Articoli

Posts Tagged ‘Hobbes’

Nadia Fusini: Shakespeare inventò una nuova lingua

Posted by Simona Maggiorelli su ottobre 26, 2010

Nelle sue tragedie e ancor più nelle commedie Shakespeare ribaltò con ironia l’immagine femminile angelicata. «Non più figura inerte ma soggetto attivo del proprio desiderio». A colloquio con Nadia Fusini,  studiosa e traduttrice del grande bardo

di Simona Maggiorelli

Macbeth di Shakespeare, dipinto da Sargent

Professoressa Fusini, il genio  Shakespeare nasce anche da un cambio di orizzonti culturali?
Il momento shakespeariano fu una congiuntura straordinaria e complessa: di crisi politica (la regina Elisabetta moriva senza eredi) ma al contempo di apertura di orizzonti legata ai viaggi transoceanici e a “scoperte” di nuove terre. Alla fine del Cinquecento Londra era una metropoli, con mille razze e mille lingue. Un clima elettrizzante. In quella koiné Shakespeare inventò una lingua estremamente mobile, varia, espressiva. Fu un periodo pieno di vitalità e insieme di ansie, di paure di qualcosa di apocalittico, mentre il nuovo stava emergendo.

La teologia, lei scrive, non era più vista come la scienza dominante nell’Inghilterra protestante di William Shakespeare.
C’è un nuovo sapere che si afferma, un sapere dell’uomo. La domanda che più volte torna in Shakespeare è proprio: che cos’è l’uomo? Si comincia a non cercare più la risposta nella teologia cristiana. C’è un nuovo sguardo. S’intuisce che bisogna scoprire l’umano nel rapporto con la natura e nelle relazioni con gli altri esseri umani. Anche gli studi di medicina contribuirono a riportare la “creatura” a terra.

Shakespeare filosofo? Come scrive Colin McGinn in un libro uscito due anni fa per Fazi?
Shakespeare non è un filosofo. Semmai è un poeta filosofo, comediceva T.S.Eliot, perché è uno che lavora con la lingua, che crea immagini. e attraverso le immagini che inventa passano emozioni, passano pensieri. Shakespeare pensa per immagini.

Conobbe il pensiero di Giordano Bruno che fu Oltremanica dal 1582 al 1585?
Un contatto indiretto ci fu. Shakespeare della sua epoca coglie le idee più vive, fa parte di circoli di persone che discutono nuove ipotesi. Shakespeare non incontrò personalmente Giordano Bruno ma incontrò certi suoi pensieri. E, per quanto fossero diversi anche nella scrittura, lo stesso Bruno per far passare ciò che pensa usa una lingua drammatica.

Come per Bruno, per Shakespeare l’immaginazione è positiva, non una maligna fantasia come invece dicevano invece Hobbes e Spinoza?
Assolutamente sì. Shakespeare sta dal lato bruniano della questione. Al contempo Shakespeare drammatizza la polisemia della parola, che vuol dire anche fiction e finzione. Allora che cos’è la verità? Domande così percorrono e dinamizzano tutti i suoi testi.

La Tempesta di Shakespeare, Miranda

«Dagli occhi delle donne lui impara»,fa dire Shakespeare a un suo personaggio. Le donne sono rappresentate in modo nuovo nelle sue opere?
Shakespeare stigmatizzava con ironia il Dolce Stil Novo. Lasciandosi alle spalle l’idea poetica di una donna “sovrana” da corteggiare ma che il cavaliere non conquisterà mai. Anche in Romeo e Giuletta, per citare la tragedia più romantica, c’è comunque un personaggio come Mercuzio che, a suo modo, prende in giro l’immagine angelicata della donna.

