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Tempo della coscienza e tempo dell’inconscio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 24, 2009

Intervista allo psichiatra Massimo Fagioli

di Simona Maggiorelli

massimo fagioli

massimo fagioli

Tempo di vita degli animali e degli esseri umani, una differenza profonda. Tra le due cesure forti della nascita e della morte c’è da notare la differenza fra il tempo misurabile della coscienza e il tempo dell’inconscio che fa la qualità della vita degli esseri umani. Ma occorre dare anche uno sguardo alla storia della cultura per rivedere criticamente l’idea di tempo che ha connotato il cristianesimo, la psicoanalisi, il marxismo e l’esistenzialismo. Sul tema del tempo- il primo della triade su cui si appunta la riflessione di questo numero speciale della rivista Il Grandevetro – abbiamo sentito lo psichiatra Massimo Fagioli, che con la scoperta della pulsione di annullamento e della fantasia di sparizione concettualizzata nel suo prio libro Istinto di morte e conoscenza (1971, Nuove edizioni romane, e ora edizioni l’Asino d’oro) e poi con i seminari di analisi collettiva ha rivoluzionato dal punto di vista della teoria e della prassi, il modo di pensare e di fare psichiatria, mettendo al centro della ricerca scientifica la ricerca sull’inconscio, il tema della cura e della possibilità di trasformazione psichica umana.

professor Fagioli che differenza c’è fra il tempo di vita degli esseri umani, degli animali e dei vegetali?

Se ci limitiamo a intendere la domanda in senso positivistico si può dire che dal punto di vista del tempo di vita vi sono variabili nel senso della misurazione mediante anni. Per cui un cane vive vent’anni, un elefante novanta, una tartaruga, credo, anche trecento. Alcune piante possono vivere anche mille anni prima di seccare. Il tempo di vita viene misurato con strumenti, con un sistema artificiale che noi facciamo regolandoci su quello che sono i cicli e quindi con il calendario più o meno cristiano di Gregorio Magno. Se questa domanda, invece, nasconde qualcosa qualcosa di non esplicito, come se ci fosse un tempo diverso fra vegetali, animali e uomo, allora non è questo di cui stiamo parlando, perché in questi casi che abbamo citato il tempo viene misurato sempre nella stessa maniera. Se ci sia una diffrenza fra animali e vegetali, questo esattamente non lo so, perché fra la cellula vegetale e quella animale mettersi a pensare quali possano essere le differenze è difficile, però possiamo fare un discorso sulla biologia umana e su quella animale. Se facciamo un discorso del genere dobbiamo in effetti scoprire un altro tempo, oltre ed al di là di quello razionale, matematico che calcola, misura secondo parametri per cui un anno è fatto di dodici mesi, seguendo certi criteri di misurazione di matematica razionale. Il termine comune per indicare questo altro tipo di tempo è tempo interno. E qui ci può essere utile un discorso: che l’uomo si distingue dagli animali perché sa di dover morire è la balla più grande che possa esistere. Come realtà di tempo interno non è vero affatto. La coscienza, la ragione non ha nessuna sensazione del tempo, deve misurarlo per capire se una cosa dura un’ora o dieci ore. Il tempo interno è direttamente legato all’immagine interna. Finché l’uomo non scopre l’immagine interiore non può pensare il tempo inetrno. Quindi, se l’uomo sa di dover morire, lo sa per questioni statistiche. Siccome vede che tutti , all’incirca, dopo novant’anni muoiono dice: allora morirò anch’io. Ma non perché abbia più o meno capito una cosa di questo genere.

E volendo andare più a fondo che differenza c’è fra tempo inconscio e tempo della coscienza?

Appunto, questo di cui abbiamo detto è tempo razionale nel senso che io lo calcolo con l’orologio: il tempo che mi ci vuole per scendere le scale, andare in strada, fare un chilometro, ritornare eccetera. Mentre quest’altro tipo di tempo che è inconscio- chiamiamolo tempo interno o tempo inconscio- non dà la sensazione perché si lega al discorso del movimento psichico. La ragione non ha movimento. La ragione sposta, registra con i sensi un oggetto che va da un punto all’altro ma è una registrazione, direi, quasi meccanica. più o meno fotografica. per realizzare il movimento bisogna realizzare l’immagine interna e non la figura esterna. Allora si legano movimento, tempo interno e immagine interiore. Ci vogliono tutte e tre queste cose per cui poi uscire da casa non è soltanto calcolare quanto tempo ci vuole per andare da qui a lì. E’ fare qualche cosa, è un movimento dell’organismo.

La sua teoria della nascita come supera il modo di pensare il tempo che hanno avuto alcuni filoni della cultura occidentale come la psicoanalisi, il marxismo el’esitenzialismo?

Direi che che li acchiappa tutti e tre, perché tutto sta nella grande sfida, nel grande coraggio direi, di concepire un inizio. il difetto di esistenzialismo, cristianesimo e anche del marxismo è di non concepire un inizio. Se lo si concepisce allora si trova anche la fine. Tra l’inizio e la fine c’è il discorso del tempo. Il tempo che è un movimento che non può essere sentito, realizzato e pensato finché non si ha il coraggio di realizzare un’immagine. Quindi la nascita è un inizio di realtà psichica. Sappiamo che la cultura, anche quella marxista, e in modo particolare il cristianesimo, esclude in maniera assoluta che ci sia un inizio. Tutto deve essere sempre, in eterno, sempre stato e sempre sarà. All’inizio appunto il cristianesimo concepisce uno spostamento, diciamo pure, dalle nuvolette all’organismo biologico ma non concepisce affatto una realtà psichica e quindi di immagine interiore. E quindi non concepisce un inizio del tempo.

La letteratura psicoanalitica e in particolare Freud ha parlato di una atemporalità dell’inconscio. In che modo deve essere rivista questa concezione?

Deve essere rivista in tutto.  Perché la banalità, la stupidità di Freud è totale. Nel senso che Freud dice che la realtà psichica comincia con il pensiero verbale e dire questo significa affermare che prima di un anno e mezzo due anni di vita non esista realtà psichica. Non esisterebbe mente, non esisterebbe pensiero. Significherebbe dire che il bambino per un anno e mezzo è peggiore di un animale. Non capisco.  Perché forse l’animale un abbozzo- non so se posso chiamarlo pensiero- ma di sensazione o di elaborazione delle percezioni ce l’ha. Freud dice che il bambino non ce l’ha, quindi è completamente fuori da ogni possibilità di discussione perché afferma delle cose che sono assurde anche a rapporto immediato, a buon senso comune.

Anche il marxismo in qualche modo ha parlato di una tensione verso qualcosa di nuovo, di futuro, ha parlato di trasformazione sociale ma ugualmente ha fallito il tema della trasformazione umana, perché?

Esatto. Della storia del fallimento di Marx ne parlo da trent’anni. Marx tentò in ambito filosofico di occuparsi di realtà umana. E dichiara chiaramente nella famosa lettera al padre del 10 novembre 1837 che ha fallito, che non ce l’ha fatta. Andava a finire nella logica hegeliana dello spirito assoluto e quindi abbandonò tutto per occuparsi di rapporti materiali e di realtà e comportamento materiale e con ciò si è fermato a un’idea di “male”. Ecco forse è riuscito- ma non so se realmente l’abbia fatto – a togliersi un po’ dal pensiero  religioso per cui il male è il sadismo e l’aggressivitò violenta di procurare sofferenza fisica agli altri. Non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di pensare a un’altra violenza e aggressività che è la negazione e che non è mai stata pensata da Freud. Invece il problema era proprio quello che per occuparsi di realtà psichica bisogna scoprire una violenza, una distruzione che andava ben oltre il discorso del sadismo fisico, della distruzione delle cose materiali, occorreva un rapporto psichico di conoscenza e di sapere.

Dalla rivista Il Grandevetro agosto-settembre 1999

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Dagli scienziati, una lezione ai politici

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 16, 2009

Scienziati , medici e psichiatri il 19 settembre all’Università Roma Tre presentano in un confronto pubblico le nuove acquisizioni
e scoperte. Utili a chi voglia fare buone leggi

di Simona Maggiorelli

il sogno della farfalla

il sogno della farfalla

Esistenza puramente biologica, vita delle piante e degli animali, vita umana. Realtà completamente diverse dal punto di vista scientifico. Ma in politica, sui media, perfino nei dibattiti culturali, la confusione è somma, a tutto vantaggio dei soliti cattolicissimi crociati per la vita. «Da ricercatori ci siamo accorti che anche fra le discipline che si occupano di questi ambiti c’è poca chiarezza e la ritroviamo poi nelle applicazioni – racconta la biologa Giulia Carpinelli che insieme al biologo Fabio Virgili e all’associazione Amore e psiche ha organizzato il convegno Dall’esistenza alla vita che si svolge il 19 settembre nell’aula magna di Lettere dell’università Roma Tre.

Fuori dai laboratori, invece, ciò che appare più evidente è la grande disinformazione che impera nei media italiani, per cui capita di leggere, su testate come Repubblica o Il Corriere articoli improbabili che discettano sull’attività onirica dei feti di pecora oppure di topi resi schizofrenici per sperimentare psicofarmaci. «La cosa che più colpisce – commenta Carpinelli – è che su questi argomenti ci possa metter bocca il profano e non lo scienziato. Nessuno oserebbe intromettersi in questioni di fisica. Invece su alcuni aspetti di biologia o medicina tutti sono pronti a dire la propria. Poi quando si parla di uomo diventa tutto ancora più complicato». Da dove origina questa situazione? «La scienza è sempre più frammentata – spiega la biologa – perché più specializzata, mancano collegamenti interdisciplinari. E capita che si parli molto dell’ultimo progetto annunciato come di grande importanza per l’uomo, anche se siamo ancora lontani dalla sua realizzazione. Mentre informazioni che possono dare un buon contributo alla comprensione di processi fisiologici e di patologie invece non ricevono adeguata attenzione». Così anche per cominciare a invertire questo processo scienziati e ricercatori di diverse discipline hanno deciso di uscire dai propri laboratori e si sono dati appuntamento all’università Roma Tre, il 19 settembre per un incontro pubblico in cui cominciare a riallacciare i fili di un dialogo interdisciplinare su ciò che caratterizza l’umano e rende la nostra specie assolutamente diversa dalle altre.

