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Il secolo lungo di Daverio

Posted by Simona Maggiorelli su febbraio 24, 2013

Delacroix, il 28 luglio, la libertà guida il popolo (1831)

Delacroix, il 28 luglio, la libertà guida il popolo (1831)

In una ideale staffetta con lo storico Eric J. Hobsbawm, Philippe Daverio torna ad indagare il XIX secolo. Nel libro Il secolo lungo della modernità (Rizzoli) lo fa immaginando di trasformare una vecchia stazione ferroviaria in un museo pieno di opere che hanno punteggiato un lungo arco di tempo che va dalla rivoluzione francese alla fine della prima guerra mondiale, ovvero fino al momento «in cui Hobsbawm fa iniziare il suo secolo breve», sottolinea il critico d’arte milanese, che insegna alla Facoltà di architettura a Firenze.

«La lunghezza del secolo è il primo dato che dà valore alla dimensione storica» abbozza ironicamente il professore. «Il Cinquecento per esempio, è importante perché comincia sostanzialmente con la morte di Lorenzo de’ Medici e la scoperta dell’America e si conclude con lo scoppio della guerra dei trent’anni, nel 1618. I secoli sono importanti quando sono lunghi. Basta misurarli!».

E poi avvicinandosi al tema del suo nuovo libro aggiunge: «Il secolo della modernità è il XIX secolo: lì nasce tutto ciò che fa il nostro mondo, dal treno all’aereo, dal telefono alla medicina». E già qui troviamo all’opera quel suo affascinante sguardo lungo sull’arte che, oltre all’estetica e alla storia, comprende anche l’antropologia, la filosofia, il costume. Un metodo, quello di Daverio, che soprattutto nei libri (da Il museo immaginato, Rizzoli, all’Arte di guardare l’arte Giunti) procede per nessi analogici, inaspettati, infischiandosene degli “ismi” e dalle  compartimentazioni del sapere che, alla fine, appiattiscono la visione.

«Noi abbiamo modificato la storia dell’arte secondo canoni recenti, con parametri che sono quelli che sono serviti in gran parte per giustificare i prezzi delle opere sul mercato. Se invece rovesciamo la questione dal punto di vista antropologico e culturale diventa tutto più divertente», suggerisce Daverio. «Basta usare altri parametri. Se guardiamo la pittura che concerne il vapore vengono fuori quadri di vapore. Se guardiamo il lavoro, il rapporto con la natura, con il sentimento, che nel Romanticismo erano preminenti, se guardiamo ai veri temi con cui si identificava il XIX secolo allora si formano dei raggruppamenti diversi». E nessi inediti, stimolanti. Che hanno il pregio di gettare una luce nuova sulle cose.

La predilezione di Daverio per la modernità (anche come direttore della rivista Art e Dossier) potrebbe lasciare intuire una critica implicita al contemporaneo. In sintonia con un critico acuto come l’ex direttore del Musée Picasso di Parigi, Jean Clair che in libri come L’inverno della cultura (Skira) ha criticato la povertà culturale del tardo pop e la freddezza razionalista del concettualismo di moda oggi. Ma curiosamente è stato accusato da critici e curatori di catastrofismo e passatismo, con toni da censura. «Il fatto è – commenta Daverio – che esiste una struttura di mercato che ha lo scopo di difendere tutto ciò che è stato prodotto nel XX secolo senza avere il coraggio di esaminarlo. Ma ormai il Novecento è passato e si ha il diritto di indagarlo. Il mio prossimo libro, intitolato Il breve secolo dell’ansia, si occuperà proprio di questo».

Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1912)

Boccioni, Stati d’animo, gli addii (1912)

Con ciò, precisa Daverio, «non è vero che nel XX secolo non nasca nulla di importante. Emergono nuovi protagonisti: gli Stati Uniti, la Russia, anche l’Italia, i paesi non industrializzati del XIX secolo. Ma le invenzioni nel XX secolo, tutto sommato, sono poche. Il Novecento non è stato il secolo della scienza ma il secolo della tecnologia. La filosofia di fatto si arresta nell’ambito del pensiero debole che è una declinazione dell’esistenzialismo. Si abbandona ogni ipotesi di una concezione sistematica possibile del mondo, come invece avevano tentato, in chiave di materialismo storico, Karl Marx, in modo esistenzial-depressivo Schopenhauer e poi il superuomo Nietzschiano. Tutta questa roba nel Novecento scompare. E finiamo con il pensiero debole con Karl Popper. Ma oggi-conclude Daverio -, visto che sono  già passati 15 anni dalla sua fine, se prendiamo Sarajevo come punto di svolta, possiamo cominciare ad analizzare il XX secolo per capirne le opacità, il senso, le contorsioni».

E cosa emerge dalla sua analisi? «Che gran parte del XX secolo è fatto di cose del XIX – ribadisce il professore -. Ci sono delle aree, per esempio, dove la Belle Époque finisce dopo il 1939. Quella parigina continuò fino all’arrivo delle truppe tedesche che, passate attraverso la guerra, subito dopo si misero a godere di nuovo».

E che dire invece del postmoderno che, per quanto oggi lo si dica morto, continua a dominare nelle Biennali d’arte e nei musei dalla Tate, al Pompidou al MoMa? «Bisogna vedere cosa vuol dire oggi postmoderno. La parola ci piaceva quando fu inventata 25 anni fa perché non si capiva dove andava a parare. Io oggi lo chiamerei neo contemporaneo. La modernità si fonda su una radice del passato, esiste in quanto è il passato che si fa presente e ci proietta avanti. L’idea di contemporaneità si lega ai “compagni del nostro tempo” e immagina l’attualità come basata su una tabula rasa: cancelliamo tutto e facciamo un mondo nuovo, che è quello che accadde nel 1917 a San Pietroburgo, a Mosca. Ma anche nel 1922 in Italia con Mussolini e quando l’Adolfo inventò il terzo Reich: durerà mille anni, predicava, ripartiamo da zero». E oggi? «Stiamo tornando alla modernità, ci pensiamo come il punto di passaggio fra passato presente e futuro. Non crediamo più che demolendo tutto, di per sé nasca il nuovo».

Philippe Daverio

Philippe Daverio

Di questo parlerà la sua prossima serie di Passpartout? «Non è detto che me lo facciano rifare… Anni di lavoro – chiosa Daverio- valgono un po’ meno di una serata di Benigni economicamente. Il pubblico ha apprezzato il programma, i dati lo dicono, ma in Rai stranamente non lo sanno. La Rai è una cosa abbastanza importante. Ma non siamo poi così sicuri che sia in Italia, potrebbe anche essere da qualche parte nell’Universo, lontano dal Paese reale».

Anche la politica è sorda alla domanda di cultura? Ci stiamo avvicinando alle elezioni e i beni culturali, il patrimonio d’arte sono fra i temi più snobbati nei programmi «E che non gliene frega niente a nessuno. Per conto del Fai ho coordinato una discussione con esponenti politici ed è stato – dice il professore dopo una pausa – alquanto imbarazzante». Quanto ai programmi dei partiti «una certa inclinazione per le tematiche culturali vive comunque nell’area di Bersani. Forse perché lui è laureato in filosofia con una tesi su Alberto Magno. Una sorta di romanticismo filo culturale, a destra, c’è poi fra quelli di Fini. Tutti gli altri se ne infischiano. Probabilmente hanno altri problemi». Con il progetto Save Italy lei aveva provato a lanciare un progetto e un movimento, possiamo fare qualcosa come cittadini? «Io penso di sì, bisogna fare fortemente i provocatori. Bisogna provocare reazioni». (simona maggiorelli)

Dal settimanale Left-avvenimenti

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Come sono diventato Picasso

Posted by Simona Maggiorelli su gennaio 2, 2013

Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)

Picasso e Gilot fotografati da Capa (1948)

