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Un anno da prendere con filosofia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 29, 2008

Libri inchiesta e pamphlet vanno forte in libreria. Ecco le proposte del 2009 di Simona Maggiorelli


In attesa di nuovi Saviano capaci di sedurre i pigri lettori italiani appassionandoli a libri denuncia, le casa editrici italiane più attente e impegnate per i primi mesi dell’anno nuovo continuano a battere il campo di ottimi libri inchiesta. Chiarelettere, in particolare, prosegue nel suo puntuale lavoro di pubblicazione di ficcanti pagine di storia recente e dei nostri giorni con libri come quello di Grimaldi e Scalettari (atteso per febbraio) che ricostruisce gli eventi del 1994, «l’anno che ha cambiato l’Italia. Tra piani eversivi e mafia politica». Su analoga traccia politica si muove la collana di saggistica di Newton Compton che a febbraio manda in libreria il saggio Destra estrema e criminale di Caprara e Semprini. Ma tra i saggi che indagano fenomeni di pazzia criminale c’è anche un importante titolo di Raffaello Cortina: Atti impuri. La piaga dell’abuso sessuale nella chiesa cattolica a cui fa eco, per Malatempora, Lasciate che i pargoli vengano a me, storie di preti pedofili di Paolo Pedote. Fra scienza e riflessione filosofica, invece, il saggio di Orlando Franceschelli L’anima e Darwin. L’evoluzione della natura umana e i suoi nemici (Donzelli) che si inserisce nel recente dibattito sull’evoluzionismo, così come il libro a due voci di Boncinelli e Giorello La scimmia intelligente, dio, natura e libertà (Rizzoli). Per i tipi di Laterza si lanciano in appassionati pamphlet Stefano Rodotà con Perché laico e Vladimiro Polchi con Da aborto a Zapatero, un vocabolario laico. Ma ciò che più colpisce spulciando i cataloghi dei libri in uscita nei prossimi mesi è la quantità di testi di filosofia che si segnalano all’attenzione dei lettori: si va dai saggi che rileggono il pensiero di filosofi innovatori come Giordano Bruno a cui Edoardo Ripari dedica il suo Pensare un orizzonte post cristiano (Liguori) all’ostinato recupero di Spinoza che Quodlibet persegue con la pubblicazione de L’abisso dell’unica sostanza. Fioccano, anche nel 2009, i titoli sul pensiero di Heidegger (Martin Heidegger 30 anni dopo, Il Nuovo Melangolo, e Heidegger di Fabris per Carocci) e sulla controversa relazione con la sua allieva Hannah Arendt (Grunenberg per Longanesi). Il Saggiatore torna a pubblicare un’opera fondamentale di Merleau Ponty, Senso e non senso ma soprattutto i filosofi italiani si presentano all’appuntamento con il 2009 con una ridda di nuovi titoli. Severino addirittura con tre, a cominciare da Il destino della verità (Rizzoli). Antonio Gnoli e Franco Volpi, invece, per Alboversorio discettano sul tema “onora il padre e la madre” con tanto di dvd. hannaarendtsudomenica16ye8E se Fazi continua con la pubblicazione di nuovi capitoli della monumentale controstoria della filosofia di Onfray, Remo Bodei per Feltrinelli si occupa di Destini personali nell’età della colonizzazione delle coscienze, Maurizio Ferraris esce con il saggio Ridere e piangere davvero. In tempi di conclamata crisi della psicoanalisi, insomma, la filosofia sembra volersi candidare definitivamente a prenderne il posto. Le case editrici italiane sembrano prenderne atto e anche Bollati Boringhieri rinuncia a pubblicare Freud optando per la riedizione dell’opera di Elvio Facchinelli. Einaudi, dal canto suo, se la “sbriga” con la summa Psiche: 700 pagine di dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze. Per fortuna resiste l’intramontabile grande letteratura, e ci si può rifugiare in libri come David Golder il romanzo con cui si rivelò il talento di Irene Némirovsky e, sempre per Adelphi, optando per tre perle di saggistica: la riedizione di Friedrich Hölderlin, vita, poesia e follia di Waiblinger ma anche i Saggi di letteratura francese di Sergio Solmi e il libro Un anno degno di essere vissuto di un grande italianista come Dante Isella, scomparso nel 2007. Per il giorno della memoria, poi, Garzanti sceglie la voce di Edith Bruck con Quanta stella c’è nel cielo, mentre noi, per il nuovo anno, con il Narratore audiolibri, consigliamo i versi di Pablo Neruda. Left 52-53/08

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I fantasmi di Lacan e Foucault

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su dicembre 19, 2008

La riflessione di Attali sulla sessualità e il libro di Lancelin e Lemonnier sui filosofi e l’amore ci invitano a riflettere intorno al pensiero debole e all’eredità scarsamente progressista del ’68 di Simona Maggiorelli

L’uscita dell’edizione italiana di Amori (Fazi) di Jacques Attali ci offre lo spunto per riprendere il filo del discorso che su left avevamo avviato in occasione della giornata contro la violenza sulle donne. Sul numero 47 del nostro settimanale provammo ad articolarlo in un confronto a più voci con una psichiatra, una studentessa dell’Onda, una medievista e una filosofa. Un libro per molti aspetti intrigante quello di Attali ma in cui traspare in filigrana una riflessione sul “desiderio”, tipica di una certa cultura francese che ha visto protagonisti personaggi come Foucault e Lacan. Alla fine del suo excursus storico Attali preconizza che la liberazione della sessua-lità dai ceppi della repressione porterà in futuro a una «nuova tipologia di relazioni simultanee». Ciascuno potrà avere più partner sessuali indifferentemente omosessuali o eterosessuali nell’ambito di quello che Attali definisce come poliamore, polifamiglia o polifedeltà. Dietro, fa capolino l’idea lacaniana che l’oggetto del desiderio e la sua soddisfazione non possano esistere. E questo in linea con Freud che ha sempre sostenuto la perenne mutevolezza delle forme “inevitabilmente” polimorfe della sessualità. Ma dal libro di Attali emerge anche un legame con un certo Nietzsche il quale – come ricostruisce l’interessante I filosofi e l’amore di Aude Lancelin e Marie Lemonnier appena uscito per Raffaello Cortina – denunciava con nettezza il cristianesimo in quanto tentativo di cristallizzare e soffocare la sessualità nella istituzione monogamica. Un Nietzsche, però, nel libro di Attali, in certo modo adulterato, perché riletto (certo non nella chiave filonazista della sorella Elisabeth che manipolò l’opera dell’autore de La gaia scienza) ma in quella subdolamente perniciosa di Foucault che denunciava la violenza del cristianesimo in nome di una libertà sessuale, che di sessuale non aveva nulla, dacché teorizzava un pensiero criminale come la pedofilia. Come si può leggere in un libro di qualche anno fa di Michel Foucault, Follia e psichiatria (Raffaello Cortina).

