per vedere un Tiziano, ma quando si esce per le strade di New York non c’è niente che gli corrisponda. Non è così a Venezia”.

Dunque?
“Il rapporto museo territorio da noi è un nesso stringente. Non è stata una scelta felice quella del ministro Melandri di creare i cosiddetti poli museali svincolati dal territorio. Non è mai stato così nella nostra storia. E poi i musei americani sono quasi tutti privati. E in Italia, per ingenuità, ma credo anche per disinformazione, quando si parla di gestione privata si pensa subito che il museo funzioni come una azienda e faccia profitti. Non è così”.

Il Getty o il Moma come si reggono?
“Il Getty spende ogni anno 200-250 milioni di dollari e ne incassa circa 1000. Certamente non è la biglietteria che lo fa andare avanti. Mister IL Getty ha circa 7 miliardi di dollari investiti in borsa. Con gli utili che producono viene tenuto in vita il museo. Quando sento dire facciamo degli Uffizi una specie di Getty mi viene da ridere, perché gli Uffizi sono grandi almeno 30 o 40 volte il Getty Museum e non hanno fondi investiti o investibili”.

I giornali economici dicono che nel 2003, su cinque milioni di imprese italiane, solo 571 hanno usufruito della norma delle erogazioni per i beni culturali. Tutti ignoranti o non ci sono gli strumenti adeguati?
“Ecco, come si fa a pensare di poter trasformare gli Uffizi o altri musei italiani in musei privati o retti da privati? E poi bisogna studiare la storia. In Europa, e in particolare in Italia, i musei nascono dallo Stato, prima dai sovrani poi dalla Repubblica, ed è lo Stato che ne assicura la vita perché sono dei servizi. L’America è troppo giovane per avere questo tipo di passato, fino al 1900 non c’era nessun museo importante. Da quella data in poi grandi mecenati hanno cercato di creare una grande rete dei musei, sostituendosi allo Stato. Insomma il modello americano da noi è un’assoluta impossibilità istituzionale ed economica e stupisce vederlo citato anche da persone che dovrebbero essere informate”.

Se dovesse pensare a come rilanciare i musei italiani da dove partirebbe?
“Innanzitutto dalla ricomposizione di quel nesso museo-territorio di cui dicevamo. Parlando degli Uffizi, è assurdo che facciano capo al polo museale fiorentino, mentre Palazzo Vecchio e le chiese cento metri più in là rispondano ad altri. Bisognerebbe creare più semplicemente una soprintendenza “città di Firenze”, una “città di Roma” e così via. E fare in modo che godano di larga autonomia. Bisognerebbe in primo luogo incrementare il finanziamento pubblico e al tempo stesso incoraggiare le donazioni private mediante un sistema di defiscalizzazione totale. Tentando un circolo virtuoso fra i due. Puntando non solo sul grosso personaggio che regala dieci quadri, ma anche sul singolo cittadino che dà cento o mille euro”.

Incoraggiare le donazioni ma non le speculazioni private?

“Quando si pensa a delle imprese private che entrano in un museo per guadagnarci, bisogna anche considerare che chi ci guadagna non incrementa i finanziamenti del museo”.

E con le attuali situazioni d’impasse? Per restare in tema il corridoio vasariano a Firenze, con tutto ciò che contiene, è chiuso al pubblico e probabilmente lo resterà ancora a lungo, nonostante i buoni propositi.
“Ovviamente bisogna cercare un maggiore dinamismo. Il corridoio vasariano che è una delle cose più belle, non solo di Firenze, ma al mondo, dovrebbe essere riaperto. So che c’è un progetto. Per realizzarlo occorre più personale e trovare una gestione che non tratti i musei in maniera polverosa.

In questo quadro qual è il ruolo delle fondazioni? La trasformazione del Museo Egizio in fondazione ha suscitato parecchie polemiche.
“Le fondazioni, io credo, vadano viste una per una. La situazione del museo egizio così come si presenta oggi, non mi piace. Quello è un caso in cui ci sono ben due fondazioni bancarie. L’esordio credo sia stato di 70 milioni di euro fra tutte e due. Il tipo di marchingegno che è stato creato fa sì che la fondazione inghiotta il museo. È inaccettabile che ci sia un consiglio di amministrazione composto da 9 persone di cui uno solo rappresenta la struttura delle soprintendenza. Lo Stato, che dà due o tre miliardi di euro con tutti gli oggetti del museo, dovrebbe avere la maggior parte del consiglio di amministrazione. Invece si mette in minoranza. Ora uno Stato che si mortifica, si genuflette per 70 milioni di euro, a me non piace. Io credo in uno Stato forte che negozia con i privati. Sono anche per un ruolo molto propositivo dei privati, ma non così”.

Allora cosa pensa del condono e della sua proroga?
“Lo considero una sciagura nazionale. È uno degli atti contraddittori che questo governo ha fatto, oltretutto dopo un mese o due che il ministro Urbani ha varato una legge sulla qualità architettonica. Non si può proteggere la qualità architettonica e insieme condonare qualsiasi orrore. Sono due concezioni completamente opposte. Il condono, fra l’altro, pare abbia prodotto un gettito inferiore a un quarto di quanto si attendeva. Non ho verificato questa cifra, ma al di là del possibile incasso penso sia un modo assai sbagliato di affrontare i problemi. Ne esce un discorsetto di questo genere: esistono delle regole, ma non importano più nulla se serve a fare cassa. Quando Craxi, nell’84, varò il primo condono, si disse che era una tantum. Da allora si è concesso altre due volte. Ormai tutti hanno la quasi certezza che ogni 5 o 6 anni ci sarà un condono e questo incoraggia gli abusivi.

