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La nuda verità secondo Goya

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 18, 2010

In Palazzo Reale a Milano fino al 27 giugno una grande mostra dedicata al maestro spagnolo

di Simona Maggiorelli

Goya, autoritratto, 1815

Liberare Goya dai vecchi e logori schemi interpretativi che ne fanno un maestro ermeticamente chiuso in suo mondo silenzioso, abitato da cupe visioni notturne. Cercando di restituire la trama complessa delle tensioni e delle inquietudini che percorrono la sua pittura e che la rendono ancora oggi viva, capace di toccare profondamente lo spettatore. Nasce con questa intenzione critica alta la mostra Goya e il mondo moderno che si apre il 17 marzo in Palazzo Reale a Milano (fino al 27 giugno, catalogo Skira). Un’iniziativa nutrita di prestiti importanti dal Prado e dal museo di Saragozza (in tutto si contano una cinquantina di opere del maestro spagnolo fra le quali L’autoritratto del 1815 e numerose stampe dai Disastri della guerra).

Di fatto una mostra “kolossal” che in cinque sezioni a tema si propone di ripercorrere le principali invenzioni artistiche di Goya, quelle  destinate a una lunga durata nella fantasia e nelle rielaborazioni di pittori e scultori dei secoli successivi. A cominciare dal modo di dipingere il nudo di donna. Basta ricordare qui che la Maya desnuda di Goya sedusse perfino Picasso a tentarne una ricreazione in forme nuove. Ma, restando ai quadri esposti a Milano, una lunga e fertile influenza sull’arte del XX secolo ebbero anche i corrosivi ritratti di nobili e re che Goya dipinse in pose convenzionali e in abiti sfarzosi, lasciando però affiorare sui volti e nelle espressioni la loro assoluta vacuità interiore.

Goya, La lattaia di Bordeaux (1826)

Tele, come quella in cui campeggia uno spettrale Carlo II, formalmente rispettose dei canoni tradizionali della ritrattistica settecentesca ma, a uno sguardo attento, crudelmente rivelatrici per l’immagine latente che portano in primo piano. Così opere come il Ritratto del duca de San Carlos o come il Ritratto di don Juan Martin Goicoechea di Goya in Palazzo Reale sono esposte accanto a dipinti coevi dell’illuminista David in un confronto schiacciante: da un lato penetranti ritratti che fanno aprire gli occhi sulla natura parassitaria della corte borbonica e sull’inconsistenza umana dei suoi rappresentanti che chiedono a Goya di essere “eternati” con l’arte. Dall’altra ritratti monumentali, idealizzati, retorici, con cui il rivoluzionario David celebra il tiranno Napoleone. E sarà proprio questo speciale talento di “scavo psicologico” a fare di Goya un pittore amatissimo da quegli artisti che fra fine Ottocento e primi del Novecento rivoluzioneranno la ritrattistica affrancandola definitivamente dalla piattezza fotografica. Ma non solo.