A livello più palese c’è poi nell’opera di Attali un esplicito riferimento all’antropologia strutturale francese di Claude Lévi-Strauss che ha scritto dell’esistenza di oltre duemila “culture”, ciascuna con un proprio sistema di valori. Secondo Lévi-Strauss, che ha appena compiuto cento anni, le relazioni sessuali e della parentela troverebbero una diversa «invenzione» e regolamentazione secondo dei modelli strutturali non equiparabili. Dal suo punto di vista la poliandria non si può dire sia migliore della poliginia e della monogamia, l’eterosessualità della omosessualità. Raccogliendo questo pensiero e in accordo con il pensiero debole francese degli anni Ottanta e Novanta Attali si situa dalla parte di un relativismo che azzera le differenze. L’indagine sul rapporto fra uomo e donna di Attali, attraverso la raccolta di materiali storici, esemplifica proprio questo tipo di pensiero. Da una parte si avrebbe quindi il polimorfismo della sessualità come derivato del relativismo e della molteplicità delle culture umane, dall’altro il tentativo storicamente legato al cristianesimo di imporre un’idea universale di uomo e un’etica “sessuale” generalizzabile cui dovrebbero sottomettersi tutti gli esseri umani. Ma la morale monogamica e sacramentale della sessualità, di fatto, coincide con il suo annullamento dato che – a partire da Paolo di Tarso e sant’Agostino – l’astinenza diventa valore supremo per evitare il disordine che la donna e il desiderio che suscita potrebbero introdurre nella vita spirituale del cristiano.

Una “faccenda” ancora una volta ben esemplificata il libro I filosofi e l’amore nel capitolo dedicato a Kierkegaard: «L’incontro con Regina fu per lui l’occasione per mettere in discussione il suo doloroso rapporto con dio e con il cri- stianesimo che gli era stato inculcato fin dalla più tenera giovinezza». Ma all’emergere del desiderio il filosofo rispose con un freddo annullamento. E la ragazza tentò il suicidio. Tornando al libro di Attali ciò che colpisce è il suo carattere quasi ossimorico. Per il consigliere di Sarkozy l’unica evoluzione umana possibile sarebbe l’accettazione dell’aspetto già originariamente ibrido e polimorfo della sessualità. Che nell’Homo sapiens sapiens si sarebbe espressa fin dall’inizio in una molteplicità e variabiltà di forme che nell’epoca attuale, andrebbe solo accettata, sposando in toto il pessimismo postmoderno di certa cultura francese contemporanea. Ma Amori tuttavia lascia aperti una serie di interrogativi. Interrogativi non di poco conto, del genere: esiste un fondamento naturale e universale della sessualità umana? E questo al di là della apparente diversità dei comportamenti nella storia? Rispondere a domande simili, per chi scrive, è molto difficile senza far riferimento a un ricerca sulla realtà umana che non si limiti a una descrizione di comportamenti ma che si addentri nel cuore più profondo del rapporto con il diverso da sé. Di certo quella speranza transitata nel ‘60, attraverso Reich, di una “ rivoluzione sessuale” finì nella regressione, nel delirio dell’abolizione dei generi sessuali, nell’apparente eversività del pensiero transgender. Che – forse varrebbe la pena di dirlo ad Attali – è cosa ben diversa da un rapporto di desiderio fra uomo e donna. Rapporto dialettico, irrazionale e potenzialmente creativo, al di là di fare dei figli. Per questo massimamente eversivo agli occhi di ogni raziona-lista, religioso o post sessantottino che sia.
Left 51/08

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La donna e il serpente

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su novembre 21, 2008

Durante il ’68 la rivolta dei giovani fu inquinata da “maestri” come Foucault che proponeva Freud e Heidegger come se fossero dei progressisti. Il femminismo è caduto in questa trappola di Simona Maggiorelli


Nella cultura di fine 800, quando le donne finalmente cominciarono a emergere sul palcoscenico della storia, la sessualità caotica e indifferenziata del mondo greco-romano, condannata dal cattolicesimo (in nome di un ideale di astinenza che annullava il corpo e gli affetti), ritornava negli scritti freudiani e nella sua idea di inconscio che aveva in sé un fondo limaccioso di crimine e di tragedia. La pederastia di Laio e il suo impulso figlicida avevano consegnato Edipo a un destino di colpa per l’amore esclusivo della madre. Freud si identificò con Edipo. Ma soprattutto con Laio quando disse che i bambini vengono al mondo morti, cioè narcisisti, uccisi da quel pensiero che annulla la trasformazione che avviene alla nascita.

Non a caso nel famoso sogno di Irma, con l’immagine delle placche di pus in gola, Freud riattualizza nel linguaggio pseudoscientifico della psicoanalisi la condanna cattolica del desiderio ritenuto malattia organica e incurabile. Similmente nel caso Schreber Freud dice che la causa della psicosi era stata una «fantasia erotica femminile» mentre il «tenero impulso passivo» dell’Uomo dei lupi diventava un segno di perversione.

Lungo tutto il 900 le avanguardie dadaiste e surrealiste, che si illudevano di poter sfruttare a scopi creativi la dissociazione freudiana, esibivano una sessualità ambigua e indifferente non disdegnando, come nel caso di Duchamp, il travestitismo. Apparentemente amanti di belle donne, Man Ray e compagni fecero di Kiki de Montparnasse un’icona patinata e senza movimento “spingendola” nel suicidio di alcol e droghe. Durante il Sessantotto la rivolta dei giovani cercherà di portare alla luce quanto la psicoanalisi aveva sepolto nell’inconscio.

La spinta verso una “rivoluzione sessuale”, la critica della famiglia presa da Reich, la rivolta affrontata senza identità e senza una valida teoria scientifica, libererà perversione e pazzia. Lo stesso epigono di Freud, Wilhelm Reich, finirà dietro le sbarre di un carcere. Un altro maestro del ’68, Foucault si fece apologeta della pedofilia e portò nella rivolta giovanile la mela avvelenata dell’«essere per la morte» di Heidegger. Mentre Deleuze, l’autore dell’Antiedipo e delle «macchine desideranti», finirà suicida. In questa congerie culturale la psicoanalisi (di cui la Sinistra fin lì poco si era interessata) fu spacciata per una pratica rivoluzionaria.

Marx veniva accostato a quel Freud che parlava di inconscio perverso, filogeneticamente ereditato, che negava ogni possibilità di trasformazione psichica. Di questa frode, purtroppo, furono vittime e insieme complici i movimenti femministi che nella psicoanalisi contaminata con le pratiche di autocoscienza cercavano una liberazione delle donne. Pensatrici e psicoanaliste come Julia Kristeva e Luce Irigaray sono state le teoriche di questo tipo di pensiero scrivendo, sulla scorta di Lacan, della impossibilità di vivere il desiderio e negando qualunque possibilità di rapporto fra donna e uomo. Vestali del dolore hanno rinchiuso le donne in una diversità irriducibile che rischia di diventare autistica.