Un discorso di chiarezza scientifica che diventa quanto mai urgente in una temperie politico culturale come quella di oggi, intossicata dalle sempre più violente esternazioni del papa che lancia anatemi contro i farmacisti che vendono anticoncezionali pretendendo che il Parlamento italiano faccia leggi contro l’aborto, in difesa dell’embrione e via di questo passo. Anche per questo il convegno di Roma Tre, con il biofisico Pier Luigi Luisi ripercorrerà l’origine della vita sulla terra, a partire dalla materia inanimata (e non per creazione divina) e poi con l’antropologo molecolare Gianfranco Biondi, l’evoluzione dell’homo sapiens dagli ominidi. La neonatologa Gatti, il bioeticista Mori e lo psichiatra Masini, invece, affronteranno in termini specifici le caratteristiche che fanno l’unicità della specie umana. La novità del discorso proposto fa leva in particolare sulle nuove acquisizioni scientifiche riguardo alla trasformazione radicale che avviene alla nascita, quando – come scrive Maurizio Mori nel libro Il caso Eluana Englaro (Pendragon) «per ognuno di noi comincia il tempo biografico».

«I dati neurobiologici oggi ci permettono di distinguere nettamente lo stato fetale dallo stato neonatale e di chiarire i vari passaggi del cambiamento che scandisce la transizione dall’uno all’altro. La distinzione fra i due stati – spiega la neonatologa Maria Gabriella Gatti – non è mai stata storicamente delineata. Anzi tutt’oggi si cerca di annullarne il significato fondamentale per comprendere l’ontogenesi della vita umana». Sulle pagine di left-Avvenimenti  la neonatologa dell’università di Siena aveva spiegato in altre occasioni che riguardo allo stato fetale non si può parlare di vita umana ma soltanto di esistenza biologica, «perché nell’utero il feto ha solo un accrescimento di organi e di apparati, mentre la vita umana corrisponde all’inizio della vita psichica che avviene alla nascita. Detto in altre parole – aggiunge oggi la professoressa – il cambiamento biologico del feto sottostà alla trasformazione che avviene alla nascita che è legata alla comparsa della vita psichica». Allora ci aveva spiegato anche che il feto non può, per esempio, percepire della musica perché ha una struttura cerebrale immatura e fino alla nascita il suo sistema neurologico risulta deconnesso. Approfondendo quel discorso oggi aggiunge: «è deconnesso dal punto di vista dei neurotrasmettitori ma anche perché ci sono delle sostanze, dei neuromodulatori, che deprimono l’attività cerebrale. In estrema sintesi- conclude la Gatti – le ricerche mediche più nuove, specie quelle sullo sviluppo dei sistemi neurotrasmettitoriali, confermano che l’inizio dell’attività psichica è alla nascita e avvalorano l’idea che la stimolazione luminosa sia il fattore  importante nel modificare le proprietà funzionali, locali e sistemiche della realtà biologica del neonato. Ricerca neurobiologica e ricerca psichiatrica trovano qui un punto di convergenza».

E arriviamo così al nocciolo del discorso sull’umano che è specificamente psichiatrico. Il direttore della rivista di psicoterapia e psichiatria Il sogno della farfalla Andrea Masini nel convegno esplorerà con un metodo di indagine nuovo, il pensiero come caratteristica e funzione esclusivamente umana. «Il punto da cui sono partito è che il pensiero non cosciente è ciò che distingue la specie umana da quella animale, che non ce l’ha. Nella mia relazione cercherò di dire che cosa è il pensiero non cosciente e da che cosa possiamo dedurlo». In parole povere? «Fondamentalmente possiamo dedurlo dal bambino e dagli artisti – spiega lo psichiatra – Anche se ovviamente parliamo di due realtà diverse». Nella storia, anche quella più recente, la fantasia del bambino e la creatività dell’artista stentano a essere pienamente riconosciute. Illuministi e razionalisti vecchi e nuovi faticano a riconoscere la potenza del linguaggio non cosciente delle immagini. «Questo mi verrebbe da dire – commenta Masini – per colpa dei filosofi. Ma ancor più per colpa del pensiero religioso. C’è una antitesi inconciliabile fra questa realtà inconscia delle immagini di cui parliamo e il pensiero religioso. Perché la religione non può accettare che il pensiero abbia un’origine biologica e non abbia nulla di trascendente, di sovrannaturale. è stata la religione a negare la realtà di fantasia di immagini del bambino, dell’uomo, della donna e dell’artista». E questo si è tradotto in un deficit della cultura dominante. «Assolutamente sì, bisogna confrontarsi con il pensiero religioso, forti delle conoscenze scientifiche acquisite che ci dicono che la mente umana in nessun modo può essere materia di pertinenza religiosa. è realtà umana. E come tale va studiata, va capita». Farpassare questo messaggio nel dibattito pubblico implica che chi fa ricerca debba assumersi il compito anche di fare divulgazione, di parlare ai non addetti ai lavori, alla politica, come impegno civile. «Penso sia fondamentale in questo momento – sottolinea Masini -. Sia perché in politica ci sono in ballo questioni grosse che possono cambiare la vita delle persone, come la legge sul testamento biologico. Ma più in generale anche per un discorso culturale. L’incontro del 19 settembre è nato anche per incontrare  i politici. La mia speranza è che vengano e che siano disposti a dialogare perché credo che la scienza, in particolare questa ricerca scientifica, possa aggiungere qualcosa di molto nuovo al dibattito politico, dargli delle chiavi di lettura della realtà umana e per le decisioni che ne possono conseguire». Allora perché secondo lei la politica di sinistra, per definizione quella più progressista, si è dimostrata fin qui timorosa, esitante, nel far proprie le scoperte e le acquisizioni della ricerca scientifica? «Perché è tutta concentrata nell’andar d’accordo con il pensiero cattolico, che è sempre più feroce nelle sue espressioni», risponde Masini. La speranza è che prima o poi i politici di sinistra si sveglino rivendicando maggiore laicità delle istituzioni? «Questo è il grande scontro. La nostra ricerca può dare argomenti, sostenere culturalmente e scientificamente questa esigenza di laicità».

«Da parte degli studiosi e dei ricercatori oggi c’è bisogno di dare un’indicazione pubblica – aggiunge il presidente della Consulta di bioetica Maurizio Mori -. Le idee qualche volta hanno bisogno di legittimazione pubblica perché altrimenti non si radicano. Il nostro problema è assumere una dimensione pubblica. Oggi l’università è declinata come istituzione, la tv e la stampa fanno fatica, dovrebbero esserci dei partiti politici con questa funzione ma la situazione dei partiti di sinistra è ancora complicata. Nella società civile – conclude il bioeticista dell’università di Torino – c’è stata un’espansione delle esigenze di laicità su tutta una serie di tematiche. Non così dal punto di vista dei politici chiamati a fare le leggi. E questa è la condanna italiota».

da left-avvenimenti 18 settembre 2009

COSA CI RENDE ESSERI UMANI

Al Festival di Genova, neuroscienziati a confronto sulla domanda delle domande. In Italia,  psichiatria e neonatologia , su questo tema danno un contributo d’avanguardia di Federico Tulli

Guardando all’essere umano, alla sua nascita, al suo sviluppo e alla sua morte, è in pieno sviluppo un dibattito che affonda le sue radici nella filosofia greca e che oggi coinvolgendo le più disparate branche – alcune delle quali legate a filo doppio con la teoria evoluzionistica di Darwin – si sta facendo sempre più profondo e affascinante. Il confronto, s tutto raggio senza confini geografici, coinvolge neuroscienziati, antropologi, psichiatri, filosofi e storici della scienza e della medicina, e si pone l’obiettivo di dare una risposta coerente a quale sia lo specifico dell’uomo, vale a dire ciò che lo differenzia dalle altre specie.

Al centro dell’attenzione di tutti c’è il funzionamento del nostro cervello e, con esso, la nascita, lo sviluppo e la “morte” del pensiero, con la morte biologica dell’individuo. A questi temi, l’organizzatore di Genova Scienza, Vittorio Bo, ha deciso di dedicare tre importanti lectio magistralis tenute da alcuni tra i più noti neuroscienziati al mondo, Sebastian Seung, Stanislas Dehaene e Michael Gazzaniga. I loro interventi toccano temi affrontati da una ricerca molto vivace nel nostro Paese, che il settimanale left segue da sempre con attenzione.