La mostra Goya e il mondo moderno suggerisce anche nessi più arditi, ipotizzando che certi sferzanti ritratti di Grosz abbiano tratto linfa proprio da quella fedeltà alla verità più profonda delle cose che Goya anteponeva a tutto, da quella sua capacità di «guardare ciò che tutti hanno davanti agli occhi e fingono di non vedere» per dirla con le parole di Claudio Strinati. Un coraggio di vedere e di rappresentare ciò che si è visto o intuito che in Goya come in Grosz diventa gesto politico di denuncia. Anche se il pittore espressionista tedesco scelse la strada di una secca semplificazione caricaturale. Proprio quella scorciatoia che Goya aveva sempre rifiutato anche quando si era dedicato all’incisione e alla stampa di scenette grottesche di gusto popolare. E ancora alla dura verità dei quadri di Goya, secondo i curatori della mostra Valeriano Bozal e Concepción Lomba, si sarebbe rivolto poi anche Francis Bacon nell’ideazione dei suoi scomposti e angosciati ritratti. Un accostamento che può far storcere il naso a qualcuno ma che, di fatto, mostrando dal vivo ritratti di Goya e di Bacon fianco a fianco fa immediatamente risaltare quel carattere di profonda umanità e di fiducia nei propri simili che, al fondo, Goya non perse mai, anche nei momenti più cupi della restaurazione imposta da Ferdinando VII, della guerra, del ripristino dell’inquisizione. Anche quando immagina i Disastri della guerra, la sua visione non è mai nihilista. Perfino quando, ormai sordo, concepì le pitture nere, i suoi mostri e incubi notturni restano un monito contro una violenza e una distruttività che Goya non avvertiva come un destino ineluttabile per gli uomini. Nella sua pittura ritroviamo un interesse verso l’umano che, per esempio, il visionario Bacon non ebbe mai, attratto com’era dalla raffigurazione di corpi in disfacimento, e che non rimandano ad altro oltre se stessi, se non a un’astratta idea di un’angoscia esistenziale che secondo il pittore irlandese sarebbe universale. Qui come nelle aree della mostra milanese dedicate all’irrazionale, al sogno, o in quelle dedicate alla “violenza”, al grido”, per differenza con opere di simbolisti e romantici (Klinger, Daumier, Rops, Hugo), di espressionisti (Kirchner, Kubin, Dix, Grosz), fino all’informale De Kooning, appare declinata una rilettura di Goya in chiave “progressista” e che trova il suo climax in un quadro che il pittore spagnolo dipinse quando aveva più di 80 anni e con uno stile completamente nuovo. Talmente originale da far ipotizzare ad alcuni studiosi che non fosse suo ma opera di sua figlia, Rosario (che però nel 1826 aveva 12 anni). Certo è che l’improvviso schiarirsi della tavolozza, l’aria trasparente e mattutina, il movimento del corpo e quell’espressione vagamente velata di tristezza della donna rappresentano un cambiamento totale rispetto alla Quinta del sordo di poco precedente. Goya nel frattempo si era trasferito in Francia. «Sordo, vecchio, malato e senza sapere una parola di francese» ma, raccontava il suo amico Maratin, ancora «contento e ansioso di conoscere il mondo».

IL LIBRO. IN CERCA DEL TESCHIO DI GOYA

«Dovendo qui fare la storia di un teschio, storia già definita orripilante, mi sembra giusto e coerente presentarvelo fin dall’inizio, quando era ricoperto di pelle e conteneva uno dei più ricchi cervelli di cui mai abbia potuto godere un uomo». Comincia così L’orripilante storia del teschio di Goya , l’omaggio spassoso e coltissimo che lo storico Juan Antonio Gaya Nuño ha dedicato al geniale pittore spagnolo, partendo da un fatto di cronaca dal sapore necrofilo: ovvero la scomparsa del teschio di Goya dalla sua tomba nella chiesa di San Antonio della Florida a Madrid.  Un teschio rubato, forse smarrito, forse sottratto per antiche superstizioni (impossessarsi del teschio di un defunto significava assorbirne lo “spirito vitale”) alla resa dei fatti poco importa. Il fatto curioso  nel libro di Gaya Nuño (che dal 25 marzo Skira manda in libreria ) diventa un eccellente espediente narrativo per un affresco storico di cui Goya è protagonista. Mettendo così a segno una insolita e divertente biografia d’artista,  che ora esce corredata da un ricco apparato di  acquerelli e incisioni.

da left-avvenimenti, 12 marzo

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La caduta dei giganti

Posted by Simona Maggiorelli su marzo 22, 2009

Dall’antica Grecia ai regimi totalitari del Novecento. Le metamorfosi di queste possenti figure del mito nell’analisi di un grande critico d’arte come Jean Clair

di Simona Maggiorelli

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Max Ernst, L'angelo del focolare, 1937