In anni più recenti poi, una ulteriore e ancora più distruttiva deriva del femminismo: assumendo l’orizzonte che propone la statunitense Judith Butler in libri come La disfatta del genere (Meltemi) le femministe che si legano al movimento lesbico arrivano a proporre come liberazione delle donne l’annullamento della propria identità, frantumata e disciolta nel transgender. Forse nemmeno il logos occidentale e il Cristianesimo sono riusciti ad arrivare a tanto.

Left 47/08

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C’è del metodo in quella follia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su marzo 9, 2007

Giacomo Marramao: “Shakespeare capiva gli uomini. La filosofia deve aprirsi all’arte e alla psicologia per non morire
di Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Fussli, Sogno di una notte di mezza estate

Fussli, Sogno di una notte di mezza estate

Da poco tempo è in libreria un’ interessante raccolta di studi che eminenti filosofi hanno dedicato a Giacomo Marramao per i suoi sessant’anni. Un libro dal titolo emblematico, Figure del conflitto (Casini editore) – con interventi, tra gli altri, di Vattimo, Cacciari, Galimberti, Bodei, Augé – per raccogliere gli spunti di un pensiero come quello di Marramao che si è sempre cimentato con una lettura critica del presente, affrontandone le questioni più delicate. left l’ha incontrato per parlare di filosofia, ma anche di una nuova identità della sinistra.

Professor Marramao, la filosofia ci può aiutare a trovare un’uscita dagli aspetti negativi della globalizzazione?
La filosofia, nell’età moderna, è stata sempre un tentativo di pensare nell’attualità. Dirigo la Fondazione Lelio Basso, una persona che aveva immaginato una filosofia come prassi. Ecco, la filosofia dell’attualità mi fa dire che questo processo di globalizzazione, che probabilmente non sarà neppure l’ultimo, ha due linee di tendenza che coabitano in modo conflittuale: per un verso il trend all’omologazione, per un altro, quasi per reazione, la tendenza spasmodica alla ricerca di una differenza identitaria. Mentre lo iato fra Paesi ricchi e Paesi poveri diventa sempre maggiore, aumenta il conflitto di identità. Dietro tutto ciò c’è il vuoto della politica, la mancanza di un progetto.

In che consiste la sua proposta di un “universalismo della differenza”?
Intanto nasce dalla mia esperienza. Mi sono formato politicamente negli anni Sessanta, in cui ho vissuto un periodo di cosmopolitismo pieno, che era alla base della politicizzazione di allora. Ho conosciuto giovani di tutte le genti, ho avuto anche una ragazza afgana che era molto più emancipata di noi. Oggi invece questo mondo così compresso, così unificato produce effetti di distanziamento delle identità.

Che cos’è accaduto?
L’attuale globalizzazione produce un falso universale che ha la sua espressione meno nobile nell’idea americana dell’esportazione della democrazia, che gli asiatici stigmatizzano così: “voi pensate di esportare libertà e democrazia e invece non vi accorgete che state esportando infelicità in tutto il mondo”. È un antiuniversalismo che tratta le identità culturali come un dato, come strutture statiche, quando invece sono plurali e in divenire.

Il suo universalismo della differenza fa tesoro dell’esperienza degli anni Settanta?

Parte dal pensiero filosofico femminile. Il pensiero della differenza ci ha insegnato a partire dal “due”, che attraversa tutta la società, sia gli uomini che le donne, liberando la donna, rendendola consapevole di essere soggetto identitario. Questa liberazione produce un effetto liberatorio anche nel soggetto maschile, rendendoci consapevoli della nostra illibertà. Quindi “universalismo della differenza” è una formula che tiene insieme due lati che erano stati separati dal pensiero filosofico occidentale. Altrimenti non ci sono più donne, né uomini. Nel 1791 la pensatrice francese Olympe de Gouges non a caso aveva detto: «Come cittadina pongo il problema della cittadinanza». Naturalmente lo pagò con la sua testa.

A questo ha portato la razionalità occidentale?

La razionalità occidentale propone l’universale neutro. Uno spazio completamente epurato da ogni appartenenza. Ma non funziona neanche il modello di inclusione democratica di tipo culturalista. In una battuta: il primo è il “modello République”, l’altro lo chiamerei “Londonistan”. Invece credo che il modello che dobbiamo costruire sia quello della civitas, come spazio in comune, proprio grazie all’eterogeneità. Non esiste mai una storia personale che non sia ibridata con quella dell’altro.

Per un filosofo della politica come lei è accettabile che la sinistra, che si è sempre proposta un progetto di “trasformazione”, si apra a fenomeni di “ritorno del religioso”?
Assolutamente no. Ma io non  userei la formula “ritorno del religioso”, che è fuorviante. Credo che la formula da superare sia quella di Dostoevskij: «Se Dio non esiste tutto è possibile». Non è affatto vero. Se fosse così, sarebbe grave. Ogni essere umano sa distinguere tra il bene e il male, indipendentemente dal fatto di credere o meno. Un’etica si deve dare sempre «come se Dio non ci fosse», come diceva Bonhoeffer. Questa è la vera formula del pensiero laico, lasciando tra parentesi le questioni circa le verità ultime.

E un’etica laica moderna su cosa si fonda?

Sull’esercizio critico e spregiudicato della ragione, è retta dalla curiositas, che ci spinge a indagare, senza porre limiti alla ricerca.

Lei parla di libertà di ricerca, ma il Vaticano oppone divieti.

I cardinali si devono rendere conto che loro fanno questo mentre le chiese sono vuote, mentre c’è la crisi delle vocazioni. Alzano la voce nella sfera pubblica e si inseriscono dentro il processo della legislazione mentre il Parlamento sta lavorando non perché sono forti ma perché sono deboli. E se la sinistra accetta il compromesso, avremo l’unione di due debolezze, quella della Chiesa e quella della politica che si puntellano reciprocamente, bloccando il processo di trasformazione della società.

Ma a sinistra c’è chi giudica una provocazione proporre una revisione del Concordato, lavorando per il “compromesso storico bonsai” del Partito democratico.
Ciò che sta accadendo è il segno dell’impotenza della sinistra.