Al fstival di Genova sabato 24 ottobre2009, nell’incontro dal titolo “La foresta del cervello: addomesticare la giungla della mente”, Seung, che è docente di Neuroscienza computazionale al Mit di Boston, racconta le ultime ricerche sulla natura “informatica” del cervello umano, che «come un computer – secondo Seung- appare in grado di variare automaticamente la propria configurazione durante lo sviluppo». Per osservare questa modificazione si ispira al principio secondo cui per capire il funzionamento di una macchina occorre farla a pezzi. Il cervello, però, ovviamente non può essere disassemblato. I neuroni si estendono in rami, avviluppati l’uno all’altro. Dividerli significherebbe distruggerli, così “curiosamente” i neuroscienziati si affannano a fare il cervello in “fettine” sottilissime, le fotografano e analizzano questi scatti  con software ricercati. Il risultato finale? Una mappa a tre dimensioni dei neuroni e delle sinapsi, così elaborata che in passato è stato possibile effettuarla soltanto per i cervelli dei più minuscoli invertebrati. Secondo l’esperto del Mit, ci staremmo comunque affacciando a un’epoca la cui rivoluzione tecnologica sarà tale da farci produrre mappe per cervelli sempre più grandi e, chissà, forse un giorno anche del nostro.

Sabato 31 ottobre, nella conferenza dal titolo “I neuroni della lettura”, il docente di Psicologia cognitiva sperimentale al Collège de France, Stanislas Dehaene, si occuperà del «funzionamento del nostro cervello nell’elaborazione concettuale ed emotiva attraverso la lettura».  Come fa un cervello da primate come il nostro a imparare a leggere? Che cos’è la dislessia? Ci sono metodi di insegnamento della lettura migliori di altri? Dehaene risponderà a queste domande nella lectio che prende il titolo dal suo ultimo libro in uscita per Raffaello Cortina Editore, mostrando come nel corso dell’evoluzione l’acquisizione della capacità di leggere sia stata lenta, parziale e non priva di difficoltà «come indicano i ripetuti scacchi cui vanno incontro i bambini». Anche  la lectio magistralisdi Gazzaniga del 25 ottobre prende il titolo dalla sua ultima fatica. Il neuroscienziato, tra i primi a teorizzare la separazione degli emisferi cerebrali, svilupperà i temi affrontati in Human. Quel che ci rende unici (Raffaello Cortina Editore). Con particolare attenzione alle dinamiche mentali umane, il direttore del Sage center for the study of the mind alla university of California, analizza ciò che rende unico il nostro cervello e lo differenzia da quello degli altri animali, quale importanza hanno nel definire la condizione umana il linguaggio e l’arte e quale sia la natura della coscienza umana.
Un punto che merita discutere è la tesi di Gazzaniga sull’abilità a imitare che sarebbe  propria dei neonati umani. Abilità che, secondo lo studioso, sarebbe «innata». Molti studi, spiega nel suo libro il direttore del Sage, hanno mostrato che i neonati da 42 a 72 minuti dopo la nascita sono in grado di imitare accuratamente le espressioni facciali. «Pensateci bene – sottolinea Gazzaniga -. Si può solo restare meravigliati di fronte a ciò che il cervello è in grado di fare a poco più di un’ora dalla nascita. Vede che c’è un volto con una lingua che fuoriesce, in qualche modo sa anche lui di avere un volto con una lingua sotto il suo controllo, decide che imiterà l’azione, trova la lingua nella lunga lista di parti del suo corpo a sua disposizione, fa una piccola prova, gli ordina di uscire fuori – ed ecco che esce fuori la lingua. Come fa a sapere che una lingua è una lingua e come fa a sapere come muoverla? Perché si preoccupa di fare una cosa del genere? Ovviamente non lo ha imparato a fare guardandosi allo specchio, né qualcuno glielo ha insegnato. L’abilità di imitare – ne deriva lo scienziato – dev’essere innata. L’imitazione è l’inizio dell’interazione sociale del neonato. I neonati imiteranno le azioni umane ma non quelle degli oggetti inanimati; capiscono che sono come le altre persone. Imitare gli altri è un potente meccanismo nell’apprendimento e nell’acquisizione della cultura. Di contro, l’imitazione “volontaria” del comportamento sembra rara nel regno animale».
Altro punto nodale della teoria di Gazzaniga è che questa imitazione è legata alla percezione visiva dell’“oggetto” e può anche non essere cosciente, nel senso che può avvenire in maniera inconsapevole. Inoltre, il cognitivista ricorda che all’università di Amsterdam sono stati condotti esperimenti che «hanno dimostrato che gli individui che sono stati mimati sono più pronti ad aiutare e più generosi, non solo verso coloro che li hanno mimati ma anche verso le altre persone presenti che non sono state mimate». Questa dinamica, scrive ancora Gazzaniga, «attraverso un rafforzamento del comportamento diretto al sociale, potrebbe avere un valore per l’adattamento, agendo come collante sociale che tiene insieme il gruppo e rafforza la sicurezza del numero. Tali conseguenze comportamentali offrono un suggestivo sostegno a una spiegazione evoluzionista della mimica».
Profondamente divergente da quella di Gazzaniga, in relazione alla capacità di rapporto interumano del neonato – e quindi a ciò che è specifico della nostra specie – è la teoria della nascita elaborata nel 1970 dallo psichiatra Massimo Fagioli con la pubblicazione di Istinto di morte e conoscenza.

Nel riferirsi alle ultime scoperte in campo neurobiologico, la neonatologa dell’università di Siena Maria Gabriella Gatti ha mostrato in diverse occasioni le evidenze che distinguono il feto dal neonato sottolineando l’importanza della trasformazione che avviene alla nascita dell’essere umano, confermando così la teoria di Fagioli. «Gli studi sullo sviluppo dei sistemi neurotrasmettitoriali – racconta a left la scienziata – confermano che nel feto tali sistemi sono finalizzati al trofismo e all’accrescimento del cervello mentre la connessione e l’attivazione delle varie aree cerebrali e quindi l’emergenza del pensiero avvengono con la nascita. Premesso ciò – prosegue la Gatti – quella del neonato non è mai imitazione ma è una ricreazione con fantasia del rapporto vissuto ed è legata alla sua realtà interna». Questa capacità di rielaborare non è razionale e cosciente come quella della specie animale. Che invece fa un apprendimento finalizzato alla sopravvivenza e alla prosecuzione della specie. «A partire dalla nascita e nel primo anno di vita – aggiunge la neonatologa – il neonato ha, sì, un rapporto con la madre legato alla sopravvivenza perché prole inerme, però questo rapporto non è cosciente ma inconscio, cioè fatto, soprattutto, di immagini e affetti».
Il bambino  non è una tavoletta di cera che si modella alla madre. «Quando il bambino si mette seduto non è perché vede gli altri sedersi. È vero, quel movimento del corpo fa parte di un timing di sviluppo innato, però tutto ciò che è “apprendimento”, tutto quello che è “cognitivo” è rielaborazione interna di un rapporto». E questo vale sia nel comportamento che nel linguaggio.
«Chiaramente – continua la dottoressa – parole come “pane” o “acqua” vengono appresi da un’altra persona, però l’uso che il bimbo ne fa ha un proprio connotato interno, una sua individualità. Può ripetere il suono ma non ripete il contenuto del suono». Questa impostazione teorica è fondamentale anche per comprendere come l’uomo può diventare artista e creativo. «Possiamo dire che l’artista è colui che riesce a rappresentare un’immagine che è inconscia, e quindi a ricreare la fantasia che si realizza alla nascita e si sviluppa nel primo anno di vita», conclude la neonatologa.

GenovaScienza, cinque strade verso il Futuro

Quali effetti eserciteranno le ultime scoperte e teorie scientifiche sulla nostra vita quotidiana? Riusciremo a riprendere contatto con un futuro che è sfida, sogno, libertà, fantasia e possibilità per il domani? Un futuro dove scienza, arte, letteratura e filosofia si lascino andare a contaminazioni che solo la collaborazione e l’impegno collettivo possono realizzare? A questi e molti altri interrogativi il gotha della ricerca internazionale è chiamato a rispondere nel corso della settima edizione del festival della Scienza, in programma da oggi al primo novembre prossimo a Genova. Con un programma di grande spessore culturale e scientifico allestito dal direttore della manifestazione Vittorio Bo, che ruota intorno al tema del “Futuro” e nel quale si intrecciano una lunga serie di eventi studiati per stimolare l’interesse del pubblico di qualsiasi età, livello di conoscenza, matrice sociale. Mostre, laboratori, exhibit fotografici, conferenze, tavole rotonde, workshop, spettacoli teatrali, performance musicali e proiezioni cinematografiche – suddivisi in cinque percorsi tematici: il Futuro della tecnologia; il Futuro della vita; il Futuro dell’universo; il Futuro della natura; il Futuro delle idee – costituiscono un corpus capace di superare la tradizionale contrapposizione tra cultura scientifica e umanistica, interpretando e raccontando la scienza con un approccio contemporaneo, grazie alla sperimentazione di format e linguaggi inediti (Info: http://www.festivalscienza.it). Grandi protagonisti sono senza dubbio Galileo e Darwin. Il primo “celebrato” sia dal nuovo libro di Enrico Bellone, Galilei e l’abisso (Codice edizioni), sia dal matematico Piergiorgio Odifreddi che commenterà Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene, attribuito al genio pisano, e letto per l’occasione dal premio Nobel Dario Fo. Il secondo, dal paleontologo Niles Eldredge nella sua lectio magistralis e in due conferenze spettacolo che vedranno protagonisti Elio di Elio e le Storie tese a fianco dello storico della scienza Emanuele Coco in un incontro dal titolo “Il Teatro dell’evoluzione”, e Luca Bizzarri e Patrizio Roversi che portano in scena “Darwin e Fitzroy, viaggiatori per caso”, testo ispirato al libro Questa creatura delle tenebre (Nutrimenti Editore) di H. Thompson per una lezione insolitamente divertente tra scienza e storia. Da segnalare poi Historie d’H, un’anticipazione del nuovo documentario sull’Hiv presentato in anteprima mondiale a Genova e accompagnato da una conferenza a cui partecipa il più importante studioso del virus, il premio Nobel 2008 per la Medicina Luc Montagnier, fortemente critico nei confronti delle ultime scoperte in questo campo. Nell’anno internazionale dell’Astronomia YA2009 non può infine mancare il contributo di National geographic channel a questo evento. Con un’anteprima del documentario in alta definizione “Mondi alieni”, uno straordinario viaggio nello spazio più profondo alla scoperta dei pianeti che si trovano fuori dal nostro sistema solare, e una rassegna di documentari su scienza e tecnologia. Un modo originale per capire i diversi aspetti della realtà in cui viviamo, i cambiamenti in atto e il futuro che si prospetta all’umanità. left 42/2009