Il 2013 dell’arte si apre nel segno del pittore spagnolo. Con mostre a Milano, Roma, Chicago e Barcellona. Che raccontano la svolta cubista. E la sua ricerca continua di un modo nuovo di fare immagini

di Simona Maggiorelli

«Io dipingo esattamente come altri scriverebbero la loro autobiografia. Le mie tele, finite o non finite, sono come le pagine del mio diario. Il futuro sceglierà quelle che preferisce», diceva Pablo Picasso. «È il movimento della pittura che mi interessa, l’attenzione drammatica insita nel passare da una visione all’altra. Anche quando il tentativo non è portato a fondo». E la pittrice Françoise Gilot nel libro La mia vita con Picasso racconta che poi lui le disse: «Ho sempre meno tempo e sempre di più da dire. Sono arrivato a un punto in cui il movimento del mio pensiero mi interessa di più del mio pensiero stesso!».

Che Picasso si sia espresso o meno con queste precise parole poco importa, viene da pensare passeggiando per le sale della mostra milanese Picasso capolavori dal museo nazionale di Parigi (fino al 27 gennaio, catalogo Il Sole 24 oreCultura), tanto si attaglia e sussume l’avventura, libera, eretica, incontenibile del pittore malaguegno nell’arte del Novecento.

«La vicenda biografica di Picasso è la storia stessa della sua opera», annotava anche uno studioso rigoroso come Argan invitando a leggere la monumentale biografia di Roland Penrose L’uomo e l’artista (ora riproposta da Pgreco).

Proprio come intime e delicate pagine di un diario, benché completamente ricreate e trasfigurate, spuntano, fra gli specchi antichi di Palazzo Reale, i biondi ritratti di Marie-Thérèse Walter, la giovane amante di Picasso.E come schegge di memoria conficcate nella carne viva, ecco le aguzze scomposizioni del volto di Dora Maar, la compagna abbandonata, che piange, mostrando le unghie e urlando tutta la sua disperazione.

Picasso, studio per Les Demoiselles

Picasso, studio per Les Demoiselles

E ancora, quasi a voler rappresentare tutta la intricata trama dei rapporti di Picasso con l’universo femminile, ecco il marmoreo ritratto di Olga (1917), la statuaria ballerina russa, quasi bambola di cera dal volto infinitamente triste. E poi, sempre lungo il filo della cronologia, le massicce figure femminili che corrono controvento nell’atmosfera afosa di un neoclassicismo anni Venti che si fa metafora tangibile e concreta di un pesante ritorno all’ordine. Dagli esordi con il fiammeggiante ritratto dell’amico Casagemas (1901), morto suicida, al periodo blu rappresentato a Milano da una inquietante Celestina orba, alla dirompente invenzione del cubismo, fino ai collages, agli assemblaggi di oggetti trovati, alle filiformi sculture in ferro a quadri che giocano con fantasmagorie di stampo vagamente surrealista e ben oltre. Con grande abilità e irruenza, Picasso ha saccheggiato ogni genere e stile. Ogni novità e tradizione con cui sia venuto in contatto. Riuscendo sempre a farne qualcosa di assolutamente personale, originale, inimitabile.

Così le eleganti scomposizioni cubiste di Braque, giocate sui toni del nero e marrone, accanto alla forza dirompente ed iconoclasta di quelle picassiane, ritmate da linee nere, definite e perentorie, appaiono poco più che educati esercizi di stile. Come si potrà notare anche più approfonditamente al Vittoriano a Roma, dal 7 marzo, con la mostra e il catalogo Skira Picasso, Braque, Leger e il cubismo.

Ma interessante, qui a Milano, è anche il confronto con l’unico maestro che Picasso abbia mai riconosciuto: Cézanne. Che regala ai caldi paesaggi provenzali, lucenti di arancio e verde, una evidenza e una tridimensionalità quasi scultorea. «Sarebbe bastato fare a pezzi questi dipinti… e poi ricomporli secondo le indicazioni fornite dal colore, per trovarsi di fronte a una scultura» suggeriva Picasso stesso intervistato da Cahiers d’art nel 1935.