Un’impotenza che ha radici anche in una strana operazione culturale iniziata nel ‘68 e che dura tuttora. Pensatori come Foucault cercarono di fare una rivoluzione, ma attinsero a filosofi come Heidegger, che proponeva come identità autentica l’essere per la morte.
Assolutamente. Qui tocca un punto a me molto caro. Amici come Vattimo e Cacciari si sono riferiti a Heidegger. Io, invece, ritengo che il suo pensiero sia la base del campo di concentramento. C’è una relazione molto stretta fra quell’indifferenza sottesa al tema dell’“essere per la morte” e quella dei campi di concentramento. Vi è uno stigma mortuario nel pensiero heideggeriano. Il Dasein, l’esserci, è una formula trascendentale miserabile. Come può venire in mente a un pensatore che il ventaglio dei possibili nella nostra vita sia definibile come “essere per la morte” e non per la vita? Foucault poi era una macchina di rimozione. Malgrado tutto, è stato l’erede di un pensiero francese che partiva da Cartesio, anche se poi attacca il cogito cartesiano. Ma con Cartesio lui condivide intimamente proprio la formula de nobis ipsis silemus, non parliamo mai di noi stessi. Quando si è ammalato di Aids non l’ha mai voluto dire a nessuno.

Maurizio Ferraris nota che la ricezione di Heidegger a sinistra è avvenuta da noi nel ‘68.
Prima che ciò avvenisse in Italia, un’operazione simile l’aveva fatta Marcuse, negli anni Sessanta negli Usa, sia pure un po’ sotto banco. Leggeva impropriamente sia Heidegger che Freud. Come se dessero adito a una concezione liberatoria, ma Freud è punitivo. Le passioni, per lui, devono essere castrate. Basta pensare al ruolo affidato al superio. Oggi abbiamo un’idea della mente molto più ampia della sua.

Anche la fenomenologia esistenzialista di Binswanger, che lasciava la paziente libera di suicidarsi, ha radici heideggeriane?
È let it be, come nella canzone dei Beatles, questo abbandono, in realtà, è un modo di evitare il problema del nesso libertà-responsabilità e dunque della vita e della singolarità.

In filosofia l’irrazionale ha sempre avuto una connotazione negativa. C’è bisogno di fare i conti anche con i sentimenti, con le immagini, con le emozioni?
Certamente. Abbiamo cominciato a farlo, in parte, io e il mio amicoRemo Bodei, cercando di allargare l’orizzonte delle questioni filosofiche.

La psichiatria, quella più avanzata, può venire incontro alla filosofia nel pensare una diversa identità umana non più basata solo sul Logos, sulla ragione?
Assolutamente. Occorre riuscire a elaborare il rapporto libertà-responsabilità-felicità fuori dalla connessione di colpa. è fondamentale. Sono arrivato a questa conclusione: noi riusciamo a pensare meglio, se ci apriamo alla passione, all’emozione e non la censuriamo. Da qui dobbiamo ripartire.

Perfino Nietzsche, che pure aveva tentato una ricerca sull’irrazionale, resta imbrigliato in un dionisiaco violento.
Aveva colto alcune cose, ma poi ha fallito. Anche se  Nietzsche è assai più ricco di Heidegger. Il cosiddetto superuomo, l’übermensch, io lo traduco come iperumano, perché è mensch e non man. Se lei prende Musil, L’uomo senza qualità si parla di man, è il maschio senza qualità. In übermensch c’è anche la donna. Per  l’umano è prima femminile che maschile e l’iperumano è un’eccedenza di bontà, tanto che, mentre scivolava nella pazzia, scriveva «ogni giorno è per me santo, ogni persona che incontro è divina».

Allora se i filosofi hanno fallito a chi rivolgersi, per capire, per andare più a fondo?

Forse i filosofi dovrebbero imparare dagli artisti, come da quel grandissimo filosofo che è stato William Shakespeare, che fa dire ad Amleto: «C’è del metodo in quella follia».

da left-Avvenimenti 9 marzo 2007

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Il freudismo e la sinistra. Considerazioni intorno a una vicenda editoriale