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Enrico Pieranunzi, eclettismo sulla pelle

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 15, 2009

di Simona Maggiorelli

Klimt, Il bacio 1907

Klimt, Il bacio 1907

Tra originali “incursioni” nella musica classica, progetti di ricerca e di scrittura e un suo trio stabile, praticamente in ogni capitale del jazz, Enrico Pieranunzi ha trovato anche modo di tornare sulle strade del Nord Europa, per registrare Oslo un disco nato dalla collaborazione con il bassista norvegese Terje Gewelt. Un cd registrato nell’agosto 2008 negli studi dell’etichetta norvegese Resonant music che lo produce e che, con l’aggiunta della batteria di Anders Kjellberg, rinnova l’esperienza del primo incontro fra il maestro romano e l’allora trentenne Gewelt. «Tutto è cominciato nel 1990 quando andai per la prima volta in Norvegia- ricorda Pieranunzi -. Dopo alcuni passaggi in radio andai a suonare in un club per conoscere un po’ i musicisti locali. Gewelt racconta ancora di essere rimasto «scioccato» dal mio modo di suonare, così diverso dal loro. Quando ci siamo rivisti di recente è nato questo cd che è anche un curioso incontro fra Nord e Sud.
La sensazione, ascoltando il cd, è di una particolarissima sintonia fra voi.
Gewelt ha un bel suono ed è un basso da Trio con molta capacità di interagire con gli altri. Ma anche il  batterista è molto bravo.
I pezzi sono in parte suoi, in parte di Gewelt?
Lui ha scritto dei brani e ha chiesto anche a me di contribuire.  “Suspension Points” e “World of wonders” portano la mia firma.
Ma c’è anche una intensa suite, totalmente libera e improvvisata.
Amo l’improvvisazione integrale. E’ come creare in tre una breve pièce teatrale. Uno butta là una frase, un accordo, un motivo. Un altro lo riprende e lo sviluppa.  È liberatorio. Se suoni dei pezzi devi passare attraverso la mediazione dello spartito, che può essere frenante in situazioni così.  Nell’improvvisazione c’è un rapporto diretto fra il corpo e il sentire interno. Ti relazioni con la figurazione che l’altro lancia, la riprendi liberamente. Ti lasci andare all’altro,  con fantasia.
Dalla Norvegia ci aspetteremmo una musica un po’ cerebrale, molto fredda. Jazzisti come Jan Garbarek, invece, ce ne hanno fatto conoscere anche un lato  poetico.
Il jazz è una musica universale, ma all’interno ha molte differenze di colore e di calore. Vado spesso al festival di Copenhagen e i musicisti di là, ho notato, trovano me e altri musicisti italiani calorosissimi. Ma anche all’interno dei paesi scandinavi non tutto è  uguale. I norvegesi, per esempio, hanno una cifra più estatica. Hanno un rapporto speciale con la natura, con i boschi, con il mare, che è molto più duro del nostro. Il loro è una sorta di misticismo pagano.
Una cifra che si ritrova anche nella letteratura norvegese…
Sì, c’è una sensibilità forte, ma talora anche una certa deriva misticheggiante. Penso per esempio a un disco di Garbarek come Officium (Ecm). Anche se probabilmente fu il produttore Manfred Eicher a spingere in quella direzione. Lo ha fatto anche Keith Jarrett.
Come se il musicista dovesse avere un’ aura?
Come se, oltre che a un tono meditativo, il musicista in questi Paesi dovesse avere un ruolo da officiante. Una cosa che piace ai borghesi. Capita poi che qualche musicista ci creda davvero a questo ruolo. Allora per lui può essere anche un bel problema. Altri, invece, cercano di suonare attingendo al proprio sentire. Alla fine, però, per fortuna si suona. E quando si suona  si tace e l’unica cosa che conta è interagire con sensibilità.
L’importanza dell’«improvissar componendo» e del «comporre improvvisando» ci riporta al suo Pieranunzi plays Scarlatti (CAM jazz). Il 12 giugno lo ripropone in una cornice straordinaria: nella basilica dei Frari a Venezia, fra opere di Tiziano e di Bellini…
A Venezia porto nelle dita e nella mente quindici brani di Scarlatti, in scena poi decido su quali improvvisare.
Con questo progetto, che ha avuto grande successo, ha anche incontrato un pubblico nuovo?
Per fortuna ormai le divisioni nel pubblico sono molto sfumate, gli ascoltatori si sono fatti più recettivi verso generi diversi. Le stagioni classiche non includono più solo Brahms  o Beethoven, ma anche proposte più aperte al crossover. Che è sempre una bella sfida, anche se comporta qualche rischio. Quanto alle improvvisazioni su Scarlatti sono andate molto al di là delle mie aspettative. Forse perché per una parte del pubblico è stata una scoperta, essendo un autore purtroppo poco frequentato.
Il suo percorso nella classica continuerà?
Mi piace sperimentare filoni diversi, offrire sfaccettature nuove. Così con mio fratello Gabriele (primo violino del San Carlo di Napoli  e vincitore del premio Paganini ndr) e con un virtuoso di clarinetto come Alessandro Carbonari di S. Cecilia abbiamo formato un trio classico che suona musica dei maestri del ‘900, con alcuni elementi jazz e blues.
Dunque, ricapitolando, lei ha un trio classico e un trio jazz a Roma. Un trio in Francia e un altro, molto prestigioso negli Usa…
Eclettismo sulla pelle o se vogliamo assoluta poligamia. Mi piace cambiare, ogni musicista offre un colore, un tempo, un’intensità diversa. Ogni musicista si mette in rapporto diversamente con la mia musica.
Con un musicista come Paul Motian lei ha una lunga storia. Uscirà  un vostro nuovo lavoro?
L’anno prossimo uscirà un album che ho registrato lo scorso ottobre al Birdland.  Con Paul suoniamo insieme dal  1992 e volevo che nella registrazione dal vivo lui ci fosse, ha una forte identità  ma mi piace anche perché è un musicista scomodo: non fa mai quello che ti aspetti. Così, a tua volta,  sei costretto  a cercare il nuovo.
Il suo libro su Bill Evans ha avuto molte edizioni. Tornerà a sperimentare con la parola scritta?
A dire il vero ho un paio di progetti che mi piacerebbe sviluppare. Il primo riguarda ciò che accadde nel mondo dell’arte e della musica fra il 1890 e il 1910. Curiosamente sono accadute autentiche rivoluzioni in entrambi gli ambiti. Una piccola notazione: Debussy e Klimt sono nati e sono morti nello stesso anno. Una casualità. Ma è vero che fra loro ci sono molte assonanze. Sono due artisti che hanno cambiato il modo di fare musica e di dipingere.
Quella di Klimt in certo modo fu anche una rivoluzione antimoderna. Basta pensare che nel 1907 Picasso dipinge le Damoiselles e Klimt un quadro come il Bacio.
Indubbiamente la rivoluzione di Klimt fu meno drastica, meno rumorosa, di quella di Picasso, ma la sua ricerca segnò comunque un nuovo modo in pittura. Lo stesso si può dire di Debussy che non fu un’impressionista come si dice di solito. Semmai fu un simbolista. Ma soprattutto  cambiò la grammatica del comporre. Dopo di lui il discorso musicale non avrebbe più avuto quella certa prevedibilità razionale che aveva in Brahms. Debussy faceva una ricerca  in certo modo aperta all’irrazionale.
E il suo secondo progetto?
Mi piacerebbe saper raccontare in un libro le emozioni e il senso più profondo che hanno avuto per me certi incontri artistici, che poi non sono stati mai solo rapporti fra colleghi, ma anche umani in senso pieno.Solo per fare un esempio ricordo ancora fortemente quello con Chet Baker, la sua fantasia potente, spiazzante. Fin da giovanissimo avuto la fortuna di suonare accanto a dei giganti, – io  nato a Roma, che apparentemente nulla avevo a che vedere con il mondo afroamericano -, così vorrei poter restituire qualcosa di quelle esperienze, che mi hanno offerto spunti nuovi.
Incontri che qualche volta le hanno cambiato la vita?
Be’ sì, basta dire che io non sono nato compositore. Ero un musicista, la possibilità di comporre l’ho scoperta molto più avanti, dopo aver fatto incontri, scoperte.  Un’altra svolta c’è  stata  durante la lavorazione del film Il cielo della luna, nel rapporto creativo  con il regista mi sono aperto a un tipo di ricerca e a possibilità per me del tutto nuove.

da left Avvenimenti del 12 giugno 2009

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Nuovo attacco della Chiesa all’identità medica

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 31, 2008

L’Osservatore romano attacca la due giorni di studi che l’ospedale Meyer ha organizzato con la Consulta di Bioetica chiamando a convegno, il 30 e il 31 ottobre, i massimi esperti di neonatologia, ma anche ginecologi, anestesisti e esperti di bioetica (da Flamigni a Mori, a Pignotti). Dalle colonne del quotidiano del Vaticano, Carlo Bellieni accusa il Meyer di aprire all’eutanasia solo per il fatto di aver invitato il medico olandese Eduard Verhagen a parlare dei protocolli seguiti nel suo Paese. Ma soprattutto l’autore dell’articolo (stranamente rilanciato da un quotidiano che si dice di “opposizione” come La Repubblica) traccia un quadro della neonatologia italiana che non convince, accusando i medici di lasciar morire i prematuri e, soprattutto, di prendere decisioni in base alle proprie ansie e non secondo scienza e coscienza. «Dietro un apparente razionale criterio di sospensione delle cure nel miglior interesse del paziente – scrive Bellieni – ci possono essere le paure e le ansie del medico stesso». Ecco la risposta della Maria Gabriella Gatti, neonatologa dell’Azienda ospedaliera universitaria senese. s.m.