Del resto Shakespeare è anche l’autore de La bisbetica domata, dove Caterina si ribella all’idea della donna obbediente e silenziosa. Come lei stessa ha scritto nel libro I volti dell’amore...
Qui l’idea dell’amore angelicato viene addirittura ribaltata. Io penso che la ricchezza di Shakespeare stia proprio nel mostrare molti punti di vista e, riguardo ai personaggi femminili, molti tipi di donne. Soprattutto nelle commedie sono ragazze molto sveglie e che sanno come conquistare l’amore. In Tutto è bene quel che finisce bene, per esempio, c’è un’ eroina, Elena, che parte per andare a cercare l’uomo che ama e che l’ha rifiutata per banali motivi di classe. E lei riesce a “conquistarlo”. La donna non è più figura inerte, qui è soggetto attivo del proprio desiderio. Ofelia, certo non è così. Ma Shakespeare sa rappresentarla nel momento in cui sboccia; è una bellissima immagine, però, come accennavo, non si iscrive nel Dolce Stil Novo. Anche il fatto che lei impazzisca a causa della freddezza di Amleto rende ancora più drammatica questa figura di fanciulla che si trova vittima di una trama psicologica e politica che la supera. Ma pensi anche a una figura come Cordelia di  Re Lear, è un personaggio femminile che dice quello che pensa, che va alla corte di Francia per difendere il padre. Non possiamo dimenticare un fatto storico, ovvero che fino al 1603 Shakespeare vive in un Paese in cui sul trono c’è una donna. Vive in una cultura misogina ma concretamente c’è comunque Elisabetta, una donna, al comando. Insomma una figura che, per quanto regale, faceva pensare che la donna non fosse necessariamente il sesso debole.

Da ultimo, una domanda a Nadia Fusini traduttrice. Quanto si perde leggendo Shakespeare in italiano?
è il grande sconforto di chi come me prova a tradurre. Io so bene che la lingua in cui trasporto Shakespeare non è assolutamente all’altezza. Non è per fare una boutade ma non è un caso che Shakespeare non sia nato in Italia. L’italiano è una lingua che non credo avrebbe mai potuto partorire un autore come lui. L’italiano è una lingua diversa e non consente quelle arditezze, quelle acrobazie straordinarie. L’inglese di Shakespeare è una lingua molto concreta, onomatopeica, una lingua di suoni aspri, gutturali, è molto difficile tradurla nella nostra lingua, qualcosa necessariamente si perde.

Ma forse nemmeno l’inglese di oggi, molto standardizzato, sarebbe adatto a renderne l’espressività?
L’inglese di oggi è molto più facile da tradurre, perché è molto più povero. L’inglese di Shakespeare ha un vocabolario molto ma molto grande. Attinge da un lato alle radici latine, dall’altra alle radici sassoni, c’è una ricchezza originalissima.

da left-avvenimenti

Posted in Letteratura | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , | 1 Comment »

