Nella Cambogia anni Cinquanta, in fermento per le prime libere elezioni. Nel romanzo Canto della tempesta che verrà lo scrittore Peter Fröberg Idling racconta la giovinezza del futuro dittatore e quel suo “strano”, inquietante, sorriso
di Simona Maggiorelli
Chi era veramente Pol Pot, prima di diventare il dittatore khmer che si rese responsabile di uno dei più terribili genocidi del Novecento? Lo scrittore svedese Peter Fröberg Idling, che ha vissuto e lavorato in Cambogia e in Sud-est asiatico come cooperante, ha continuato a chiederselo per anni. Colpito da quello strano sorriso che affiorava sul volto di Saloth Sar (1925-1998) in foto d’epoca che lo ritraggono elegante studente a Parigi nei primi anni Sessanta e poi modesto e schivo insegnante in Cambogia mentre, segretamente, si dedicava a una organizzazione clandestina d’ispirazione comunista.
Chi avrebbe mai detto, dalle tante testimonianze che Idling ha letto e raccolto direttamente, che quello schivo ragazzo sarebbe diventato il capo di quel regime che, tra il 1975 e il 1979, torturò e uccise due milioni di persone? Rendendosi colpevole di un massacro così sistematico e agghiacciante da lasciare ancora larga parte della popolazione cambogiana stordita, vittima di una abissale amnesia. Con questi pensieri e interrogativi che gli ronzavano in testa, una decina di anni fa Idling ha scritto un importante libro-inchiesta, Il sorriso di Pol Pot, basato su lunghe e minuziose ricerche. Ed è stato proprio durante quelle indagini sul campo che lo scrittore e giornalista svedese si è imbattuto in una sfuggente figura di donna, che negli anni Cinquanta fu miss Cambogia e, fin dai 18 anni, fidanzata del futuro Pol Pot.
Intorno alla seducente Somaly ha costruito il suo nuovo libro, Canto della tempesta che verrà, edito in Italia da Iperborea, come il precedente volume. Pur avendo alle spalle un grosso lavoro di documentazione, questa volta si tratta di un romanzo. Anche perché, dopo essere riuscito a scoprire che la ragazza, di estrazione aristocratica, lasciò Sar d’improvviso («spezzandogli il cuore») per scappare in Inghilterra con il suo amico (l’ambizioso Sary), Idling ammette di aver perso ogni traccia di lei. «Ho saputo di Somaly da un testimone speciale, il filosofo e linguista khmer Keng Vannsak, ma ho incontrato molte difficoltà nelle verifiche, i riscontri erano confusi e quando lui è morto nel 2008 ho smesso di cercare, pur continuando a tenere viva l’attenzione».
Fin dal poetico incipit di Canto della tempesta che verrà, tuttavia, si ha la sensazione che la scelta non sia stata casuale. Poiché il ricorso alla narrativa ha permesso allo scrittore di andare molto più in profondità, nello scavo psicologico dei personaggi e della storia.
Il risultato è un affascinante affresco della Cambogia all’indomani della liberazione dal dominio francese, quando il Paese si preparava alle prime libere elezioni del 1955, mentre gli oppositori del principe Sihanouk (fra i quali lo stesso Sar) cominciavano a metterne in discussione il potere. La scrittura giornalistica, certamente, non avrebbe permesso all’autore di esplorare al contempo tutti questi differenti piani, anche se lui un po’ minimizza. «Il genere per me non è importante. Ogni volta cerco solo il modo migliore per scrivere la storia che vorrei raccontare. In questo caso volevo che il lettore potesse immergersi nelle atmosfere di una Phnom Penh anni Cinquanta, quando non era ancora tutto già determinato. Volevo ricreare la quotidianità di quelle settimane in cui furono prese delle decisioni che avrebbero avuto enormi conseguenze. Come scrittore questa è stata la mia sfida». In quello scenario, di una città in fibrillazione, incontriamo Sar, persona “piacevole”, affabile. Nulla lascia trasparire quella fredda schizoidia che l’avrebbe portato a sterminare migliaia e migliaia di persone in nome di una astratta costruzione dell’uomo nuovo. «L’idea che mi sono fatto – commenta Idling – è che Pol Pot sia stato, per così dire, l’uomo sbagliato nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata. Penso che in quella determinata situazione, una granitica ideologia lo abbia spinto a prendere decisioni via via sempre più estreme, perdendo ogni rapporto con la realtà umana. Fino al punto di arrivare a pensare che, per ottenere certi traguardi di cambiamento sociale, fosse necessario sacrificare delle persone in carne e ossa». Armati da un simile determinismo «i Khmer rossi, come altri regimi comunisti, si sono spinti molto oltre nella violazione dei diritti umani», sottolinea con forza lo scrittore svedese. «La loro totale incapacità nel gestire la nuova situazione del Paese, insieme a una folle escalation di paranoia e brutalità, li fece arrivare fino al genocidio», racconta Idling.