Caro Osservatore Romano, in corsia non si opera mai in base alle proprie ansie e paure di Maria Gabriella Gatti

L’organizzazione sanitaria italiana è tale che se una gestante è in procinto di avere un parto pretermine, da un punto nascita periferico, viene trasportata in un centro specializzato di terzo livello dotato di terapia intensiva neonatale, dove il neonatologo è sempre presente quando nasce un prematuro. Se accade tutto rapidamente e nasce in un centro non attrezzato una ambulanza adibita al trasporto neonatale protetto con neonatologo a bordo va a prelevarlo per condurlo in una terapia intensiva neonatale. Dalla 22-23esima settimana di gestazione per l’immaturità e la scarsa autonomia del neonato sono necessarie una rianimazione e cure intensive immediate.

Sarà la vitalità del bambino a decidere per la sua sopravvivenza. A 22 settimane ci sono scarse possibilità di sopravvivere (8 per cento) generalmente di poche ore; a 23 settimane è tra il 12- 25 per cento , a 24 settimane tra il 40-60 per cento. L’incidenza di danni cerebrali gravi è elevata a 23 settimane: essi tendono a diminuire progressivamente con la crescita dell’età gestazionale. Ogni bambino ha la sua storia e i genitori devono essere informati prima della sua nascita sulle possibilità teoriche di sopravvivere e successivamente su quelle derivate da valutazioni concrete d’ordine clinico. I genitori non possono chiedere al medico di non rianimare un prematuro che ha possibilità di vita anche se incerte, non possono pretendere che vengano sospese le cure: è comunque un dovere del medico non mettere in atto un accanimento terapeutico quando il danno cerebrale documentato è grave. I centri di rianimazione neonatale sono ad alta specializzazione e si confrontano per la qualità delle tecniche e delle cure con i protocolli nazionali e internazionali: sicuramente negli anni questa dialettica ha prodotto un più veloce e progressivo miglioramento dell’intervento e dell’assistenza medica. Un medico e soprattutto un rianimatore può far intervenire le «proprie ansie e paure» quando deve intervenire sul pericolo di vita di un paziente? L’identità medica si caratterizza anche per la possibilità di mantenere un preciso assetto psicologico che garantisca il miglior rapporto con la realtà in relazione alle esigenze di una tempestiva azione terapeutica. La rianimazione neonatale richiede grande capacità di prendere decisioni in tempi brevissimi, resistenza allo stress fisico e mentale di fronte alle sollecitazioni estreme di situazioni di emergenza che possono protrarsi molto a lungo nel tempo. Il neonatologo deve mantenere la sua indipendenza di giudizio basata su specifiche competenze anche di fronte a pressioni esterne emozionalmente inadeguate e potenzialmente fuorvianti.

Left 44/2008

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Imperfetti e creativi

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 17, 2008

La prospettiva evoluzionistica e le neuroscienze, di cui molto si discute, non offrono modelli adeguati a comprendere la nascita della mente umana e il suo sviluppo. L’opinione della neonatologa Maria Gabriella Gatti
di Simona Maggiorelli



“Il nulla che unisce Dio e Darwin”. Con questo titolo Emanuele Severino sul Corsera ha affrontato alcuni temi scientifici che toccano il dibattito politico. «Per Aristotele l’embrione è “in potenza” un uomo – scrive -. Lo diventa realizzando il proprio programma (il proprio Dna). Ma prima di questa realizzazione l’uomo” non era”, era nulla». Da scienziata cosa risponde al filosofo?
Il feto è realtà materiale biologica: solo dalla 24esima settimana di gestazione se nasce ha possibilità di vita, quindi di essere. Il Nobel per la medicina Gerald Edelmann ha scritto che alla nascita vi è un rimodellamento radicale con perdita fino al 70 per cento dei neuroni preesistenti e differenziazione di nuovi: è chiaro che esiste un prima e un dopo.

Che cosa accade in questo passaggio?
Con le scoperte di Levi Montalcini e Edelmann possiamo delineare un quadro unitario dell’embriogenesi. All’inizio le popolazioni cellulari cerebrali reagiscono a fattori che promuovono le proliferazioni e le organizzazioni delle varie parti del sistema nervoso. È come se in esse fosse attivo un “automaton”, un prodursi da sé a partire da una forza biologica endogena. Le strutture nervose nello sviluppo fetale tendono a differenziarsi acquisendo unitarietà e una potenzialità sinergica fino a consentire la reazione a uno stimolo esterno nel venire alla luce.
La situazione intrauterina garantisce una forte protezione e la permanenza della corteccia cerebrale in uno stato di deconnessione funzionale. Dopo il passaggio nel canale del parto la luce è uno stimolo nuovo per il neonato: attraverso i nervi ottici l’impulso che la luce determina raggiunge la corteccia occipitale attivando tutto il cervello e i centri respiratori. Alla nascita, di fronte all’eccessiva stimolazione dell’ambiente inanimato, il bambino ha una reazione di difesa e ciò coincide con l’emergere di un’attività psichica orientata alla ricerca del rapporto con un altro essere umano. Siamo di fronte a una fantasia, a una capacità di immaginare che non ha i caratteri della coscienza e della razionalità.

Jacques Monod, in un vecchio libro, parlava di caso e necessità nello sviluppo umano. Stando alle nuove acquisizioni delle neuroscienze saremmo interamente determinati dai nostri geni?
Per Monod il caso interveniva a livello del Dna con mutazioni non prevedibili e poi esse diventavano eventualmente “necessità” cioè potevano essere trasmesse se vantaggiose. Con l’embriogenesi evoluzionistica il discorso diventa molto più complesso: si è compreso che il gene viene modulato e influenzato dall’ambiente: lo stesso gene può avere un’attività completamente diversa a seconda del contesto che ne condiziona l’espressività. L’embriologia ha chiarito che le singole cellule sono protagoniste degli eventi che portano a una certa morfologia. Il destino delle cellule è determinato da eventi epigenetici ambientali che dipendono dalla storia dello sviluppo dell’embrione, unica per ogni singola cellula. Il processo evolutivo, la selezione delle linee cellulari più adatte avviene senza un’esplicita informazione. L’evoluzione opera per selezione, come scrive Edelmann, non per istruzione. Non c’è teleologia né un programma rigidamente determinato che guidi il processo globale.

Il feto alla nascita conosce una trasformazione radicale, diventa bambino. Gli strumenti della filosofia non permettono di comprendere questo passaggio?

Discorso molto complesso, qui posso offrire qualche spunto. Alla nascita avviene una trasformazione, è l’emergenza dell’essere, cioè del pensiero umano a partire dalla realtà biologica. E il pensiero nell’uomo è intrinsecamente movimento che tende a stabilire con l’“altro”, e soprattutto con l’altro diverso da sé, un rapporto irrazionale.

Ma ancora Severino nelle sue opere scrive che il «divenir altro dell’essere» sarebbe sempre «alienazione» e «follia». Mentre essere in se stessi sarebbe «non follia».
Cosa potrebbe suggerire allora Severino? Che la follia può scaturire dalla relazione fra un uomo e una donna in quanto in questo tipo di rapporto si può determinare una “alienazione”, una perdita dell’immagine? Però, come esiste il rischio della follia, nella dialettica fra uomo e donna esiste anche la possibilità di un movimento creativo che va verso la realizzazione di un’identità e sanità mentale.

Edoardo Boncinelli, a BergamoScienza e altrove, ha parlato dell’importanza della dimensione collettiva per lo sviluppo umano. La società, dice il genetista, cambia gli individui a livello biologico e mentale. Ma per lui il bambino avrebbe tutto da imparare dagli adulti, quasi fosse una tavoletta di cera. Che cosa c’è di vero?
Boncinelli, in effetti, ha scritto che alla nascita nessuno di noi «è figlio del suo tempo e forse non è neppure un uomo. A 3 anni è certamente un essere umano, a 5 -6 è figlio del suo tempo ma con molto da imparare». Sembra dire insomma, e con poche varianti da Aristotele, che la ragione costituisce l’identità umana. Per lui la dimensione collettiva è sinonimo di organizzazione cosciente della società. Ma non si può parlare di collettivo se non si parla prima di individuo e di quella realtà interiore che originariamente dà all’uomo l’identità umana e lo orienta verso il rapporto con gli altri. La nostra socialità affonda le radici nel mondo irrazionale del primo anno di vita. Il collettivo sicuramente è fondamentale perché è l’ambito in cui ciascuno di noi ha la possibilità di cimentare e sviluppare la propria identità.
Penso comunque che Boncinelli parli di “collettivo” a partire da un costrutto biologico. È risaputo che la formazione delle mappe cerebrali è fortemente influenzata dall’ambiente. Edelmann ha evidenziato che nell’adulto, anche quando si sono costituiti gli elementi principali della neuroanatomia, i confini delle mappe corticali possono cambiare radicalmente a seconda degli stimoli ambientali. Questa capacità in parte plastica in parte rigenerativa si ferma solo con la morte. È riduttivo pensare che le influenze sociali sull’individuo siano relative all’apprendimento passivo della cultura del proprio tempo. Rita Levi Montalcini nel suo Elogio all’imperfezione scrive che gli insetti sono perfetti: in quanto tali non necessitano di mutazioni rimanendo invariati da milioni di anni . Gli esseri umani sono “imperfetti” e perciò soggetti a cambiamenti. è probabile che la nostra “imperfezione” abbia portato all’emergenza di quelle caratteristiche esclusivamente umane: la fantasia e la creatività che si nutrono sostanzialmente di rapporti.