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 1, 2006

di Simona Maggiorelli

Alla scadenza degli anniversari, della nascita, della morte, secondo multipli o sottomultipli scelti a piacere, ricompare puntuale il fantasma di Freud, con la messa in scena sui principali quotidiani italiani del teatrino del genio, del padre della modernità, del precursore della terapia delle psicosi, come si legge su La Repubblica del 13 giugno 20061. A seconda degli umori di alcuni giornalisti,delle congiunture culturali, o più semplicemente degli interessi dei più anziani cultori della psicoanalisi che devono riaccreditare, in qualche modo, il loro più che vacillante prestigio. Tutto ciò nonostante che la psicoanalisi freudiana, già a partire dalla seconda metà del Novecento, si sia rivelata una clamorosa truffa2, come è emerso con chiarezza da una fitta messe di studi storici, epistemologici, biografici3. Negando ogni possibilità di cura non solo, come è noto, delle psicosi. Truffa che non si capisce come possa essere sopravvissuta se non pensando alla complicità, accanto a un ristretto gruppo di psicoanalisti, di un numero ben più rilevante di “intellettuali” certo molto disattenti e sicuramente mal informati. La vulgata psicoanalitica ha avuto la meglio sull’approfondimento, sul riscontro teorico, sull’esatta conoscenza della terminologia e del linguaggio freudiano in lingua originale4. Alcune colleghe, Luciana Sica, Stefania Rossini – insieme a pochi altri – di tanto in tanto ritualmente hanno riproposto il feticcio Freud sulle pagine dei giornali di Repubblica e dell’Espresso 5. Esaltando di volta in volta una serie di epigoni del “maestro” viennese mediocri e in cattiva fede. Umberto Galimberti, esperto, sostenitore convinto, e divulgatore della psicoanalisi ha, in più occasioni, detto tutto e il contrario di tutto. Ma ha dovuto ammettere l’assenza di ogni forma di pensiero in Freud, salvo poi subito ritrattare6. Con colpo di coda finale, il 25 febbraio scorso si è scagliato contro l’ultima opera di traduzione degli scritti freudiani firmata da Michele Ranchetti per Bollati Boringhieri e culminata con il ritiro dalle librerie dei primi due volumi7. Un’uscita di scena, quella di Freud dal mercato editoriale italiano, fatta senza clamore, con la massima discrezione, come la casa editrice stessa suggeriva ai suoi rappresentanti in una nota a circolazione interna. Motivazione ufficiale: correggere alcuni evidenti refusi della traduzione di Michele Ranchetti, con la promessa poi di rimettere presto in circolazione gli appena ritradotti Scritti di Metapsicologia, ovvero il secondo volume dei dieci tomi previsti per la collana “Sigmund Freud. Testi e contesti”, che avrebbe dovuto concludersi nei prossimi tre anni, prima comunque del 2009, anno in cui le opere di Freud saranno fuori diritto. Ma la verità è palesemente un’altra: il ritiro di Freud dalle librerie, come ha ricostruito il settimanale Left Avvenimenti, è avvenuta in fretta e furia, fra le pressioni della Spi, la società italiana di psicoanalisi e sotto la pioggia di accuse di plagio di Renata Colorni, coordinatrice della traduzione dell’Opera omnia freudiana negli anni Settanta8. Traduzione, a suo tempo, curata da Cesare Musatti e da Elvio Facchinelli, coautori di una disinvolta operazione di maquillage “idealistico”, di mascheramento dell’imbarazzante positivismo psicologico freudiano che portava a considerare la psiche alla stregua di un fatto materiale. La vicenda, nella apparente disattenzione generale, è stata messa a fuoco nel suo significato essenziale, e certo non casualmente, da prima solo sul settimanale Left, sulle cui pagine lo psichiatra Massimo Fagioli ha, una volta di più, affossato, anche attraverso una puntuale critica della terminologia freudiana, ogni tentativo di far apparire vivo il cadavere della psicoanalisi9. Dimostrando precisamente che la psicoanalisi non è mai esistita in quanto pensiero e ricerca sugli aspetti non coscienti della realtà umana10. E da giornalista rubo allo psichiatra e azzardo un pensiero: o il bambino freudiano è nato morto, incapace di reagire agli stimoli ambientali e umani, come farebbe pensare la credenza in un narcisismo primario o, invece, come mi verrebbe più spontaneo dire, non è nato affatto. E questo perché Freud ha negato che la nascita abbia un qualsivoglia significato psicologico. Lo si legge, per quanto consente la traduzione italiana, in Inibizione, sintomo e angoscia del 1926, là dove Freud scrive che il venire al mondo comporta un perturbamento dell’equilibrio narcisistico del feto senza alcun significato psicologico: ci sarebbe molta maggiore continuità fra il prima e il dopo la nascita di quanto si potrebbe essere indotti a pensare sulla base di una comune osservazione. L’«economia narcisisistica», caratterizzerebbe infatti allo stesso modo sia il feto sia il neonato. Scrive Freud: «Nell’atto della nascita viene corso un pericolo obiettivo per la conservazione della vita (…) ma psicologicamente non ci dice proprio nulla. Il feto non può percepire nient’altro che un grandissimo disturbo della sua economia narcisistica»11. Il feto come il neonato sarebbe chiuso in se stesso, non avrebbe nessuna capacità di relazione con l’esterno. Per Freud, il neonato non sarebbe altro che un feto fuori dall’utero perché alla nascita non avverrebbe nessuna cesura, nessun sostanziale cambiamento. Quindi per il medico viennese sarebbe stato completamente sbagliato il tentativo di Otto Rank nel saggio Il trauma della nascita di cercare una relazione fra alcuni casi di fobia nel bambino e le impressioni in lui prodotte dall’evento della nascita. A Otto Rank, secondo Sigmund Freud «si possono muovere due tipi di obiezione: anzitutto che egli si basa sul presupposto che il bambino abbia ricevuto alla sua nascita determinate impressioni sensoriali, specialmente di natura visiva, il cui rinnovarsi può richiamare il ricordo del trauma della nascita e con esso la reazione di angoscia. Quando questo assunto manca completamente di prove ed è altamente inverosimile (…). In secondo luogo Rank, nella valutazione di queste successive situazioni di angoscia fa, a seconda di come meglio gli convenga, intervenire ora il ricordo della felice esistenza intrauterina, ora quello della perturbazione traumatica che essa ha subito cosicché vengono aperte le porte a qualsivoglia arbitrio interpretativo»12. L’esistenza umana, il venire alla luce, come si deduce anche da questa citazione, per il fondatore della psicoanalisi (ma anche ovviamente per Rank, che poi, peraltro, fu pronto a ravvedersi e a rientrare nei ranghi dell’ortodossia garantita dal maestro) non avrebbe mai potuto essere reazione vitale e trasformazione nell’atto di percepire la luce, non insorgenza della fantasia di sparizione in risposta alla stimolazione della rètina e capacità di immaginare. Fantasia di sparizione e capacità di immaginare che caratterizzano fin dal principio il pensiero umano, come ha scoperto Massimo Fagioli. Freud insomma, reinfetando il neonato, nega la sua vitalità e cerca di imporre così a tutti un ideale regressivo. Come se in ogni essere umano ci fosse una segreta pulsione a annullare ogni stimolo per tornare nel buio, alla non esistenza dentro l’utero materno. Forse anche Freud, anziano e malato, nella sua identificazione con il figlio di Laio, avrebbe potuto sottoscrivere i versi di Sofocle che nel terzo stasimo dell’Edipo a Colono ripeteva il detto del vecchio Sileno, «La migliore sorte è non essere mai nati»? La vita umana, nella psicoanalisi, come nella vicenda personale di Freud, sembra dominata dall’idea, se non dalla paura, della morte fisica. Il leit motiv antropologico del parricidio originario, già presente in Totem e Tabù, si trasforma negli anni Venti nell’istinto di uccidere, in una malvagità che sarebbe connaturata in noi, figli di Caino, e che ci costringerebbe a una continua ripetizione nella storia di gesti sempre uguali. L’eterno ritorno dell’identico di Nietzchiana memoria fa da sotterranea trama all’ideologia freudiana che vede nel superuomo, approdato al di là del bene e del male, il modello dell’analisi riuscita. Uno zoccolo duro ideologico costruito anche sulla concezione fascista delle masse mutuata da Le Bon, in base alla quale Freud nei suoi scritti approda a una condanna esplicita del comunismo. Ma, fatto strano, storicamente è accaduto che proprio la sinistra, come ha suggerito Carlo Augusto Viano in un’ intervista13, abbia obbedito all’imperativo di “chiudere gli occhi”. Non si è compreso, o non si è stati capaci di vedere, che il tentativo di correggere Marx con Freud, come hanno voluto certe correnti del Sessantotto sedotte dall’ambiguità di pensatori come Fromm e Marcuse, ha ingenerato maggiore confusione e ha contribuito a produrre, in chi è più vulnerabile, malattia mentale. È storia recente come molti abbiano pagato con la pazzia, la droga o il suicidio quello che altri facevano passare come idee rivoluzionarie e prassi liberatorie. Ma ora, tornando all’incipit, al compito che mi era stato assegnato, di ricostruire come si è arrivati all’intervista a Michele Ranchetti del 2 giugno14 che racconta, indirettamente (dopo un acceso passaggio su Radiotre, in occasione della Fiera del Libro di Torino), della morte di Freud, mi torna in mente un numero del “Sogno della farfalla”, in cui alcuni anni fa si diceva «Freud è morto»15. Questa volta, in occasione delle rituali celebrazioni per i centocinquant’anni dalla nascita di Freud, si è notato, rispetto al passato, un cambiamento sostanziale. Un fatto carico di significati per la cultura italiana e che il silenzio della maggior parte della stampa ha cercato di occultare16. Il ritiro dalle librerie dell’ultima traduzione di Ranchetti e il blocco dell’operazione editoriale della Bollati Boringhieri suggeriscono un’immagine di Freud che assomiglia più al vecchio Edipo cieco nei pressi del bosco sacro delle Eumenidi che non al giovane eroe dal fascino ambiguo impersonato da Montgomery Clift nel classico film girato negli anni Cinquanta da John Houston. Edipo a Colono nella tragedia di Sofocle sparisce inspiegabilmente nel nulla e di lui non rimane alcuna traccia: è accaduto lo stesso per le copie della traduzione freudiana di Ranchetti? Proprio Paolo Boringhieri, l’artefice dell’Opera omnia italiana negli anni Settanta, recentemente scomparso, sosteneva che nel panorama culturale attuale non c’è nessun dibattito intorno a Freud17. Di Freud non si parla: è assente o è sparito nel nulla, ammesso che sia mai stato presente. Se sporadicamente compare sulla stampa viene fuori una caricatura. È accaduto, per riannodare ancora i fili di questa vicenda, con un articolo di Repubblica18 che attraverso la testimonianza di una delle sue ultime pazienti, suggeriva l’immagine del Freud guaritore che opera attraverso la suggestione dello sguardo e del silenzio. Insomma, il tentativo maldestro, e ormai fuori tempo massimo, è stato quello di negare e nascondere un’assenza che gli articoli di Left grazie al riferimento alla teoria e alla prassi terapeutica di Massimo Fagioli, hanno puntualmente messo in evidenza. Con un’avvertenza: l’assenza freudiana potrebbe far trasparire l’assenza di pensiero di tutta un’area culturale di sinistra che richiama nostalgicamente il razionalismo illuminista. Quest’area teme il crollo di una concezione antropologica, come quella di Eugenio Scalfari19, che solo apparentemente è laica, perché ripropone l’idea di una malvagità originaria dell’essere umano.La teoria della nascita, che fin dal suo esordio negli anni Settanta è stata capace di un serrato e continuo confronto con la cultura dominante, mette in crisi l’egemonia che tutto un gruppo di intellettuali “illuminati” si è illuso di esercitare attraverso il controllo di testate giornalistiche prestigiose e apparentemente progressiste. Questo gruppo, malgrado la pochezza e l’inconsistenza di Freud, lo usa come una mela avvelenata per addormentare quella sinistra che potenzialmente sarebbe disponibile a una trasformazione della mentalità e dell’agire politico; sarebbe disponibile ad una ricerca sulla realtà umana fatta di pulsioni, affetti, immagini, movimenti prima della parola e di quella strutturazione della coscienza in cui l’uomo “razionale” può rimanere intrappolato per sempre come in una prigione.