Il sorriso seduttivo di Sar in questo modo si tramutò nella maschera agghiacciante di Pol Pot? «Per tutta la vita lo hanno sempre descritto come un uomo “piacevole”, ma dopo gli anni Sessanta la sua personalità fu sempre più alterata e distorta, anche se appariva lucido, freddamente razionale nel prendere le decisioni». Anche le più terribili.
Eppure quando da giovane viveva in Francia, Sar sembrava avere molte passioni. Era affascinato dalla rivoluzione francese, frequentava intellettuali e filosofi (fra i quali Jean-Paul Sartre) ma anche e soprattutto giovani esuli provenienti dalle colonie francesi, che studiavano a Parigi e intanto lavoravano per l’indipendenza del loro Paese d’origine. «Sar era un nazionalista convinto ed era attratto dall’idea di una Cambogia indipendente», precisa Peter Fröberg Idling. «E la via più diretta per ottenerla era quella indicata da un’ideologia allora alla moda: la lotta armata. Nei primi anni Sessanta quei gruppi avevano pochi seguaci e assomigliavano piuttosto a una setta. Con alcune analogie con la tedesca Raf. Comunque Sar non fu mai un ideologo – nota lo scrittore – le sue conoscenze teoriche non erano molto avanzate. Per lui il nazionalismo fu sempre più importante del comunismo».
Ma al di là della vicenda personale di Pol Pot,resta un quesito irrisolto: che cosa determinò il precipitare degli eventi in Cambogia? Perché il Paese che si era ribellato ai colonizzatori finì nel terrore? «A mio avviso fu anche il risultato di una serie di fattori diversi – risponde Idling -. A cominciare dalla guerra fredda. Le grandi potenze usarono la Cambogia come una scacchiera. La guerra degli Stati Uniti in Vietnam ebbe un forte impatto sulla società cambogiana. L’esercito statunitense cominciò a bombardarla. Il governo cambogiano ebbe delle precise responsabilità in tutto questo e indirettamente spinse le posizioni dei Khmer a radicalizzarsi. Detto questo, io non credo, però, che la rivoluzione armata sia la soluzione, a meno che tu non sia disponibile a sacrificare un sacco di gente. Su questo Svetlana Alexieviech ha scritto pagine definitive, che invito a leggere».
dal settimanale Left
A conversation with Peter Fröberg Idling, by Simona Maggiorelli (21 ottobre 2014)
After a powerful book like Pol Pot’s smile, how did you come to the decision to change literary genre and write a novel, going back to 1955, when Pol Pot was still an unknown man?
Generally in schizophrenics ( even if they seem calm, diligent and serious scholars) there is something strange or bizarre in their way of expressing themselves or move that, to a trained eye, sounds as an alarm bell. Nothing in Sar hinted a sick mind?
In the novel you suggest that the loss of Somaly, (who had been his fiancé from the age of 18) marked a caesura in his life. Did your research in Cambodia confirm your intuition? Which was the role of the magnetic Somaly?
Speaking of the Parisian formation of Pol Pot, which influence has had on him Sartre’s marxism ? How Sar became then a crystallised communist?