Beninteso non si tratta qui di stabilire un meglio o un peggio, in una impossibile scala di giudizio fra protagonisti dell’arte così rivoluzionari, ma di rimarcare l’assoluta differenza che Picasso sapeva segnare ogni volta, anche quando il suo fare arte nasceva dall’arte altrui, in dialogo vivo, con pittori del passato o suoi contemporanei.

Picasso, L'ombra

Picasso, L’ombra

Perfino nel confronto con quel classicista accademico di Ingres, in cui Picasso colse un lato sovversivo, ricreandone interamente il celebre Bagno turco (1862) ne Les Demoiselles d’Avignon (1907), l’opera del geniale balzo in avanti, dello strappo radicale con tutta la tradizione figurativa d’Occidente, che mandava in cantina la pittura da cavalletto e la piatta mimesi del reale.

Dalle passive odalische di Ingres, il ballo ancestrale di nude e scultoree fanciulle, rappresentate in questa antologica milanese attraverso una serie di studi preparatori. Magnetiche e lucenti come l’ebano delle statuette africane che avevano attratto l’attenzione di Picasso al Musée dell’Homme di Parigi. Ma niente affatto tornite e affabili. Anzi spigolose e aguzze, imprevedibili e selvagge nella irrazionale molteplicità di punti di visti con cui il pittore spagnolo le mette in scena. Regalando loro il fascino enigmatico e misterioso di uno sguardo spalancato su una realtà che lo spettatore non riesce a vedere. Come antiche statuette votive yemenite, eppure ultramoderne.

Gli schizzi e le tele per le Demoiselles in mostra in Palazzo Reale portano in primo piano la linea netta e potente con cui sono “scolpite”. Anche quando non sono tracciate con il carboncino o con l’inchiostro, ma con una friabile e carnale sanguigna. Ed è uno dei momenti forse più emozionanti di questa mostra. Insieme all’omaggio all’amico e rivale Matisse che in Palazzo Reale è evocato attraverso una serie di tele picassiane che si aprono come finestre su marine assolate con al centro sensuali presenze femminili, quadri come L’ombra (1957) o L’atelier La Californie (1955) dipinto subito dopo la morte di Matisse, come un commosso addio.

Con tutto ciò non ha la pretesa di voler dire qualcosa di nuovo su Picasso questa mostra curata dalla direttrice del Museo Nazionale di Picasso Anne Baldassari, neanche rispetto alle precedenti rassegne del 2001 e del 1953 che queste sale hanno ospitato. Ma offre l’occasione davvero imperdibile di rivedere circa 250 opere di Picasso, fra cui molti capolavori, mentre la loro storica sede parigina resterà chiusa per lavori fino all’estate 2013. Nel frattempo, parte di questi prestiti, ricombinati con altri, andranno a comporre, dal 20 febbraio, la grande retrospettiva che l’Art Institute di Chicago dedica a Picasso per i cento anni da quella storica esposizione del 1913 che presentò il suo lavoro al pubblico americano. Una nutrita serie degli autoritratti che raccontano i tanti travestimenti attraverso i quali Picasso – con abile mitopoiesi di se stesso – amava raccontarsi, invece, dal 31 maggio saranno esposti nel Museo Picasso di Barcellona nell’ambito della mostra Yo, Picasso.

In primo piano, il multiforme giocare picassiano con le maschere di Arlecchino, di saltimbanco dell’anima, Trickster, e Ermete Trismegisto avvezzo a tramenare con tutte le possibili alchimie pittoriche, in un movimento continuo di un pensiero per immagini che procede come un fiume in piena. Vicino al linguaggio dei sogni, nelle sue deformazioni, condensazioni, polisemie. Eppure mai preso nella trappola surrealista di tentare una trascrizione meccanica e razionale delle immagini della notte.

da left-avvenimenti del 29 dicembre 2012

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La caduta dei giganti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009

Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair

di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus  imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair

Jean Clair

Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya

Il Saturno di Goya

Goya ha rappresentato  in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso  o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Il Leviatano (1651)

Hobbes, Leviathan (1651)

Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge –  non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490

Bosch La nave dei folli 1490

«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato –  nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi,  in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma,  la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.

da left-avvenimenti del 21 marzo 2009

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