Architettura come ars e saper fare
Posted by Simona Maggiorelli su marzo 29, 2015
L’insofferenza verso l’estetica esibizionistica del Postmoderno, malata di gigantismo e che usa la storia come un serbatoio di citazioni da ricombinare a caso, ha fatto incontrare idealmente un maestro dell’architettura contemporanea e della riflessione critica come Vittorio Gregotti con un giovane architetto, ingegnere e agit-prop come Carlo Ratti, teorico del modello smart city o, per meglio dire, della città “sensibile”, informatizzata, futuribile, capace di interagire con le esigenze della cittadinanza anche attraverso le potenzialità della rete. Così almeno ci è sembrato di scorgere, leggendo i loro due ultimi lavori in parallelo.
Curiosamente il decano del modernismo, che ha scritto importanti libri contro il nuovismo forzato delle post metropoli (Contro la fine dell’architettura, Einaudi, 2008 e Architettura e postmetropoli, idem 2011, solo per fare due esempi), nel suo nuovo libro Il possibile necessario ,da poco uscito per Bompiani, mostra alcuni temi e argomentazioni assonanti con quelle proposte da Carlo Ratti in Architettura Oper source, Verso una progettazione aperta (Einaudi).
Il filo rosso che sembra legare sotterraneamente i due volumi è, in primis, la denuncia dello spaesamento che provoca la visione di città sempre più omologate e senza volto, contrassegnate dagli inconfondibili segni delle solite archistar, che fanno somigliare Pechino a Dubai e Hong Kong a Londra. «Archistar giramondo hanno acquisito quello che sembra un controllo totale, un’onniscenza incondizionata e un’autorità suprema, eppure la loro opera non ammonta a quasi nulla. Si sono volontariamente relegati in uno strato claustrofobicamente sottile della produzione totale» stigmatizza Ratti.
Sulla stessa lunghezza d’onda Vittorio Gregotti prende di mira un’architettura esibizionistica che produce invivibili e giganteschi ready made. «Degradando a kitsch ogni ricerca di senso e di verità e rendendo forse impossibile qualsiasi riflessione profonda di impegno politico». Ma non è tanto questa comune pars destruens dei due distinti e differenti lavori a colpire la nostra attenzione, quanto la parte propositiva che si traduce in un appassionato canto a favore di quell’architettura che non ha perso di vista l’umano e che sa valorizzare e rinnovare la tradizione.
Addirittura fino ad arrivare a rivalutare l’antica esperienza artigiana intesa come ars, ovvero come saper fare e non di rado senza alcuna “griffe”. « Gran parte dell’edilizia corrente o minore è stata per secoli prodotta, in quanto manufatto, da processi spontanei di autocostruzione o di produzione artigiana, secondo regole di lunga tradizione, guidate sia nella tipologia che nel principio insediativo, dall’accettazione costitutiva del disegno della città», scrive Gregotti. «La bellezza della città e della maggior parte del suo territorio sta nei fabbricati anonimi», gli “fa eco” Ratti.
«Una metropoli è la somma di edifici con e senza nome, tutti contribuiscono all’atmosfera e alla struttura della città, ma per somma ingiustizia, l’artisticità della città vernacolare passa inosservata», scrive il docente del Mit, arrivando ad evocare l’immagine invisibile, latente, variegata eppura armonica, che lasciano intuire certe città medievali. (Simona Maggiorelli)
dal settimanale Left
Rispondi