The historical period in which the novel is set was a period of great and positive turmoil in Cambodia. How could it happen that the struggle for freedom and independence ended in the Khmer dictatorship? How was it possible that a dream of a New Humanity produced a chilling genocide?
In your previous book, The smile of Pol Pot you tell of a shipment of leading European intellectuals who during a trip to Cambodia (escorted by the Khmer) did not perceive the tragedy that was taking place. Was it for dishonesty? Why did they close their eyes?








Finalista del Premio Vallombrosa von Rezzori lo scrittore argentino José P. Feinmann parla del suo romanzo verità
plagio. Tutto il pensiero di Lacan, di fatto, si riduce a venti concetti presi da Heidegger. Lacan non cita, copia direttamente. Tutto questo avveniva nella sinistra francese negli anni 50 e 60. Dissero che Marx non era più necessario. Ma la cosa urgente non era liberarsi dell’autore de Il capitale, perché il comunismo, di fatto, era già caduto. E per rimpiazzare Marx che cosa avevano a portata di mano? Quello che loro ritenevano essere un grande pensatore e che, guarda caso, faceva una critica al capitalismo, anche se da destra. Nasce così una sorta di heideggerismo di sinistra. Questo è quello a cui si applica con sommo talento la filosofia francese dimenticando, negando anche l’ultimo pensatore marxista che fu Sartre. Tutta la French theory è un annullamento di Marx e di Sartre. Ma va detto che anche la scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer, in particolare, erano heideggeriani.
Foucault, Marcuse, Sartre. La sinistra rivede i suoi punti di riferimento e i pensatori guru del ‘68. Cosa resta di valido del loro pensiero? Ne discutono tre filosofi di oggi: Accarino, Bodei e Marramao
E aggiunge: «Foucault ha guardato solo a ciò che produce socialmente la follia, con la trasformazione, dopo i grandi cicli epidemici, dei lebbrosari in manicomi». Dunque un pensiero che nega la malattia mentale? «Foucault appare un po’ buonista – prosegue Bodei -. Se non arriva a dire che ognuno ha diritto alla sua follia e al suo delirio come faceva Antonin Artaud, certo non considera che la malattia mentale è dolore». «Foucault resta come abbacinato dall’idea che la follia sia l’effetto di un gigantesco sistema repressivo, di controllo e disciplinamento generalizzato – prosegue Giacomo Marramao -. Questa sua idea oggi entra in crisi: la follia non è tanto un’invenzione del sistema, ma una patologia da curare». Ma se sul tema della malattia mentale le idee di Foucault sono, dice Marramao, «molto da rivedere, molto da correggere» c’è un punto della riflessione del filosofo francese che si sente di salvare: la riflessione sul sapere come potere e quella sulla detenzione. «Foucault ha raccontato – dice Marramao – come dalla modernità si determinino due regimi diversi: quello dei detenuti e quello dei diversi. Prima non c’era una compartimentazione dei folli, che facevano parte della comunità. La geometria cartesiana e hobbesiana dello Stato moderno, invece, traccia un confine netto fra il sano e il folle, fra il normale e il deviante. E non è che la normalità venga stabilita prima e poi la devianza. È piuttosto il contrario: prima viene stigmatizzata la devianza e poi si costituisce la normalità». Quello foucaultiano sulle carceri è un passaggio che appare importante anche al filosofo Bruno Accarino: «Quella che andrebbe riscritta, a partire da un caposaldo del pensiero foucaultiano come Nietzsche è una filosofia della pena». Riscrivere, proponiamo, anche nel senso di “mettere in crisi”. Formulando, a sinistra, un discorso filosofico che ripensi la pena non più come punizione. «Proprio così – dice il docente dell’ateneo fiorentino -. Negli Usa si fa un business multimiliardario sugli istituti di pena, la cui logica punitiva non fa che preparare nuovi sovraffollamenti anche economicamente remunerativi. Si è chiusa un’epoca e ogni tentativo di risoluzione accentuando la repressione è perfino patetico nella sua inutilità». Ma proprio il tema del carcere e della pena ci riporta qui a un’intervista pubblicata in Follia e psichiatria: interpellato sulla punibilità dei crimini di pedofilia e di stupro Foucault dice: «Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto, e allora? Ci sono bambini che acconsentono rapiti!». Un passo inquietante; a tutti e tre i nostri interlocutori abbiamo chiesto un commento. «Il consenso dei bambini pone problemi legislativi, non di orientamento morale – risponde Accarino -. La discussione mi sembra, in quel punto, un po’ sfilacciata. La delicatezza della questione avrebbe imposto una rielaborazione».