L’eros non si addice al logos occidentale

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 17, 2009

di Simona Maggiorelli

velàzquez, Venus,1650

velàzquez, Venus,1650

Con libri come Le forme del visibile, filosofia e pittura da Cézanne a Bacon (Pendragon) il filosofo Marco Vozza si è dedicato a un interessante tentativo di elaborazione di un’estetica basata su un’idea di autonomia dell’opera d’arte rispetto al contesto in cui nasce ma anche sul riconoscere alle immagini un contenuto di pensiero che si esprime nella forma. A fare da traccia, qui, è la lezione di Focillon da cui il docente di filosofia teoretica dell’università di Torino ha mutuato la celebre espressione «il segno significa, mentre la forma si significa». Una visione del fatto artistico che parte dal presupposto che «l’arte, così come la scienza e la filosofia – scrive Vozza – sia uno strumento di conoscenza». In questa chiave, l’opera d’arte nata nel «flusso della vita» conserva un plenum che è proprio della percezione sensibile, mentre forma e contenuto, del tutto inscindibili, esprimono un’eccedenza rispetto allo spirito del tempo in cui sono state realizzate. Con questa filosofia dell’arte che qui abbiamo riassunto rozzamente il professore ha riletto l’opera dei maggiori artisti del Novecento e ha dato vita a una collana editoriale coinvolgendo altri importanti autori nel progetto. Per le edizioni Ananke sono già usciti i primi due titoli. Il primo di Didier Anzieu dedicato al pittore Francis Bacon e un secondo, Indizi sul corpo, firmato da Jean Luc Nancy: non un volume collettaneo che mette insieme testi di conferenze svolte in epoche diverse (come ne stanno uscendo molti, di Nancy, in questi mesi) ma un testo filosofico in senso stretto. Tenendo presente il lavoro del filosofo francese dedicato ai temi dell’eros a Sassuolo oggi alle 21 Marco Vozza farà la sua lectio magistralis analizzando come filosofi e psiconalisti hanno letto il desiderio. Così dopo il saggio A debita distanza (Diabasis) in cui Vozza raccontava il tormentato rapporto fra Kierkegaard, Kleist, Kafka e le rispettive fidanzate, il filosofo torinese aggiunge un nuovo capitolo alla sua disanima dei tentativi da parte dei pensatori cresciuti nel culto del logos occidentale di controllare e soffocare il desiderio, cristianamente visto come male. «Nel mio intervento – dice il professore – cercherò di spiegare come la dinamica del desiderio sia stata letta come esperienza che approda a una configurazione (filosoficamente) solipsistica e (psicologicamente) narcisistica, in ossequio alla metafisica dell’età moderna e poi contemporanea. E sosterrò con una certa risolutezza che, fin quando ci si attiene a tale logica (o grammatica) del desiderio, si manca o si fallisce l’esperienza d’amore». In altre parole? «Si tratta innanzitutto di decostruire una certa idea di desiderio che si ritrova già in un moralista come La Rochefoucault, il quale sosteneva che gli uomini non avrebbero mai pensato all’amore se non ne avessero sentito parlare da qualcun altro, che “le passioni si nutrono di cliché” e che “la maggior parte delle emozioni sono di origine convenzionale”. Ma – prosegue Vozza – questo carattere mimetico del desiderio è stato ribadito e teorizzato più recentemente anche da un filosofo e antropologo come René Girard». E in precedenza lo ritroviamo in Proust. «Per l’autore della Recherche – spiega Vozza – la realtà non ha alcun ruolo costitutivo o dirimente nel desiderio che, per lui, è fondamentalmente di natura proiettivo-fantasmatica. Pertanto l’amore esprime la perversione del soggetto. L’intera tradizione occidentale – sottolinea il professore -, senza particolari eccezioni, si avvale di uno schema in base al quale l’esperienza amorosa è pensata in termini di una logica (o di una grammatica) del desiderio a carattere proiettivo-fantasmatico piuttosto che in termini di relazione tra un uomo e una donna. Quale soggetto è attivo all’interno di questo scenario? Un individuo, anzi due individui che si rispecchiano fedelmente nel perseguire simulacri del Nulla, confrontandosi tra loro come nello stato di natura descritto da Hobbes; un individuo ignaro del carattere comunitario del suo essere-al-mondo, del con-essere. Questo individuo, estraneo al contagio della relazione, così “immunizzato”, non può che muoversi inquieto nell’esistenza perché – conclude Vozza – osserva un’originaria e angosciosa inimicizia e una irriducibile propensione al potere…in una costante disposizione distruttiva che si avvale della capacità di uccidere: “gli uomini per naturale passione sono reciprocamente offensivi”, scrive l’autore del Leviatano». E in questa visione così desolata dell’uomo si potrebbero variamente collocare in molti, da Platone a Freud.

dal quotidiano Terra, 18  settembre 2009

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »

La caduta dei giganti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009

Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair

di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus  imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair

Jean Clair

Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya

Il Saturno di Goya

Goya ha rappresentato  in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso  o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Il Leviatano (1651)

Hobbes, Leviathan (1651)

Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge –  non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490

Bosch La nave dei folli 1490

«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato –  nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi,  in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma,  la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.

da left-avvenimenti del 21 marzo 2009

Posted in Arte | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | 1 Comment »