1 L. Sica, Le nostre pazzie segrete, in “La Repubblica”, 13.6.2006.

2 Cfr. C. Anzilotti, Marcella Fagioli, La frode terapeutica, in “Il sogno della farfalla”, 3, 1993, pp. 5-22.

3 Mi limito a citare alcuni volumi significativi, dallo storico J. M. Masson, Assalto alla verità, Mondadori, Milano 1984, al caso Ernst Blum, ora pubblicato e commentato in M. Pohlen, Freuds Analyse. Die SitzungsprotocolleErnst Blums (1922), Rowohlt, Hamburg 2006, (grazie a una segnalazione della psichiatra Annelore Homberg), passando per AA.VV., Le Livre noir de la psychanalise. Vivre, penser et aller mieux sans Freud, a cura di C. Meyer,Editions des Arènes, Paris 2005, di prossima traduzione in Italia, senza dimenticare l’interessante ricostruzione di J. Benestau, Mensonges freudiens. Histoire d’une désinformation séculaire, Pierre Mardaga, Paris 2003 (ringrazio Annelore Homberg e Rossana Cecchi per le loro segnalazioni). A proposito del Libro nero della psicoanalisi scive Alessandro Pagnini sul supplemento domenicale de “Il Sole 24 ore” del 18.9.2005: «(…) letterati, scienziati. storici, filosofi di rinomanza internazionale (…) si affannano a raccontarci, non senza un pizzico di inutile malizia scandalistica, quello che persino in Italia sappiamo già che con la fine del “secolo della psicoanalisi” è finita anche la sua credibilità scientifica».

4 Giovanni Jervis per esempio dice: «Purtroppo non sempre gli psicoanalisti sono degli studiosi (…) spesso non sanno il tedesco, non hanno attenzione culturale a capire come gli scritti di Freud facciano parte di un dibattito di cento anni fa, spesso li hanno presi come fossero il Vangelo». C. Iannaco, S. Maggiorelli, Jervis: quel filosofo di Sigmund, in “Left”, 2.6.2006.

5 Ricordo, per inciso, che il settimanale “L’Espresso”, per celebrare centocinquant’anni dalla nascita di Freud, con un’operazione che sa di restaurazione ha allegato al settimanale due volumi di sue Opere scelte nella originaria traduzione di Musatti.

6 Un esempio concreto e argomentato dell’andamento contraddittorio del pensiero di Galimberti si può leggere in C. Anzilotti, F. Riggio, Freud e la legittimazione culturale della pedofilia, in “Il sogno della farfalla”, 2, 1998, pp. 41-42.

7 U. Galimberti, Il padre della psicoanalisi tradito dal suo editore, in “La Repubblica”, 25.2. 2006. Galimberti sostiene che i testi allestiti da Renata Colorni «non avevano nessun bisogno di essere sostituiti» e che la nuova traduzione di Ranchetti presenta «errori e diverse sciatterie anche macroscopiche» così gravi da consigliarne «il ritiro immediato».

8 C. Iannaco, S. Maggiorelli, Freud il santo, in “Left”, 2.6.2006.

9 Cfr., oltre ai libri di Massimo Fagioli, alcuni suoi recenti articoli che toccano direttamente questo tema: Freud, un imbecille, in “Left”, 5.5.2006; Il grosso rumore, in “Left”, 12.5.2006; Un mondo migliore è da riscrivere, in Left”, 9.6.2006; Das erste Wünschen, in “Left”, 16.6.2006; Movimento e trasformazione, in “Left”, 23.6.2006.

10 Afferma ad esempio Fagioli: «[Quello di] Freud è un pensiero religioso che sta nella credenza o ideologia dell’inconscio filogeneticamente ereditato, sta nel fatto che c’è il male e non la malattia, c’è il fatto che Freud parla del diavolo a proposito di inconscio (…). Freud è un religioso, un religioso cattolico, proprio nel senso che (…) per lui tutta l’origine del male sta nella sessualità». AA.VV., Crisi del freudismo, a cura di P. Fiori Nastro, A. Homberg, F. Masini, Nuove Edizioni Romane, Roma 2000, pp. 64, 68.