Ma allora può esistere un bambino consenziente? No, Accarino non crede affatto che un bambino possa essere consenziente. E anche secondo Bodei «non è pensabile, perché un bambino non è un adulto». E poi andando più a fondo: «Questo passo – denuncia – giustifica crimini sessuali, come la pedofilia, e fenomeni come il turismo sessuale. C’è una giustificazione della pedofilia nel dire che c’è un assenso volontario verso gli adulti da parte dei bambini che subiscono violenza e questo non è accettabile». Il professor Marramao ride e dice: «Questo è tipicamente foucaultiano! Per un verso qui Foucault apre una prospettiva che riguarda la necessità di un’indagine sulla sessualità della pre pubertà ma dall’altra tende a rimuovere un problema che è connesso a una patologia molto seria come la pedofilia». Idealizzazione della follia, negazione del diritto del malato a una cura, ma anche un’idea distorta della sessualità, basata su un convincimento freudiano. «E Freud – stigmatizza Marramao – era un uomo del suo tempo, un moralista, anche un po’ rigido, basta pensare a quel suo agganciare la sessualità al complesso edipico. Ora non dico che non ci possano essere individui la cui vita possa essere condizionata da un rapporto edipico complesso, ma non è valido per tutti, racconta un fatto molto parziale. Il vecchio Freud era un gran sessuofobo, non c’è dubbio». E il pensiero sulla sessualità di Foucault, come quello di Freud non è simile a ciò che pensa la Chiesa: perversione e istintività bestiale? «Per Foucault – risponde Accarino – non esiste la sessualità umana, esistono solo i discorsi che ruotano attorno alla sessualità». Ma si può davvero discutere su qualcosa che non esiste? «In effetti – ammette Accarino – è molto forte, in Foucault, una spinta ad una sorta di smaterializzazione. A volte si ha l’impressione che il logos preceda il corpo, irretito, in senso letterale, in una trama di discorsi, senza avere uno statuto autonomo e una sua materialità». Come può allora un pensiero come quello di Foucault essere sposato dalla sinistra? Se siamo tutti pazzi, non è più coerente con un pensiero di destra che esige controllo e autorità? «Siamo “tutti pazzi” nel senso – prosegue Accarino – che il confine tra il normale e il patologico è sottilissimo, non certo perché si debba abbandonare un’idea della trasformazione fondata anche su presupposti istituzionali. Altro discorso è se il pensiero di Foucault abbia sollecitato una sorta di cinismo estetizzante che, sostenendo che siamo tutti pazzi, si esime dal pensare progetti di trasformazione. La verità è che andrebbe aperto un dibattito sul conservatorismo estetizzante di sinistra, merce di cui la Francia abbonda». E più oltre, forse, all’indomani dell’indulto, la sinistra potrebbe separarsi dai suoi maestri di un tempo cultura&scienza (Heidegger-Biswanger-Basaglia-Foucault), per proporre idee nuove che consentano di curare la malattia mentale? «Sono totalmente d’accordo – conclude il professore -. La “bella pazzia” appartiene a quel repertorio estetizzante che purtroppo è accasato nella sinistra. Molto lavoro c’è da fare in strutture pubbliche che possano intervenire sulla malattia mentale, ma il loro potenziamento viene mortificato alla stregua di un palliativo o addirittura di strumento di controllo autoritario, forse perché si teme che intervenire sulle risorse pubbliche comporti oggi una rivoluzione di intenti e di orizzonti politici assolutamente inimmaginabile».
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