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Il veleno esistenzialista

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 15, 2011

di Simona Maggiorelli

Franco Basaglia

«Vivere gli era diventato intollerabile» si legge in un articolo di  Simonetta Fiori che, su Repubblica,  ha raccontato della morte di un leader storico della sinistra come Lucio Magri. E poi quella diagnosi uscita dalla penna della giornalista che, per mettendosi al posto di uno psichiatra, sentenzia: Lucio Magri aveva «una depressione vera, incurabile». Un convinzione che pare essere diventata granitica negli amici di sempre, i fondatori del quotidiano Il Manifesto, che hanno sostenuto la scelta di Magri di andare in Svizzera per suicidarsi. Pur non essendo un malato terminale.

Qui, senza voler entrare nella vicenda privata di un uomo e di un politico coraggioso come Lucio Magri, forse però si può partire da come la sua storia è stata raccontata sui giornali e dall’entourage di Magri per  tornare a riflettere su certe radici di pensiero che, dagli anni Cinquanta ad oggi, hanno alimentato una cultura dell’«essere per la morte» anche nella sinistra, togliendo ogni speranza di ricerca sulla realtà psichica umana. Pensiamo in particolare a una cultura heideggeriana ed esistenzialista, analoga a quella che portò lo psichiatra svizzero Ludwig Binswanger a “spingere”al suicidio una sua  paziente, Ellen West, teorizzando che quello era il suo destino, il suo Dasein, il compimento di una libera scelta.

Questa vicenda, mesi fa, è stata ricordata su Repubblica da Pietro Citati non come un drammatico fallimento terapeutico, ma come un caso esemplare di autodeterminazione. Come se non ci fosse differenza fra una persona affetta da una malattia organica e incurabile e una persona malata di mente che gli psichiatri possono e devono provare a curare. Dietro questa ideologia, dove il pensiero nazista e cristiano di Heidegger s’incontra con il nihilismo di Sartre, c’è  con tutta evidenza la negazione della malattia mentale. Che era propria anche del pensiero di Basaglia come di molti catto-comunisti. Cultore di Binswanger, epigono di Sartre, lo psichiatra triestino, con Foucault  pensava che la pazzia fosse una “diversità” e il frutto di uno stigma sociale. E se è ben vero, come scriveva Massimo Adinolfi su L’Unità del 26 novembre, che il basaglismo (come il freudismo del resto) è in rapida estinzione, quella congerie culturale pre e post sessantottina ha esercitato una fortissima influenza su certa intellettualità di sinistra. Il Manifesto ne è stato una fucina, così come Liberazione diretta da Sansonetti. Con lenzuolate che esaltavano Foucault e la sua filosofia antistituzionale, antiscientifica, antiautoritaria e i suoi attacchi alla medicina come paradigma di potere. In nome di un’idea di libertà assoluta, senza il riconoscimento dell’identità umana più profonda, Foucault arrivava a fare l’apologia dell’omicidio-suicidio, della pedofilia e a scambiare per desiderio la triste tanatofilia del Marchese de Sade (vedi  Repubblica del 27 novembre). Quella stessa sinistra ha esaltato Freud, la sua idea di inconscio perverso, quanto inconoscibile, e si è nutrita della sua concezione tragica dell’umano. Ma si è  anche riempita la bocca delle elucubrazioni astratte e dissociate di Lacan e non ha mai voluto vedere l’abisso di violenza psichica che portò il filosofo Althusser, ad uccidere la moglie. L’irrazionale, per la sinistra basagliana e, al fondo, cristiana coincideva tout court con la pazzia. Oppure stando con Sartre si arrivava a dire che l’inconscio non esiste. Per il filosofo de L’essere e il nulla  tutto è mediato dalla coscienza e se la costruzione di sé viene smentita dai fatti, se  quegli ideali utopici che uno si è dato vengono disconfermati dalla realtà, ci si scontra con un’impotenza assoluta al cambiamento. Allora la morte, il suicidio- secondo Sartre – sarebbe pur sempre una scelta.  Un suicidio che sembra auspicato dai “cattivi maestri” che tentano di bloccare la ricerca sulla realtà umana e la cura.

da left-avvenimenti

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