11 S. Freud (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, vol. X, Boringhieri, Torino 1978, pp. 283-284.

12 Ibidem.

13 C. Patrignani, Matrimonio di convenienza. Freud in aiuto a Marx, in “Left”, 26.6.2006.

14 C. Iannaco, S. Maggiorelli, Freud il santo cit.

15 C. Anzilotti, L. A. Armando, G. Del Missier, F. Panzera, A. Seta, Freud è morto nel 1971: modalità, implicazioni ed antecedenti di un’estromissione dalla Spi e dall’Ipa avvenuta nel 1976, in “Il sogno della farfalla”, 1, 1995, pp. 71-80.

16 La notizia del ritiro di Freud dal mercato editoriale italiano viene ripresa da P. Di Stefano, Freud I contro Freud II. Battaglia in tribunale, in “Corriere della Sera”, 19.6.2006.

17 Sull’inserto “Tuttolibri” de “La Stampa”, il 6.5.2006, Boringhieri dichiara: «L’interesse per Freud non dura, ha fasi alterne. E dopo le stagioni della Klein e di Lacan, mi pare che abbia di nuovo perso terreno. Non c’è dibattito sul freudismo in Italia, neppure tanto all’estero».

18 Il racconto di Margarethe Walter, in “La Repubblica”, 27.4.2006.

19 Cfr. E. Scalfari, Quando il Papa vuole fare le leggi, in “La Repubblica”, 23.10. 2005.

Rivista Il Sogno della farfalla numero 4, 2006

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La caduta degli dei filosofi

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 22, 2006

freudFoucault, Marcuse, Sartre. La sinistra rivede i suoi punti di riferimento e i pensatori guru del ‘68. Cosa resta di valido del loro pensiero? Ne discutono tre filosofi di oggi: Accarino, Bodei e Marramao

di Elisabetta Amalfitano e Simona Maggiorelli

Un libro duro su Sartre che, per la prima volta, mette al nudo il teorico del nulla, fin qui intoccabile maître à penser della sinistra. E poi, lungo l’asse Francoforte – Parigi, un ripensamento radicale del pensiero di Marcuse che Piero Melograni sul Corsera dice «il più nefasto» dei guru sessantottini. L’esistenzialismo, nelle sue declinazioni francese e tedesca, con le sue radici in Freud, Heidegger e Lacan, da qualche tempo, sui giornali di sinistra è al centro di un acceso dibattito. In Italia, ma anche Oltralpe; basta dare uno sguardo alle pagine di Libération. Come se fosse arrivato il tempo di vedere più da vicino, nella giusta prospettiva storica, punti di riferimento a lungo idealizzati. Con il coraggio, talvolta, da parte di una sinistra in cerca di una nuova identità, di rottamare ciò che ormai appare superato. «Un ripensamento e una riconsiderazione più che legittima», commenta il filosofo Giacomo Marramao. Specie quando si tratta di problematiche che intercettano l’attualità. E temi “caldi” come il carcere, la sessualità, la follia abitano, fin dagli inizi, la trattazione del filosofo francese Michel Foucault. Le sue formulazioni, che tanta influenza hanno avuto sulla sinistra italiana, ora sono riportate alla ribalta da un libro edito da Raffaello Cortina, Follia e psichiatria, con saggi e interviste dal 1957 al 1984. Ne abbiamo parlato con tre eminenti filosofi. Partendo dal tema più bruciante, quello che riguarda la malattia mentale.«Senz’altro il modo di pensare la follia di Foucault è da rivedere – è la risposta immediata di Remo Bodei -. Quello di cui ci ha parlato non è l’essenza della follia, che lui dice sfuggire come la carta del jolly, che compare e scompare, nel mazzo delle carte. Cosa che io non credo, perché penso che la follia si possa interpretare, in qualche modo». sartreE aggiunge: «Foucault ha guardato solo a ciò che produce socialmente la follia, con la trasformazione, dopo i grandi cicli epidemici, dei lebbrosari in manicomi». Dunque un pensiero che nega la malattia mentale? «Foucault appare un po’ buonista – prosegue Bodei -. Se non arriva a dire che ognuno ha diritto alla sua follia e al suo delirio come faceva Antonin Artaud, certo non considera che la malattia mentale è dolore». «Foucault resta come abbacinato dall’idea che la follia sia l’effetto di un gigantesco sistema repressivo, di controllo e disciplinamento generalizzato – prosegue Giacomo Marramao -. Questa sua idea oggi entra in crisi: la follia non è tanto un’invenzione del sistema, ma una patologia da curare». Ma se sul tema della malattia mentale le idee di Foucault sono, dice Marramao, «molto da rivedere, molto da correggere» c’è un punto della riflessione del filosofo francese che si sente di salvare: la riflessione sul sapere come potere e quella sulla detenzione. «Foucault ha raccontato – dice Marramao – come dalla modernità si determinino due regimi diversi: quello dei detenuti e quello dei diversi. Prima non c’era una compartimentazione dei folli, che facevano parte della comunità. La geometria cartesiana e hobbesiana dello Stato moderno, invece, traccia un confine netto fra il sano e il folle, fra il normale e il deviante. E non è che la normalità venga stabilita prima e poi la devianza. È piuttosto il contrario: prima viene stigmatizzata la devianza e poi si costituisce la normalità». Quello foucaultiano sulle carceri è un passaggio che appare importante anche al filosofo Bruno Accarino: «Quella che andrebbe riscritta, a partire da un caposaldo del pensiero foucaultiano come Nietzsche è una filosofia della pena». Riscrivere, proponiamo, anche nel senso di “mettere in crisi”. Formulando, a sinistra, un discorso filosofico che ripensi la pena non più come punizione. «Proprio così – dice il docente dell’ateneo fiorentino -. Negli Usa si fa un business multimiliardario sugli istituti di pena, la cui logica punitiva non fa che preparare nuovi sovraffollamenti anche economicamente remunerativi. Si è chiusa un’epoca e ogni tentativo di risoluzione accentuando la repressione è perfino patetico nella sua inutilità». Ma proprio il tema del carcere e della pena ci riporta qui a un’intervista pubblicata in Follia e psichiatria: interpellato sulla punibilità dei crimini di pedofilia e di stupro Foucault dice: «Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto, e allora? Ci sono bambini che acconsentono rapiti!». Un passo inquietante; a tutti e tre i nostri interlocutori abbiamo chiesto un commento. «Il consenso dei bambini pone problemi legislativi, non di orientamento morale – risponde Accarino -. La discussione mi sembra, in quel punto, un po’ sfilacciata. La delicatezza della questione avrebbe imposto una rielaborazione». basagliafoto800Ma allora può esistere un bambino consenziente? No, Accarino non crede affatto che un bambino possa essere consenziente. E anche secondo Bodei «non è pensabile, perché un bambino non è un adulto». E poi andando più a fondo: «Questo passo – denuncia – giustifica crimini sessuali, come la pedofilia, e fenomeni come il turismo sessuale. C’è una giustificazione della pedofilia nel dire che c’è un assenso volontario verso gli adulti da parte dei bambini che subiscono violenza e questo non è accettabile». Il professor Marramao ride e dice: «Questo è tipicamente foucaultiano! Per un verso qui Foucault apre una prospettiva che riguarda la necessità di un’indagine sulla sessualità della pre pubertà ma dall’altra tende a rimuovere un problema che è connesso a una patologia molto seria come la pedofilia». Idealizzazione della follia, negazione del diritto del malato a una cura, ma anche un’idea distorta della sessualità, basata su un convincimento freudiano. «E Freud – stigmatizza Marramao – era un uomo del suo tempo, un moralista, anche un po’ rigido, basta pensare a quel suo agganciare la sessualità al complesso edipico. Ora non dico che non ci possano essere individui la cui vita possa essere condizionata da un rapporto edipico complesso, ma non è valido per tutti, racconta un fatto molto parziale. Il vecchio Freud era un gran sessuofobo, non c’è dubbio». E il pensiero sulla sessualità di Foucault, come quello di Freud non è simile a ciò che pensa la Chiesa: perversione e istintività bestiale? «Per Foucault – risponde Accarino – non esiste la sessualità umana, esistono solo i discorsi che ruotano attorno alla sessualità». Ma si può davvero discutere su qualcosa che non esiste? «In effetti – ammette Accarino – è molto forte, in Foucault, una spinta ad una sorta di smaterializzazione. A volte si ha l’impressione che il logos preceda il corpo, irretito, in senso letterale, in una trama di discorsi, senza avere uno statuto autonomo e una sua materialità». Come può allora un pensiero come quello di Foucault essere sposato dalla sinistra? Se siamo tutti pazzi, non è più coerente con un pensiero di destra che esige controllo e autorità? «Siamo “tutti pazzi” nel senso – prosegue Accarino – che il confine tra il normale e il patologico è sottilissimo, non certo perché si debba abbandonare un’idea della trasformazione fondata anche su presupposti istituzionali. Altro discorso è se il pensiero di Foucault abbia sollecitato una sorta di cinismo estetizzante che, sostenendo che siamo tutti pazzi, si esime dal pensare progetti di trasformazione. La verità è che andrebbe aperto un dibattito sul conservatorismo estetizzante di sinistra, merce di cui la Francia abbonda». E più oltre, forse, all’indomani dell’indulto, la sinistra potrebbe separarsi dai suoi maestri di un tempo cultura&scienza (Heidegger-Biswanger-Basaglia-Foucault), per proporre idee nuove che consentano di curare la malattia mentale? «Sono totalmente d’accordo – conclude il professore -. La “bella pazzia” appartiene a quel repertorio estetizzante che purtroppo è accasato nella sinistra. Molto lavoro c’è da fare in strutture pubbliche che possano intervenire sulla malattia mentale, ma il loro potenziamento viene mortificato alla stregua di un palliativo o addirittura di strumento di controllo autoritario, forse perché si teme che intervenire sulle risorse pubbliche comporti oggi una rivoluzione di intenti e di orizzonti politici assolutamente inimmaginabile». left