In quanto esseri umani, diversamente dagli animali, siamo in larga parte irrazionali. A dirlo è sempre Boncinelli. Ma poi il genetista aggiunge che ciò che resta da indagare è la coscienza. Un paradosso?
Boncinelli si rifà alle tesi del neuroscienziato Michel Gazzaniga quando dice che il 98 per cento dell’attività cerebrale è inconscia. La coscienza arriverebbe sempre in ritardo (50 millesimi di secondo) a ratificare percezioni, decisioni e movimenti. Nelle neuroscienze per inconscio s’intende perlopiù il complesso degli automatismi neuronali non una specifica forma e contenuto di pensiero che, invece, dovremmo chiamare irrazionale. Abbiamo visto che Boncinelli non considera un essere umano il neonato che vive in una dimensione irrazionale. Anche in Edelmann, del resto, il termine inconscio o rimanda a Freud o viene usato in senso solo descrittivo.
Nelle neuroscienze i concetti di inconscio e di coscienza non sono univocamente definiti rimanendo sottoposti a grandi fluttuazioni di significato a seconda degli autori.

È il caso anche del filosofo Daniel Dennett, ospite molto atteso il 16 ottobre del festival BergamoScienze.
L’autore del best seller Sweet dreams ( Raffaello Cortina) giunge addirittura a negare che esista una coscienza come un insieme di qualità soggettivamente vissute. La mente umana sarebbe il risultato dell’attività meccanica di una sorta di super computer totalmente inconsapevole, come potrebbe essere uno “zombie”.

Nel frattempo, lo scienziato inglese Steve Jones, sostiene che per gli esseri umani non ci sarà più evoluzione. Che ne pensa?
Se l’evoluzione è andata avanti per milioni di anni non si capisce perché e in virtù di che cosa si dovrebbe arrestare a un certo momento. L’evoluzione umana è anche culturale e non segue totalmente le leggi della selezione naturale pur inquadrandosi in un contesto biologico. Lo stesso Edelmann afferma che la struttura del cervello di due gemelli omozigoti già in utero è completamente diversa e ancor di più lo sarà dopo la nascita. Questa diversità “epigenetica” potrebbe influenzare le mutazioni e quindi l’evoluzione futura. Edelmann come altri neuroscienziati ha rivolto la sua ricerca allo studio della coscienza in quanto epifenomeno dell’evoluzione: alla coscienza mirerebbe sia la variabilità sia dell’ontogenesi che della filogenesi, ovvero dello sviluppo dell’embrione e della storia della specie nel tempo. Non hanno colto qual era la specificità umana che rende possibile il progresso evolutivo, hanno collegato la variabilità delle mappe cerebrali al di fuori della regolazione genomica diretta a possibilità adattive e coscienti e non alle possibilità del pensiero irrazionale proprio degli esseri umani.

Left 42/08

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Il freudismo e la sinistra. Considerazioni intorno a una vicenda editoriale