Il suo ultimo libro, La crisi dei musei (Skira), è diventato un caso internazionale, denunciando gli effetti della globalizzazione sulla cultura e, in particolare, sul mondo dell’arte, con la costruzione di spazi espositivi decontestualizzati dal territorio e con la riduzione di musei come il Louvre a un mero marchio da esportare. Ma se sul versante del pamphlet lo storico dell’arte ed ex direttore del museo Picasso di Parigi Jean Clair sfoggia una penna brillante e incisiva, non meno interessanti, anche se più complessi, sono i risultati di alcune sue ricerche più colte. Ospite del direttore Salvatore Settis, alla Normale di Pisa, Clair ha offerto un’anticipazione del suo nuovo lavoro: con il titolo “Da Satana a Stalin, la figura del gigante dall’illuminismo ai nostri giorni” una ricca disamina dell’iconografia e dell’iconologia del gigante nell’arte occidentale lungo i secoli. Di fatto dall’antica Grecia fino agli anni Trenta e Quaranta del ’900 quando l’immagine del gigante trova una massiccia riproposizione, in varianti sempre più inquietanti, per rappresentare la potenza cieca e distruttiva dei regimi totalitari. Il quadro Hitler agli inferi (1944) che Georg Grosz dipinse poco prima di essere ostracizzato come artista degenerato ne è un chiaro esempio. Ma prima di arrivare a questi drammatici esiti novecenteschi, Jean Clair ci invita a ripercorre la storia, di fatto, millenaria di rappresentazione del gigante come figura dell’irrazionale. A cominciare da quella lotta di Zeus con i giganti dove queste possenti creature sembrano assumere un significato ambivalente, da un lato di forza creativa, dall’altro di potenza distruttiva. «I giganti – ricorda Clair – sono nati dalla terra, è questo che indica l’etimologia del loro nome greco, Gegeneis, generati da Gea, Gaia. Sono entità primordiali, potenti, che delle loro origini conservano talvolta dei tratti animaleschi primitivi, un solo occhio, braccia multiple, arti inferiori a forma di serpente. Tra di loro ci sono i Titani, i Ciclopi e i Cento Braccia. Ciò che li riunisce è un comune odio verso gli dei, che affrontano in Gigantomachie. Zeus  imprigionerà i Titani nel Tartaro, nel profondo degli Inferi. Mentre gli dei dell’Olimpo, simili all’uomo – spiega Clair – incarnano più spesso la misura e la ragione, i Giganti incarnano la dismisura e la violenza, e sono una rappresentazione del deinos e della hybris. Sono figure originarie, terribili, della potenza primigenia, sempre pronta a risorgere». Nel segno di quella razionalità scissa che sarà tipica della riflessione filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, il dio Zeus appare come il padre razionale che domina un irrazionale la cui forza viene rappresentata come enorme altezza, ma al tempo stesso stigmatizzata come animale.

Jean Clair

Jean Clair

Sarà poi con il Rinascimento che la figura del gigante verrà a coincidere tout court con quella del folle. Durante il XV secolo, per esempio, la figura del folle dei popolari tarocchi è un gigante con il cappello a punta e le orecchie d’asino. Una figura poi resa celebre da La nave dei folli di Sebastian Brant, ci ricorda lo studioso francese. Così mentre il Rinascimento sceglie la strada di una razionalità assoluta, la figura del gigante in pittura perde ogni aspetto di benevolenza per diventare «potenza di un demone cannibale». Una figura malvagia e diabolica, che attraverso l’immagine ancora ambivalente dell’orco delle favole di Perrault (riedizione dell’Urvater, il capo dell’orda, secondo Clair) arriva fino all’Ottocento, per giungere poi al moderno Batman e al joker hollywoodiano.