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foucaultFoucault: «Se il bimbo non si rifiuta non c’è violenza»

In un’intervista, apparsa su Change nel 1977 e ripresa in Dits et écrits (Gallimard) e ora in Psichiatria e follia, J.P.Faye e altri pongono dei quesiti al filosofo: «Una ragazzina di otto anni – dice Faye – stuprata da un giovane bracciante agricolo di 28 anni, in un fienile. Poi lei ritorna a casa, suo padre fa il medico, è cardiologo, che si interessa anche a Reich: da cui la contraddizione. Vede rincasare la figlia, che non apre più bocca. Resta completamente muta per diversi giorni, ha la febbre… Nel giro di qualche giorno, tuttavia, fa vedere che è ferita fisicamente. Il padre cura la lacerazione, sutura la ferita. Medico e reichiano, sporge denuncia? No, si limita a parlare con il bracciante agricolo, prima che lui se ne vada. Non scatta alcuna azione giudiziaria. Ma il racconto continua con la descrizione di un’enorme difficoltà psichica a livello della sessualità, più avanti nel tempo. Che è verificabile soltanto quasi dieci anni dopo. È molto difficile pensare qualcosa a livello giuridico in questo caso. Non è facile a livello della psiche, mentre sembra più semplice a livello del corpo».

M. Foucault: In altre parole, bisogna dare una specificità giuridica all’aggressione fisica nei confronti del sesso?

J.P. Faye: C’è una lesione che è al tempo stesso fisica, come un pugno sul naso, e insieme anticipa una “lesione psichica” forse non irreversibile, ma che sembra molto difficile da misurare. Al livello della responsabilità civile, “misurare il danno” è una questione delicata. Al livello della responsabilità penale, che posizione può prendere un partigiano di Reich? Può presentare una denuncia, intentare un’azione repressiva?

M. Foucault: Ma tutte e due voi, in quanto donne, siete immediatamente urtate dall’idea che si dica: lo stupro rientra nelle violenze fisiche e pertanto deve essere trattato semplicemente come tale.

M. O. Faye: Soprattutto quando riguarda bambini o ragazzine.

D. Cooper: Nel caso di Roman Polanski negli Usa, in cui si trattava di una questione di sesso orale, anale e vaginale con una ragazza di tredici anni, la ragazza non sembrava traumatizzata, ha telefonato a un’amica, ma la sorella ha origliato dietro la porta e così si è messo in moto il processo contro Polanski…

M. Foucault: Sembra che fosse consenziente. E questo mi porta alla seconda domanda che volevo porvi. Lo stupro può comunque essere definito abbastanza facilmente, non solo come un non-consenso, ma come un rifiuto fisico di accesso. Per contro, tutto il problema che si pone, nel caso delle ragazze ma anche dei ragazzi – perché, legalmente, lo stupro nei confronti dei ragazzi non esiste – è il problema del bambino che viene sedotto. O che comincia a sedurre voi. Si può fare al legislatore la seguente proposta? Con un bambino consenziente, con un bambino che non si rifiuta, si può avere qualunque tipo di rapporto, senza che la cosa rientri nell’ambito legale?… Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto – e allora? Ci sono bambini che acconsentono, rapiti.

M. O. Faye: Anche i bambini tra di loro, ma su questo si chiudono gli occhi. Quando un adulto entra in gioco, però, non c’è più uguaglianza e equilibrio tra le scoperte e le responsabilità. C’è una disuguaglianza…difficile da definire.

M. Foucault:  Sarei tentato di dire che, se il bambino non si rifiuta, non c’è alcuna ragione di sanzionare il fatto, qualunque esso sia…Inoltre, esiste anche il caso dell’adulto che è in un rapporto di autorità rispetto al bambino. Sia come genitore, sia come tutore, oppure come professore, come medico. Anche qui si sarebbe tentati di dire: non è vero che da un bambino si può ottenere ciò che non vuole veramente, attraverso l’effetto dell’autorità.

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