La caduta degli dei filosofi

Posted by Simona Maggiorelli su settembre 22, 2006

freudFoucault, Marcuse, Sartre. La sinistra rivede i suoi punti di riferimento e i pensatori guru del ‘68. Cosa resta di valido del loro pensiero? Ne discutono tre filosofi di oggi: Accarino, Bodei e Marramao

di Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Un libro duro su Sartre che, per la prima volta, mette al nudo il teorico del nulla, fin qui intoccabile maître à penser della sinistra. E poi, lungo l’asse Francoforte – Parigi, un ripensamento radicale del pensiero di Marcuse che Piero Melograni sul Corsera dice «il più nefasto» dei guru sessantottini. L’esistenzialismo, nelle sue declinazioni francese e tedesca, con le sue radici in Freud, Heidegger e Lacan, da qualche tempo, sui giornali di sinistra è al centro di un acceso dibattito. In Italia, ma anche Oltralpe; basta dare uno sguardo alle pagine di Libération. Come se fosse arrivato il tempo di vedere più da vicino, nella giusta prospettiva storica, punti di riferimento a lungo idealizzati. Con il coraggio, talvolta, da parte di una sinistra in cerca di una nuova identità, di rottamare ciò che ormai appare superato. «Un ripensamento e una riconsiderazione più che legittima», commenta il filosofo Giacomo Marramao. Specie quando si tratta di problematiche che intercettano l’attualità. E temi “caldi” come il carcere, la sessualità, la follia abitano, fin dagli inizi, la trattazione del filosofo francese Michel Foucault. Le sue formulazioni, che tanta influenza hanno avuto sulla sinistra italiana, ora sono riportate alla ribalta da un libro edito da Raffaello Cortina, Follia e psichiatria, con saggi e interviste dal 1957 al 1984. Ne abbiamo parlato con tre eminenti filosofi. Partendo dal tema più bruciante, quello che riguarda la malattia mentale.«Senz’altro il modo di pensare la follia di Foucault è da rivedere – è la risposta immediata di Remo Bodei -. Quello di cui ci ha parlato non è l’essenza della follia, che lui dice sfuggire come la carta del jolly, che compare e scompare, nel mazzo delle carte. Cosa che io non credo, perché penso che la follia si possa interpretare, in qualche modo». sartreE aggiunge: «Foucault ha guardato solo a ciò che produce socialmente la follia, con la trasformazione, dopo i grandi cicli epidemici, dei lebbrosari in manicomi». Dunque un pensiero che nega la malattia mentale? «Foucault appare un po’ buonista – prosegue Bodei -. Se non arriva a dire che ognuno ha diritto alla sua follia e al suo delirio come faceva Antonin Artaud, certo non considera che la malattia mentale è dolore». «Foucault resta come abbacinato dall’idea che la follia sia l’effetto di un gigantesco sistema repressivo, di controllo e disciplinamento generalizzato – prosegue Giacomo Marramao -. Questa sua idea oggi entra in crisi: la follia non è tanto un’invenzione del sistema, ma una patologia da curare». Ma se sul tema della malattia mentale le idee di Foucault sono, dice Marramao, «molto da rivedere, molto da correggere» c’è un punto della riflessione del filosofo francese che si sente di salvare: la riflessione sul sapere come potere e quella sulla detenzione. «Foucault ha raccontato – dice Marramao – come dalla modernità si determinino due regimi diversi: quello dei detenuti e quello dei diversi. Prima non c’era una compartimentazione dei folli, che facevano parte della comunità. La geometria cartesiana e hobbesiana dello Stato moderno, invece, traccia un confine netto fra il sano e il folle, fra il normale e il deviante. E non è che la normalità venga stabilita prima e poi la devianza. È piuttosto il contrario: prima viene stigmatizzata la devianza e poi si costituisce la normalità». Quello foucaultiano sulle carceri è un passaggio che appare importante anche al filosofo Bruno Accarino: «Quella che andrebbe riscritta, a partire da un caposaldo del pensiero foucaultiano come Nietzsche è una filosofia della pena». Riscrivere, proponiamo, anche nel senso di “mettere in crisi”. Formulando, a sinistra, un discorso filosofico che ripensi la pena non più come punizione. «Proprio così – dice il docente dell’ateneo fiorentino -. Negli Usa si fa un business multimiliardario sugli istituti di pena, la cui logica punitiva non fa che preparare nuovi