Il Saturno di Goya

Il Saturno di Goya

Goya ha rappresentato  in modo magistrale questa figura di Urvater che ingrassa i figli per poi meglio divorarli. Basta pensare al suo potente Colosso  o al Saturno antropofago dipinto nel 1821. «Orco e mostro, solitario e accidioso, come lo era il suo prototipo medievale, Satana, questa figura – spiega Clair – conoscerà nel XX secolo una sorprendente fortuna. Carica di ambiguità essa pretende di incarnare, come i giganti swiftiani dell’illuminismo, potenza e ragione, ma in realtà incarna la follia omicida; pretende di segnare il superamento dell’uomo da parte dell’uomo ma ne annuncia l’annientamento. E i più piccoli tra gli uomini – sottolinea lo studioso francese – ovvero dittatori, leader, duce, führer prenderanno volentieri l’apparenza di giganti». Sfila così una inquietante galleria di mostri, fantasticherie di umanoidi e di creature primitive che si ergono sul deserto, come nell’Angelo del focolare che Marx Ernst dipinse nel 1937, tre anni dopo l’ascesa al potere di Hitler. Mentre nei ritratti di pittori come Grosz, Kubin, Klinger, Schlichter, Sironi si riconoscono i volti di Mussolini, Hitler e Stalin.

Hobbes, Il Leviatano (1651)

Hobbes, Leviathan (1651)

Nelle opere pittoriche e nei primi fotomontaggi novecenteschi colpisce il ritorno quasi ossessivo di una medesima rappresentazione: la figura gigantesca del leader, come in un celebre frontespizio del Leviatano (1651) di Hobbes, è composta dai tanti piccoli uomini della massa. «Secondo il filosofo – chiosa Clair – nello stato di natura gli uomini sono naturalmente aggressivi e questo giustifica la necessità dello Stato assoluto. Il bellum omnium contra omnes descritto da Hobbes – aggiunge –  non è molto lontano dalla “orda primitiva” che descriverà Freud in Totem e tabù». Lo stato totalitario del Leviatano, in cui tutti debbono obbedire per non finire sbranati è una figura del libro di Giobbe. E questa stessa antropologia religiosa improntata al controllo e alla sottomissione, mutatis mutandis, la si ritrova in Freud, ma anche nel nazismo. Hitler, come l’autore de La psicologia delle masse e L’analisi dell’io (1921), era un attento lettore di Le Bon, il quale considerava la folla come un elemento irrazionale e violento dominato dalle leggi dell’imitazione. Una concezione che trova addentellati nella scuola positivistica italiana che faceva capo a Lombroso. (Gli studi sulla folla prodotti dai suoi “allievi” Ferri e Paoli offrirono materia diretta alla propaganda di Mussolini).

Bosch La nave dei folli 1490

Bosch La nave dei folli 1490

«Una caratteristica del totalitarismo moderno è proprio la diluizione dell’individuo nella massa organica dello Stato –  nota Jean Clair -. Come un mostro marino sorto dalle profondità del mare il Leviatano rappresenta un organismo primitivo, simile a un polipo e a forme di vita fatte di aggregati indifferenziati». Questa immagine sarà regolarmente ripresa nell’immaginario dei regimi totalitari. Le rappresentazioni pittoriche della Volksgemeinschaft nazionalsocialista mostrano l’unità del corpo dei Genossen tedeschi,  in gigantografia. Mentre i manifesti propagandistici per il referendum popolare del ’34, che secondo Mussolini doveva sancire un nuovo rapporto tra il capo e il corpo del popolo, ci ricorda Clair, «mostrano un duce gigante il cui corpo è fatto dalla moltiplicazione delle teste dei suoi sudditi». Da parte sua, Freud paragonò la massa a una lacrima di batavia, un cristallo a forma di goccia che se colpito nella parte più stretta va in miriadi di frantumi. Come a dire che se la massa perde il leader, si disgrega. Secondo il padre della psicoanalisi, insomma,  la massa non avrebbe intelligenza propria e possibilità di un pensiero rivolto al nuovo. Un’immagine e un pensiero che, alla luce della ricerca di Clair, rivelano aspetti ancor più inquietanti.

da left-avvenimenti del 21 marzo 2009

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