(*) SALVATORE SETTIS: professore ordinario di storia dell’arte e archeologia classica, è direttore della Scuola Normale di Pisa. Dal 1994, per sei anni, è stato direttore del Getty Center Research Institute a Los Angeles e, l’anno scorso, è stato fra i cinque saggi a cui il ministro Urbani ha chiesto una consulenza sui temi della tutela. Fra i suoi tanti scritti, i saggi su Giorgione, sulla colonna Traina e sull’evoluzione del canone della pittura, fra sfumato e disegno, fra ‘400 e ‘500. Nel 2002 ha pubblicato il pamphlet Italia Spa, assalto ai beni culturali e, sempre per Einaudi, è appena uscito il suo Futuro del classico.

Avvenimenti

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Settis: I beni culturali vanno tutelati, non venduti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 12, 2003

Intervista al direttore della Normale di Pisa, Salvatore Settis, a quasi un anno dall’entrata in vigore della legge sulla vendita del patrimonio pubblico

di Simona Maggiorelli

Hanno fatto appena in tempo a utilizzarlo come spazio per una mostra di arte contemporanea, con opere di Calzolari e altri maestri dell’Arte povera fra l’odore ancora intenso del tabacco. S’intitolava Sboom! e avrebbe dovuto segnare il primo passo verso la trasformazione della ex Manifattura Tabacchi di Firenze in cittadella della cultura. Un nome, un destino, avrebbe detto Tristram Shandy facendo contento il ministro Tremonti, che prima di Natale, mercé, un nuovo decreto, si è venduto il complesso fiorentino. E non solo. Dalla pagine del Giornale dell’arte l’archeologo e docente dell’University College di Londra, Gaetano Palumbo, denuncia: sono 35 le proprietà vincolate messe in vendita nella prima fase delle aste Scip, la società di cartolarizzazione degli immobili pubblici creata, prima della Patrimonio spa, nel novembre 2001. Sono già stati venduti Palazzo Correr a Venezia, un palazzo storico al centro di Palermo, e un edificio a Milano, costruito sulla zona dell’anfiteatro romano, mentre ancora invenduti risultano Palazzo Artelli a Trieste, la residenza termale dei Granduchi di Toscana a San Giuliano Terme, e Villa Manzoni a Roma. «Questi ultimi- spiega Palombo – essendo stati battuti già due volte, verranno messi in vendita con uno sconto del 25 per cento. Se anche in quel caso le proprietà non saranno vendute, sarà battuta un’altra asta con base scontata del 35 per cento. L’asta finale sarà a base libera, quindi teoricamente qualcuno potrebbe portarsi via queste proprietà per pochi euro». D’obbligo allora chiedere qualche lume in più al direttore della scuola Nornale di Pisa, lo storico dell’arte Salvatore Settis, fin qui strenuo avversario delle svendite volute dal governo di centro destra.

Professor Settis, l’assalto ai beni culturali da lei paventato nel libro Italia s.p.a (Einaudi) sembra già cominciato. Cosa sta succedendo realmente?

Negli ultimi mesi sono accaduti fatti molto discordanti. Da un lato ci sono state le vendite di cui parla Palumbo, dall’altro il ministro dei beni culturali Urbani rilascia dichiarazioni pubbliche e compie atti che vanno nella direzione opposta a quella indicata dal Ministro del Tesoro. Ha istituito una commissione di lavoro per una nuova legge di tutela che, sulla base della legge delega, riaffermi l’inalienabilità del patrimonio storico artistico.

Lei da poco ha accettato di entrare a far parte del comitato scientifico che affianca il lavoro di questa commissione diretta da Gaetano Trotta. Segno che crede alla sincerità del dietro front del ministro Urbani?

Fin’ora abbiamo fatto una sola riunione e anche in quell’occasione Urbani ha ribadito il suo impegno. Certo quello che non posso fare a meno di chiedermi è: qual è la politica del governo? Quella di Urbani o quella di Tremonti? Questo governo dovrebbe decidersi. Per parte mia lo sto chiedendo a gran voce nelle sedi istituzionali e attraverso i giornali. Occorre chiarezza, che si rispettino le regole, che pure ci sono. La vendita della Manifatura tabacchi, l’ho verificato di persona, è avvenuta senza chiedere il parere preventivo del Ministero dei Beni culturali, né tanto meno della soprintendenza locale. E questo è un fatto gravissimo, una violazione di quello che stabilisce la legge.

E se invece vincesse integralmente la linea Tremonti cosa accadrebbe?

Piano piano si venderebbero tutto il patrimonio, indistintamente. Io non sono un economista, ma se proprio dovessimo venderci qualcosa potremmo ben cominciare dalle scuole, dalle caserme dimesse degli anni’50, strutture e edifici che non abbiano un valore artistico o paesaggistico.

Lei parla spesso del patrimonio artistico come fulcro della nostra identità nazionale, della nostra memoria storica. Senza di questo che contributo possiamo dare all’Europa?

Intanto comincerei con il dire quello che l’Italia ha già fatto. Il nostro è il Paese in cui storicamente è nato il concetto di tutela dei monumenti, che lo ha insegnato al resto del mondo. Per il futuro si prospettano due strade: o continuiamo a insegnare agli altri che cosa è la tutela o cominciamo a insegnare come si fa a mandare tutto in malora. In questo bivio io ho una posizione molto netta a favore di un’avanguardia dell’Italia, in linea con la sua storia e la sua Costituzione, nel rafforzare le ragioni della tutela e perché i nostri princìpi diventino i princìpi di tutta l’Europa.

Avvenimenti 12 marzo 2003

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