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L’obiettivo spietato

Posted by Simona Maggiorelli su novembre 14, 2008

Il vero volto del sogno americano. In trent’anni di scatti la denuncia di Diane Arbus di Simona Maggiorelli

diane Arbus

diane Arbus

Qualche anno fa la bella e algida Nicole Kidman si calò nei suoi panni. Diretta da Steven Shainberg, nel film Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus, l’attrice australiana fece rivivere sul grande schermo la vicenda tormentata della fotografa polacca Diane Nemerov che, benché attanagliata dalla depressione, fu capace di vedere e raccontare da artista quel che di malato si celava nel fondo di certi miti americani. Dopo anni passati a lavorare per riviste di moda, la Nemerov (in arte Arbus), realizzò una serie di drammatici ritratti entrati a pieno titolo nella storia della fotografia del Novecento. Nella serie di scene in bianco e nero – che a 25 anni dalla loro prima pubblicazione ora tornano nella prima edizione italiana della monografia Diane Arbus. Una monografia Aperture (Photology) – coppie borghesi anni Sessanta e poi freak anni Settanta: dietro l’apparente armonia casalinga o dietro l’euforia della festa, un terribile vuoto. Dietro una galleria felliniana di ritratti da circo, la denuncia della feroce macchina dello spettacolo americana che riduce le persone a presenze caricaturali. Dentro i suoi ordinati interni borghesi, comici alberi di Natale dalla cima mozzata e ficcati a forza fra le pareti, insieme a un mondo di cartoline che tramutano paesaggi reali in scenari posticci, alla Disney. Ma fra tutte la foto che più colpisce è forse quella, celebre, delle due gemelline, da cui Stanley Kubrick prese ispirazione per il suo Shining. Inquietanti non per la somiglianza fisica, ma forse per quello sguardo che si fa da subito metafora della mostruosità di due menti gemelle che, come automi, si fanno specchio. C’è qualcosa di metallico nel loro sguardo come poi in quelle voci che Kubrick al cinema ci farà udire. E sono i momenti più ficcanti, più perspicaci, della Arbus nell’uso della fotografia. Poi, l’aspro desiderio di voler mettere a nudo la violenza, di denunciare la falsità del sogno Usa, quando la malattia avrà la meglio, la porterà a registrare solo corpi nudi, deformi, distrutti. Persa ogni vitalità di sguardo, Arbus riuscirà a raccontarci solo una pesantezza fisica senza più darci tracce del vissuto interiore. Poi nel 1971, a 48 anni, quando era già una fotografa conosciuta e ammirata, il suicidio. «L’uso della macchina fotografica ci rende meno gentili di come siamo di solito – diceva Arbus in un’intervista proprio in quel 1971 -. È un po’ fredda, un po’ severa. Ora non sostengo che tutte le fotografie debbano essere spietate… tuttavia compiere questa analisi vuol dire, in un certo senso, non eludere la realtà dei fatti, non ignorare il vero aspetto delle cose». E aggiungeva: «Quello che cerco di spiegare è che è impossibile mettersi nei panni degli altri. Questo è più o meno tutto il senso del discorso. La tragedia degli altri non è mai uguale alla propria». Restano le sue foto, e in piccola parte le pagine della biografia che Patricia Bosworth le ha dedicato, a raccontarci invece del suo coraggio nello sfidare le convenzioni «sovvertendo il concetto di bello e brutto» ma anche innovando la fotografia.

dal settimanale Left 46/08

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