sovraffollamenti anche economicamente remunerativi. Si è chiusa un’epoca e ogni tentativo di risoluzione accentuando la repressione è perfino patetico nella sua inutilità». Ma proprio il tema del carcere e della pena ci riporta qui a un’intervista pubblicata in Follia e psichiatria: interpellato sulla punibilità dei crimini di pedofilia e di stupro Foucault dice: «Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto, e allora? Ci sono bambini che acconsentono rapiti!». Un passo inquietante; a tutti e tre i nostri interlocutori abbiamo chiesto un commento. «Il consenso dei bambini pone problemi legislativi, non di orientamento morale – risponde Accarino -. La discussione mi sembra, in quel punto, un po’ sfilacciata. La delicatezza della questione avrebbe imposto una rielaborazione». basagliafoto800Ma allora può esistere un bambino consenziente? No, Accarino non crede affatto che un bambino possa essere consenziente. E anche secondo Bodei «non è pensabile, perché un bambino non è un adulto». E poi andando più a fondo: «Questo passo – denuncia – giustifica crimini sessuali, come la pedofilia, e fenomeni come il turismo sessuale. C’è una giustificazione della pedofilia nel dire che c’è un assenso volontario verso gli adulti da parte dei bambini che subiscono violenza e questo non è accettabile». Il professor Marramao ride e dice: «Questo è tipicamente foucaultiano! Per un verso qui Foucault apre una prospettiva che riguarda la necessità di un’indagine sulla sessualità della pre pubertà ma dall’altra tende a rimuovere un problema che è connesso a una patologia molto seria come la pedofilia». Idealizzazione della follia, negazione del diritto del malato a una cura, ma anche un’idea distorta della sessualità, basata su un convincimento freudiano. «E Freud – stigmatizza Marramao – era un uomo del suo tempo, un moralista, anche un po’ rigido, basta pensare a quel suo agganciare la sessualità al complesso edipico. Ora non dico che non ci possano essere individui la cui vita possa essere condizionata da un rapporto edipico complesso, ma non è valido per tutti, racconta un fatto molto parziale. Il vecchio Freud era un gran sessuofobo, non c’è dubbio». E il pensiero sulla sessualità di Foucault, come quello di Freud non è simile a ciò che pensa la Chiesa: perversione e istintività bestiale? «Per Foucault – risponde Accarino – non esiste la sessualità umana, esistono solo i discorsi che ruotano attorno alla sessualità». Ma si può davvero discutere su qualcosa che non esiste? «In effetti – ammette Accarino – è molto forte, in Foucault, una spinta ad una sorta di smaterializzazione. A volte si ha l’impressione che il logos preceda il corpo, irretito, in senso letterale, in una trama di discorsi, senza avere uno statuto autonomo e una sua materialità». Come può allora un pensiero come quello di Foucault essere sposato dalla sinistra? Se siamo tutti pazzi, non è più coerente con un pensiero di destra che esige controllo e autorità? «Siamo “tutti pazzi” nel senso – prosegue Accarino – che il confine tra il normale e il patologico è sottilissimo, non certo perché si debba abbandonare un’idea della trasformazione fondata anche su presupposti istituzionali. Altro discorso è se il pensiero di Foucault abbia sollecitato una sorta di cinismo estetizzante che, sostenendo che siamo tutti pazzi, si esime dal pensare progetti di trasformazione. La verità è che andrebbe aperto un dibattito sul conservatorismo estetizzante di sinistra, merce di cui la Francia abbonda». E più oltre, forse, all’indomani dell’indulto, la sinistra potrebbe separarsi dai suoi maestri di un tempo cultura&scienza (Heidegger-Biswanger-Basaglia-Foucault), per proporre idee nuove che consentano di curare la malattia mentale? «Sono totalmente d’accordo – conclude il professore -. La “bella pazzia” appartiene a quel repertorio estetizzante che purtroppo è accasato nella sinistra. Molto lavoro c’è da fare in strutture pubbliche che possano intervenire sulla malattia mentale, ma il loro potenziamento viene mortificato alla stregua di un palliativo o addirittura di strumento di controllo autoritario, forse perché si teme che intervenire sulle risorse pubbliche comporti oggi una rivoluzione di intenti e di orizzonti politici assolutamente inimmaginabile». left

