Una felicità paradossale
Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 19, 2013
Fra le statistiche annuali che comparano i Paesi in base al costo della vita e alla qualità dei servizi, da qualche tempo, è spuntata anche una curiosa classifica delle nazioni più felici: sul podio svetta la Danimarca con tutta la penisola scandinava. Nonostante che in queste civili e democratiche regioni del Nord, in cui tutto è ordinato e funziona bene, la percentuale dei suicidi sia fra le più alte.
Una evidente discrasia su cui varrebbe la pena di riflettere più approfonditamente. E che invita a chiedersi se e come si possa davvero misurare la felicità e in che cosa consista.
«Per quanto si tratti di un’operazione piuttosto complessa, Amartya Sen ritiene che si possa tentare una valutazione prendendo in considerazione fattori come la qualità della vita, la libertà e la possibilità delle persone di sviluppare le proprie capacità in una determinata società», commenta il filosofo Salvatore Natoli, che al tema ha dedicato più libri, due in particolare usciti nel 2012 per Alboversorio e Aliberti.
Il 20 gennaio l’ordinario di filosofia teoretica dell’università Milano Bicocca interviene al Festival delle scienze di Roma diretto da Vittorio Bo per approfondire questo tema in dialogo con il filosofo americano Dan Haybron (all’Auditorium, dalle 15). E se di recente il contributo del premio Nobel Sen ha permesso di cominciare a mettere in crisi un modello economicistico di valutazione del benessere delle nazioni calcolato solo in base al Pil, va ricordato anche che la riflessione sulla felicità pubblica e privata ha radici antiche ed era un cavallo di battaglia di utilitaristi come l’inglese Jeremy Bentham, quando sosteneva che lo scopo primario delle politiche pubbliche deve essere la ricerca della felicità. Per gli utilitaristi, come è noto, la felicità individuale era un fatto misurabile: entravano in gioco fattori non quantitativi come la sicurezza, la stabilità, il lavoro, l’accesso alle cure, ma anche quella che oggi chiameremmo qualità dei rapporti personali.
Un aspetto che è diventato determinante e centrale nella trattazione che Natoli ha sviluppato negli anni, anche rileggendo la lezione della filosofia greca – di Aristotele e degli stoici in primis (più che la Lettera sulla felicità di Epicuro) e ben prima che la “felicità” tornasse di moda. Per esempio nella versione libertina del filosofo Michel Onfray. Che Natoli, da capofila di una proposta filosofica neopagana, stigmatizza come «superficiale», «basata sul mero edonismo e sul caso» celebrato dai situazionisti. «Attardato epigono di Deleuze e Guattari», per Natoli, nei suoi libri Michel Onfray (da L’arte di gioire, 2009, Fazi, al Corpo amoroso, 2012, Ponte alle Grazie) non esce dall’illusione sessantottina che la cosiddetta liberazione del desiderio e un nuovo materialismo siano, di per sé, strumenti di emancipazione.
«La deriva degli anni Settanta ci ha già dimostrato che purtroppo non è così – spiega Natoli -. Il principio del piacere fine a se stesso porta il soggetto più alla dispersione e alla dissipazione, che a uno sviluppo delle proprie potenzialità». La felicità, dunque, non è un divorare alla cieca. E nemmeno sta nella sazietà, diceva Nietzsche.
«La sazietà addormenta, fa vomitare», dice Natoli. «La felicità non sta nella acquisizione di oggetti, come vorrebbe il modello consumistico occidentale. Né sta nella narcosi delle droghe». Ma il filosofo dell’università Bicocca mette in guardia anche dal cadere in quella ossessione che negli Stati Uniti ha fatto della felicità (annoverata anche tra i diritti della Costituzione) un’ideologia e un feticcio, da ottenere a tutti i costi; a tutto vantaggio delle case farmaceutiche. Sul versante opposto – d’altro canto – fuggendo da ogni prospettiva moralistica, per Natoli la felicità non è neanche saper godere delle piccole cose. «Questa è roba da Albano e Romina».
Dunque, al fondo, che cosa è la felicità secondo il professor Natoli? «È ricerca della realizzazione di sé, della propria identità più profonda. Ciascuno ha il proprio daimon diceva Socrate. Il punto è riuscire a sviluppare le proprie capacità, riuscire a comprendere ciò che è nelle mie possibilità. Per questo – sottolinea il professore – è importante il “conosci te stesso” socratico. È necessario fare un continuo lavoro su stessi, qui e ora, pensando che la nostra vita biologica non è eterna e che solo entro un tempo finito abbiamo la possibilità di sviluppare le nostre potenzialità. Ma – aggiunge – non è facile nella società di oggi, basata sulla prestazione e che ci chiede di adeguarci conformisticamente a dei modelli». Beninteso questo non significa che nel pensiero filosofico di Natoli l’uomo sia monade “autocentrata”. Tutt’altro.
«Per una piena realizzazione di sé è necessario il rapporto con gli altri, bisogna far posto all’altro, andargli incontro. L’uomo è un essere sociale, lo è fin dalla nascita». Per questo, dice Salvatore Natoli, la felicità si coniuga con la virtù, intesa come ars, come sviluppo della capacità di comprendere come risolvere le situazioni di volta in volta, come relazionarsi all’altro, perché sia un gioco di vita mea – vita tua. Fondamentale in questo senso è sviluppare una propria sensibilità, un proprio sentire, anche se ci espone al provare dolore. «Il contrario della felicità non è la malinconia – afferma Natoli – che può essere uno strumento di intelligenza e nemmeno il dolore che nella vita, purtroppo, capita di incontrare. Come scriveva Leopardi l’opposto della felicità è la noia, intesa come vuoto, mancanza di affetti». E alla filosofia forse non si può chiedere di più.
Anche se a chi scrive resta un dubbio: si può davvero educare alla felicità, come promette l’ultimo titolo di Natoli? Basta la migliore etica che riflette con gli strumenti della ragione per sviluppare quel “conosci te stesso” socratico che per lunghi secoli è rimasto sepolto sotto il divieto di conoscere imposto dalla religione?
dal settimanale left-avvenimenti del 19 gennaio 2013
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