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 1, 2006

di Simona Maggiorelli

Alla scadenza degli anniversari, della nascita, della morte, secondo multipli o sottomultipli scelti a piacere, ricompare puntuale il fantasma di Freud, con la messa in scena sui principali quotidiani italiani del teatrino del genio, del padre della modernità, del precursore della terapia delle psicosi, come si legge su La Repubblica del 13 giugno 20061. A seconda degli umori di alcuni giornalisti,delle congiunture culturali, o più semplicemente degli interessi dei più anziani cultori della psicoanalisi che devono riaccreditare, in qualche modo, il loro più che vacillante prestigio. Tutto ciò nonostante che la psicoanalisi freudiana, già a partire dalla seconda metà del Novecento, si sia rivelata una clamorosa truffa2, come è emerso con chiarezza da una fitta messe di studi storici, epistemologici, biografici3. Negando ogni possibilità di cura non solo, come è noto, delle psicosi. Truffa che non si capisce come possa essere sopravvissuta se non pensando alla complicità, accanto a un ristretto gruppo di psicoanalisti, di un numero ben più rilevante di “intellettuali” certo molto disattenti e sicuramente mal informati. La vulgata psicoanalitica ha avuto la meglio sull’approfondimento, sul riscontro teorico, sull’esatta conoscenza della terminologia e del linguaggio freudiano in lingua originale4. Alcune colleghe, Luciana Sica, Stefania Rossini – insieme a pochi altri – di tanto in tanto ritualmente hanno riproposto il feticcio Freud sulle pagine dei giornali di Repubblica e dell’Espresso 5. Esaltando di volta in volta una serie di epigoni del “maestro” viennese mediocri e in cattiva fede. Umberto Galimberti, esperto, sostenitore convinto, e divulgatore della psicoanalisi ha, in più occasioni, detto tutto e il contrario di tutto. Ma ha dovuto ammettere l’assenza di ogni forma di pensiero in Freud, salvo poi subito ritrattare6. Con colpo di coda finale, il 25 febbraio scorso si è scagliato contro l’ultima opera di traduzione degli scritti freudiani firmata da Michele Ranchetti per Bollati Boringhieri e culminata con il ritiro dalle librerie dei primi due volumi7. Un’uscita di scena, quella di Freud dal mercato editoriale italiano, fatta senza clamore, con la massima discrezione, come la casa editrice stessa suggeriva ai suoi rappresentanti in una nota a circolazione interna. Motivazione ufficiale: correggere alcuni evidenti refusi della traduzione di Michele Ranchetti, con la promessa poi di rimettere presto in circolazione gli appena ritradotti Scritti di Metapsicologia, ovvero il secondo volume dei dieci tomi previsti per la collana “Sigmund Freud. Testi e contesti”, che avrebbe dovuto concludersi nei prossimi tre anni, prima comunque del 2009, anno in cui le opere di Freud saranno fuori diritto. Ma la verità è palesemente un’altra: il ritiro di Freud dalle librerie, come ha ricostruito il settimanale Left Avvenimenti, è avvenuta in fretta e furia, fra le pressioni della Spi, la società italiana di psicoanalisi e sotto la pioggia di accuse di plagio di Renata Colorni, coordinatrice della traduzione dell’Opera omnia freudiana negli anni Settanta8. Traduzione, a suo tempo, curata da Cesare Musatti e da Elvio Facchinelli, coautori di una disinvolta operazione di maquillage “idealistico”, di mascheramento dell’imbarazzante positivismo psicologico freudiano che portava a considerare la psiche alla stregua di un fatto materiale. La vicenda, nella apparente disattenzione generale, è stata messa a fuoco nel suo significato essenziale, e certo non casualmente, da prima solo sul settimanale Left, sulle cui pagine lo psichiatra Massimo Fagioli ha, una volta di più, affossato, anche attraverso una puntuale critica della terminologia freudiana, ogni tentativo di far apparire vivo il cadavere della psicoanalisi9. Dimostrando precisamente che la psicoanalisi non è mai esistita in quanto pensiero e ricerca sugli aspetti non coscienti della realtà umana10. E da giornalista rubo allo psichiatra e azzardo un pensiero: o il bambino freudiano è nato morto, incapace di reagire agli stimoli ambientali e umani, come farebbe pensare la credenza in un narcisismo primario o, invece, come mi verrebbe più spontaneo dire, non è nato affatto. E questo perché Freud ha negato che la nascita abbia un qualsivoglia significato psicologico. Lo si legge, per quanto consente la traduzione italiana, in Inibizione, sintomo e angoscia del 1926, là dove Freud scrive che il venire al mondo comporta un perturbamento dell’equilibrio narcisistico del feto senza alcun significato psicologico: ci sarebbe molta maggiore continuità fra il prima e il dopo la nascita di quanto si potrebbe essere indotti a pensare sulla base di una comune osservazione. L’«economia narcisisistica», caratterizzerebbe infatti allo stesso modo sia il feto sia il neonato. Scrive Freud: «Nell’atto della nascita viene corso un pericolo obiettivo per la conservazione della vita (…) ma psicologicamente non ci dice proprio nulla. Il feto non può percepire nient’altro che un grandissimo disturbo della sua economia narcisistica»11. Il feto come il neonato sarebbe chiuso in se stesso, non avrebbe nessuna capacità di relazione con l’esterno. Per Freud, il neonato non sarebbe altro che un feto fuori dall’utero perché alla nascita non avverrebbe nessuna cesura, nessun sostanziale cambiamento. Quindi per il medico viennese sarebbe stato completamente sbagliato il tentativo di Otto Rank nel saggio Il trauma della nascita di cercare una relazione fra alcuni casi di fobia nel bambino e le impressioni in lui prodotte dall’evento della nascita. A Otto Rank, secondo Sigmund Freud «si possono muovere due tipi di obiezione: anzitutto che egli si basa sul presupposto che il bambino abbia ricevuto alla sua nascita determinate impressioni sensoriali, specialmente di natura visiva, il cui rinnovarsi può richiamare il ricordo del trauma della nascita e con esso la reazione di angoscia. Quando questo assunto manca completamente di prove ed è altamente inverosimile (…). In secondo luogo Rank, nella valutazione di queste successive situazioni di angoscia fa, a seconda di come meglio gli convenga, intervenire ora il ricordo della felice esistenza intrauterina, ora quello della perturbazione traumatica che essa ha subito cosicché vengono aperte le porte a qualsivoglia arbitrio interpretativo»12. L’esistenza umana, il venire alla luce, come si deduce anche da questa citazione, per il fondatore della psicoanalisi (ma anche ovviamente per Rank, che poi, peraltro, fu pronto a ravvedersi e a rientrare nei ranghi dell’ortodossia garantita dal maestro) non avrebbe mai potuto essere reazione vitale e trasformazione nell’atto di percepire la luce, non insorgenza della fantasia di sparizione in risposta alla stimolazione della rètina e capacità di immaginare. Fantasia di sparizione e capacità di immaginare che caratterizzano fin dal principio il pensiero umano, come ha scoperto Massimo Fagioli. Freud insomma, reinfetando il neonato, nega la sua vitalità e cerca di imporre così a tutti un ideale regressivo. Come se in ogni essere umano ci fosse una segreta pulsione a annullare ogni stimolo per tornare nel buio, alla non esistenza dentro l’utero materno. Forse anche Freud, anziano e malato, nella sua identificazione con il figlio di Laio, avrebbe potuto sottoscrivere i versi di Sofocle che nel terzo stasimo dell’Edipo a Colono ripeteva il detto del vecchio Sileno, «La migliore sorte è non essere mai nati»? La vita umana, nella psicoanalisi, come nella vicenda personale di Freud, sembra dominata dall’idea, se non dalla paura, della morte fisica. Il leit motiv antropologico del parricidio originario, già presente in Totem e Tabù, si trasforma negli anni Venti nell’istinto di uccidere, in una malvagità che sarebbe connaturata in noi, figli di Caino, e che ci costringerebbe a una continua ripetizione nella storia di gesti sempre uguali. L’eterno ritorno dell’identico di Nietzchiana memoria fa da sotterranea trama all’ideologia freudiana che vede nel superuomo, approdato al di là del bene e del male, il modello dell’analisi riuscita. Uno zoccolo duro ideologico costruito anche sulla concezione fascista delle masse mutuata da Le Bon, in base alla quale Freud nei suoi scritti approda a una condanna esplicita del comunismo. Ma, fatto strano, storicamente è accaduto che proprio la sinistra, come ha suggerito Carlo Augusto Viano in un’ intervista13, abbia obbedito all’imperativo di “chiudere gli occhi”. Non si è compreso, o non si è stati capaci di vedere, che il tentativo di correggere Marx con Freud, come hanno voluto certe correnti del Sessantotto sedotte dall’ambiguità di pensatori come Fromm e Marcuse, ha ingenerato maggiore confusione e ha contribuito a produrre, in chi è più vulnerabile, malattia mentale. È storia recente come molti abbiano pagato con la pazzia, la droga o il suicidio quello che altri facevano passare come idee rivoluzionarie e prassi liberatorie. Ma ora, tornando all’incipit, al compito che mi era stato assegnato, di ricostruire come si è arrivati all’intervista a Michele Ranchetti del 2 giugno14 che racconta, indirettamente (dopo un acceso passaggio su Radiotre, in occasione della Fiera del Libro di Torino), della morte di Freud, mi torna in mente un numero del “Sogno della farfalla”, in cui alcuni anni fa si diceva «Freud è morto»15. Questa volta, in occasione delle rituali celebrazioni per i centocinquant’anni dalla nascita di Freud, si è notato, rispetto al passato, un cambiamento sostanziale. Un fatto carico di significati per la cultura italiana e che il silenzio della maggior parte della stampa ha cercato di occultare16. Il ritiro dalle librerie dell’ultima traduzione di Ranchetti e il blocco dell’operazione editoriale della Bollati Boringhieri suggeriscono un’immagine di Freud che assomiglia più al vecchio Edipo cieco nei pressi del bosco sacro delle Eumenidi che non al giovane eroe dal fascino ambiguo impersonato da Montgomery Clift nel classico film girato negli anni Cinquanta da John Houston. Edipo a Colono nella tragedia di Sofocle sparisce inspiegabilmente nel nulla e di lui non rimane alcuna traccia: è accaduto lo stesso per le copie della traduzione freudiana di Ranchetti? Proprio Paolo Boringhieri, l’artefice dell’Opera omnia italiana negli anni Settanta, recentemente scomparso, sosteneva che nel panorama culturale attuale non c’è nessun dibattito intorno a Freud17. Di Freud non si parla: è assente o è sparito nel nulla, ammesso che sia mai stato presente. Se sporadicamente compare sulla stampa viene fuori una caricatura. È accaduto, per riannodare ancora i fili di questa vicenda, con un articolo di Repubblica18 che attraverso la testimonianza di una delle sue ultime pazienti, suggeriva l’immagine del Freud guaritore che opera attraverso la suggestione dello sguardo e del silenzio. Insomma, il tentativo maldestro, e ormai fuori tempo massimo, è stato quello di negare e nascondere un’assenza che gli articoli di Left grazie al riferimento alla teoria e alla prassi terapeutica di Massimo Fagioli, hanno puntualmente messo in evidenza. Con un’avvertenza: l’assenza freudiana potrebbe far trasparire l’assenza di pensiero di tutta un’area culturale di sinistra che richiama nostalgicamente il razionalismo illuminista. Quest’area teme il crollo di una concezione antropologica, come quella di Eugenio Scalfari19, che solo apparentemente è laica, perché ripropone l’idea di una malvagità originaria dell’essere umano.La teoria della nascita, che fin dal suo esordio negli anni Settanta è stata capace di un serrato e continuo confronto con la cultura dominante, mette in crisi l’egemonia che tutto un gruppo di intellettuali “illuminati” si è illuso di esercitare attraverso il controllo di testate giornalistiche prestigiose e apparentemente progressiste. Questo gruppo, malgrado la pochezza e l’inconsistenza di Freud, lo usa come una mela avvelenata per addormentare quella sinistra che potenzialmente sarebbe disponibile a una trasformazione della mentalità e dell’agire politico; sarebbe disponibile ad una ricerca sulla realtà umana fatta di pulsioni, affetti, immagini, movimenti prima della parola e di quella strutturazione della coscienza in cui l’uomo “razionale” può rimanere intrappolato per sempre come in una prigione.

1 L. Sica, Le nostre pazzie segrete, in “La Repubblica”, 13.6.2006.

2 Cfr. C. Anzilotti, Marcella Fagioli, La frode terapeutica, in “Il sogno della farfalla”, 3, 1993, pp. 5-22.

3 Mi limito a citare alcuni volumi significativi, dallo storico J. M. Masson, Assalto alla verità, Mondadori, Milano 1984, al caso Ernst Blum, ora pubblicato e commentato in M. Pohlen, Freuds Analyse. Die SitzungsprotocolleErnst Blums (1922), Rowohlt, Hamburg 2006, (grazie a una segnalazione della psichiatra Annelore Homberg), passando per AA.VV., Le Livre noir de la psychanalise. Vivre, penser et aller mieux sans Freud, a cura di C. Meyer,Editions des Arènes, Paris 2005, di prossima traduzione in Italia, senza dimenticare l’interessante ricostruzione di J. Benestau, Mensonges freudiens. Histoire d’une désinformation séculaire, Pierre Mardaga, Paris 2003 (ringrazio Annelore Homberg e Rossana Cecchi per le loro segnalazioni). A proposito del Libro nero della psicoanalisi scive Alessandro Pagnini sul supplemento domenicale de “Il Sole 24 ore” del 18.9.2005: «(…) letterati, scienziati. storici, filosofi di rinomanza internazionale (…) si affannano a raccontarci, non senza un pizzico di inutile malizia scandalistica, quello che persino in Italia sappiamo già che con la fine del “secolo della psicoanalisi” è finita anche la sua credibilità scientifica».

4 Giovanni Jervis per esempio dice: «Purtroppo non sempre gli psicoanalisti sono degli studiosi (…) spesso non sanno il tedesco, non hanno attenzione culturale a capire come gli scritti di Freud facciano parte di un dibattito di cento anni fa, spesso li hanno presi come fossero il Vangelo». C. Iannaco, S. Maggiorelli, Jervis: quel filosofo di Sigmund, in “Left”, 2.6.2006.

5 Ricordo, per inciso, che il settimanale “L’Espresso”, per celebrare centocinquant’anni dalla nascita di Freud, con un’operazione che sa di restaurazione ha allegato al settimanale due volumi di sue Opere scelte nella originaria traduzione di Musatti.

6 Un esempio concreto e argomentato dell’andamento contraddittorio del pensiero di Galimberti si può leggere in C. Anzilotti, F. Riggio, Freud e la legittimazione culturale della pedofilia, in “Il sogno della farfalla”, 2, 1998, pp. 41-42.

7 U. Galimberti, Il padre della psicoanalisi tradito dal suo editore, in “La Repubblica”, 25.2. 2006. Galimberti sostiene che i testi allestiti da Renata Colorni «non avevano nessun bisogno di essere sostituiti» e che la nuova traduzione di Ranchetti presenta «errori e diverse sciatterie anche macroscopiche» così gravi da consigliarne «il ritiro immediato».