**

foucaultFoucault: «Se il bimbo non si rifiuta non c’è violenza»

In un’intervista, apparsa su Change nel 1977 e ripresa in Dits et écrits (Gallimard) e ora in Psichiatria e follia, J.P.Faye e altri pongono dei quesiti al filosofo: «Una ragazzina di otto anni – dice Faye – stuprata da un giovane bracciante agricolo di 28 anni, in un fienile. Poi lei ritorna a casa, suo padre fa il medico, è cardiologo, che si interessa anche a Reich: da cui la contraddizione. Vede rincasare la figlia, che non apre più bocca. Resta completamente muta per diversi giorni, ha la febbre… Nel giro di qualche giorno, tuttavia, fa vedere che è ferita fisicamente. Il padre cura la lacerazione, sutura la ferita. Medico e reichiano, sporge denuncia? No, si limita a parlare con il bracciante agricolo, prima che lui se ne vada. Non scatta alcuna azione giudiziaria. Ma il racconto continua con la descrizione di un’enorme difficoltà psichica a livello della sessualità, più avanti nel tempo. Che è verificabile soltanto quasi dieci anni dopo. È molto difficile pensare qualcosa a livello giuridico in questo caso. Non è facile a livello della psiche, mentre sembra più semplice a livello del corpo».

M. Foucault: In altre parole, bisogna dare una specificità giuridica all’aggressione fisica nei confronti del sesso?

J.P. Faye: C’è una lesione che è al tempo stesso fisica, come un pugno sul naso, e insieme anticipa una “lesione psichica” forse non irreversibile, ma che sembra molto difficile da misurare. Al livello della responsabilità civile, “misurare il danno” è una questione delicata. Al livello della responsabilità penale, che posizione può prendere un partigiano di Reich? Può presentare una denuncia, intentare un’azione repressiva?

M. Foucault: Ma tutte e due voi, in quanto donne, siete immediatamente urtate dall’idea che si dica: lo stupro rientra nelle violenze fisiche e pertanto deve essere trattato semplicemente come tale.

M. O. Faye: Soprattutto quando riguarda bambini o ragazzine.

D. Cooper: Nel caso di Roman Polanski negli Usa, in cui si trattava di una questione di sesso orale, anale e vaginale con una ragazza di tredici anni, la ragazza non sembrava traumatizzata, ha telefonato a un’amica, ma la sorella ha origliato dietro la porta e così si è messo in moto il processo contro Polanski…

M. Foucault: Sembra che fosse consenziente. E questo mi porta alla seconda domanda che volevo porvi. Lo stupro può comunque essere definito abbastanza facilmente, non solo come un non-consenso, ma come un rifiuto fisico di accesso. Per contro, tutto il problema che si pone, nel caso delle ragazze ma anche dei ragazzi – perché, legalmente, lo stupro nei confronti dei ragazzi non esiste – è il problema del bambino che viene sedotto. O che comincia a sedurre voi. Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?… Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti.

M. O. Faye: Anche i bambini tra di loro, ma su questo si chiudono gli occhi. Quando un adulto entra in gioco, però, non c’è più uguaglianza e equilibrio tra le scoperte e le responsabilità. C’è una disuguaglianza…difficile da definire.

M. Foucault:  Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia…Inoltre, esiste anche il caso dell’adulto che è in un rapporto di autorità rispetto al bambino. Sia come genitore, sia come tutore, oppure come professore, come medico. Anche qui si sarebbe tentati di dire: non è vero che da un bambino si può ottenere ciò che non vuole veramente, attraverso l’effetto dell’autorità.

Posted in Filosofia | Contrassegnato da tag: , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , | Leave a Comment »