8 C. Iannaco, S. Maggiorelli, Freud il santo, in “Left”, 2.6.2006.

9 Cfr., oltre ai libri di Massimo Fagioli, alcuni suoi recenti articoli che toccano direttamente questo tema: Freud, un imbecille, in “Left”, 5.5.2006; Il grosso rumore, in “Left”, 12.5.2006; Un mondo migliore è da riscrivere, in Left”, 9.6.2006; Das erste Wünschen, in “Left”, 16.6.2006; Movimento e trasformazione, in “Left”, 23.6.2006.

10 Afferma ad esempio Fagioli: «[Quello di] Freud è un pensiero religioso che sta nella credenza o ideologia dell’inconscio filogeneticamente ereditato, sta nel fatto che c’è il male e non la malattia, c’è il fatto che Freud parla del diavolo a proposito di inconscio (…). Freud è un religioso, un religioso cattolico, proprio nel senso che (…) per lui tutta l’origine del male sta nella sessualità». AA.VV., Crisi del freudismo, a cura di P. Fiori Nastro, A. Homberg, F. Masini, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000, pp. 64, 68.

11 S. Freud (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, pp. 283-284.

12 Ibidem.

13 C. Patrignani, Matrimonio di convenienza. Freud in aiuto a Marx, in “Left”, 26.6.2006.

14 C. Iannaco, S. Maggiorelli, Freud il santo cit.

15 C. Anzilotti, L. A. Armando, G. Del Missier, F. Panzera, A. Seta, Freud è morto nel 1971: modalità, implicazioni ed antecedenti di un’estromissione dalla Spi e dall’Ipa avvenuta nel 1976, in “Il sogno della farfalla”, 1, 1995, pp. 71-80.

16 La notizia del ritiro di Freud dal mercato editoriale italiano viene ripresa da P. Di Stefano, Freud I contro Freud II. Battaglia in tribunale, in “Corriere della Sera”, 19.6.2006.

17 Sull’inserto “Tuttolibri” de “La Stampa”, il 6.5.2006, Boringhieri dichiara: «L’interesse per Freud non dura, ha fasi alterne. E dopo le stagioni della Klein e di Lacan, mi pare che abbia di nuovo perso terreno. Non c’è dibattito sul freudismo in Italia, neppure tanto all’estero».

18 Il racconto di Margarethe Walter, in “La Repubblica”, 27.4.2006.

19 Cfr. E. Scalfari, Quando il Papa vuole fare le leggi, in “La Repubblica”, 23.10. 2005.

Rivista Il Sogno della farfalla numero 4, 2006

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Cogne, la follia della porta accanto

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 20, 2002

L’opinione dello psichiatra Massimo Fagioli sul delitto di Cogne.

«Come per Erika, parliamo di menti che hanno un rapporto ordinato e lucido con la società. Ma alle quali manca totalmente il rapporto con l’umano. Per cui un bambino diventa un vestito usato del quale ci si sbarazza»

di Simona Maggiorelli

massimo ( gatta sullo sfondo)

Massimo Fagioli

Cogne, un’apparente normalità, una villetta in montagna, una famiglia tranquilla e poi, d’improvviso un omicidio così efferato come quello del piccolo Samuele. Un anno fa il caso di Erika di cui di recente si è tornati a discutere in tv e in un denso convegno organizzato dall’Università di Chieti a cui hanno preso parte psichiatri, criminologi, avvocati e seguito da migliaia di persone, fra pubblico e studenti. A parlare di psichiatria e diritto nella città abruzzese c’era anche lo psichiatra e docente universitario Massimo Fagioli, autore di libri fondamentali per la ricerca psichiatrica, fondatore della scuola romana di psichiatria e psicoterapia. A lui, dopo aver saputo che la madre di Samuele è stata incriminata, Avvenimenti ha chiesto lumi di approfondimento su sanità e malattia mentale, cosa potrebbe nascondere questa tranquillità borghese della famiglia Lorenzi.

Professor Fagioli che cosa emerge in termini psichiatrici da questo caso di Cogne, se le accuse alla madre di Samuele saranno provate?

«Viene fuori quello che abbiamo sostenuto tante altre volte. In particolare nel 1995 quando a Firenze una madre improvvisamente salì le scale e buttò il figlio dalla finestra. Anche lì si parlò di “raptus”. Nel settembre scorso, per citare un altro caso, c’è stato quello che d’improvviso ha sparato alla famiglia, ha ucciso la moglie. Anche lì si diceva una persona normale, forse un uomo un po’ chiuso, ma una bravissima persona.

E poi ancora c’è il caso di Erika e quello del ragazzo di Sesto San Giovanni che ha preso un coltellino e, d’improvviso, ha tagliato la gola alla ragazza. Allora evidentemente c’è qualcosa di grosso da indagare. Bisogna mettere in discussione questa normalità. Di questo ci siamo occupati in otto ore di convegno a Chieti, andando a ripescare anche storie più vecchie, facendo dei nessi con casi come quello di Pierre Riviére, un ragazzo che più di centocinquant’anni fa uccise il padre».

Tutti casi in cui gli assassini non avevano dato fin lì nessun segno di malattia a livello di comportamento…

«E’ questo il punto. Non si tratta di persone, che so, che hanno dato pubblicamente in escandescenza, per cui a un certo momento si chiama il 118 e si fa un trattamento sanitario obbligatorio, quello che oggi si chiama un SPDC. Bisogna cercare più a fondo. Qui si parla di persone che hanno un rapporto ordinato con l’organizzazione sociale e con le cose. Hanno un rapporto lucido, preciso con la realtà materiale, ma quello che manca totalmente è il rapporto con l’umano. Per cui al limite un bambino è come un vestito vecchio che mi ha stufato e di cui mi sbarazzo. Per questo arrivano a questi livelli di efferatezza. In questi casi parliamo di schizoidia, di persone fredde, lucide, razionali, che non percepiscono il significato emotivo di un gesto come uccidere un bambino».

Sono casi di schizofrenia in cui il malato è in grado di occultare il suo nucleo di grave malattia, al limite di essere anche camaleontico come, supponiamo solamente, potrebbe essere avvenuto per la madre di Cogne che nelle interviste, nelle dichiarazioni, sembra  ritagliarsi un ruolo di vittima.

«Su questo sono interessanti le dichiarazioni dei vicini: “Non è più lei”, “è alterata, non è più come prima”. E’ quello che si sente dire quando la malattia esplode, si manifesta in maniera conclamata».

Ma perché a Cogne, come a Novi Ligure, per lungo tempo il paese ha teso a negare. In entrambi i casi è come se un’intera comunità si fosse come accecata di fronte alla violenza a un caso di psicosi?

«E’ il discorso che facevamo prima, non riescono a accettare che dietro a una società ordinata e perfetta come può essere quella di Aosta, in cui tutto è a posto, l’autobus è puntuale, ci sia una tale sterilità, questa totale anaffettività nel rapporto interumano».

C’è un nesso fra questo tipo di patologia e un contesto religioso? Il nonno si Samuale dice che il bambino ucciso è diventato un angelo del cielo solo per fare un esempio.

«Nove volte su dieci in questi casi c’è dietro un delirio, per cui il bambino sarebbe il diavolo o cose del genere».

Mi ha colpito anche un’affermazione del suocero di Annamaria che dice: “Non è stata lei, qualcuno ha scritto che a Cogne è ricomparso il diavolo e credo che davvero ci sia accaduto qualcosa di sinistro”.

«Sono discorsi che fanno tornare al medioevo, di negazione della malattia mentale. La malattia mentale non esisterebbe e in questo modo neanche la cura e la possibilità di guarire».

Per ora nel caso della madre di Samuele si tratta solo di carcerazione preventiva. Ma lo abbiamo visto con chiarezza nel caso di Erika come giudice e psichiatra possano rischiare di confondere i propri ruoli. Come può uno psichiatra chiamato a fare una perizia non tramutarsi in giudice?

«In linea teorica potrebbe rifiutarsi, ma il punto è un altro. E’ che il compito di un giudice è quello di giudicare e punire, quello di uno psichiatra di fare una diagnosi e di curare. Non ci deve essere confusione fra queste due diverse e distinte identità».

Una formulazione come “capace d’intendere e di volere” usata per l’imputazione è valida in questi casi?

«E’ una formulazione che dice poco. Il volere, può essere un volere razionale di mangiare o di bere, ma ritorniamo qui. In casi come quello di Erika, per esempio, da un punto di vista psichiatrico non bisogna analizzare solo il comportamento, il pensiero razionale di rapporto con le cose. Quello funziona benissimo. Erika è stato detto è sempre stata una persona puntuale, con un rispetto formale assoluto delle regole sociali».

Se diceva di tornare alle 19,30 a quell’ora era puntualmente già in casa, ha raccontato il padre di Erika.

«Già, il rapporto con le cose funzionava perfettamente. La ricerca deve essere fatta a livello più profondo, è a livello inconscio di rapporto con l’umano che le cose non andavano».

Erika adesso è in carcere, e si dice che non abbia adeguate cure psichiatriche. E più in là, proprio al convegno di Chieti, il criminologo Francesco Bruno ha detto che nelle carceri italiane ci sono almeno 5 mila psicotici…

«Il confine fra delinquenza e malattia mentale spesso è una zona di transizione, non è sempre facile distinguere. Esistono omicidi di mafia, omicidi di guerra e questi sono una cosa, possono essere legati a specifici contesti. Altra cosa sono questi omicidi freddi, con livelli di efferatezza come questo di Cogne. Ma pur facendo tutti i dovuti distinguo, quando una persona arriva ad uccidere un altro essere umano, io penso, il cervello completamente a posto non ce l’ha».

Avvenimenti, 20 marzo 2002

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