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Maria Gabriella Gatti: «Il feto, un’esistenza senza sogni»

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 24, 2009

foetus_2Nuovi studi convalidano la tesi che i movimenti oculari del feto non sono segno di attività onirica. Intervista alla neonatologa Maria Gabriella Gatti. «In utero la stimolazione vibro-acustica induce solo movimenti riflessi». «I pattern Rem e Nrem sono specifici della specie. Nell’uomo sono diversi rispetto agli animali» di Simona Maggiorelli

Uno studio pubblicato su Child Development sostiene che i ricordi prenderebbero «forma prima della nascita»: un’ipotesi  che, così come è stata rilanciata nei giorni scorsi da Repubblica, sembra fatta apposta per  dare man forte alle crociate antiabortiste di Buttiglione e  alle smanie di un premier in cerca di maquillage d’immagine oltretevere. Per capirne di più sul piano della scienza abbiamo chiesto un commento alla neonatologa dell’Azienda ospedaliera universitaria di Siena, Maria Gabriella Gatti. «Innazitutto – spiega – è necessario un chiarimento terminologico: da una parte abbiamo il “ricordo” e dall’altro il problema di come il ricordo o, più esattamente, la memoria  prende forma. Bisogna tenere presente che per ricordo si intende la possibilità di rievocazione di fatti coscienti. Ora attribuire al feto una coscienza è impossibile in base non solo alle osservazioni cliniche ma anche alle ultime acquisizioni della neuroscienze. In utero i processi neurologici sono prevalentemente sottocorticali mentre la coscienza implica una vita mentale, l’interazione e il collegamento funzionale fra numerose aree corticali e sottocorticali. Quindi non si può usare la parola “ricordo” per la situazione intrauterina, perché il ricordo rimanda inevitabilmente alla coscienza. Va precisato anche che la memoria umana cosciente o non cosciente è un’attività psichica complessa che non si limita a fenomeni neurobiologici o processi che intervengono a livello di riflessi semplici, come l’abituazione, presenti anche negli organismi più elementari. Questi automatismi avvengono senza la presenza di una qualunque forma di pensiero.
Nell’articolo si legge anche che «già a 7 mesi un cucciolo d’uomo riesce a ricordare quali “suoni” provenienti da fuori sono da temere e quali no». Come è possibile se la pancia della madre lo isola e lo protegge?
La stimolazione vibroacustica del feto evoca movimenti riflessi e accelerazioni del battito cardiaco. Le pareti uterine proteggono dal mondo esterno ma alcuni suoni a bassa frequenza raggiungono ugualmente il feto e vengono trasmessi attraverso le vibrazioni ossee. I suoni inducono una reattività riflessa di tipo biologico che sottostà al fenomeno dell’abituazione, a cui accennavamo, il cui scopo primario nel feto non è la memorizzazione ma la difesa di un sistema nervoso immaturo  dal punto di vista morfologico e funzionale.
I ricercatori olandesi che hanno firmato lo studio di Child development parlano di memoria a breve termine nel feto. Di che si tratta?

Le ricerche degli olandesi riguardano specificamente il fenomeno dell’abituazione: usare però tout court abituazione come sinonimo di memoria potrebbe essere semplicistico. Mi sembra che, tra le righe, il neuroscienziato Pergiorgio Strata, intervistato da Elena Dusi su Repubblica suggerisca proprio questo riferendosi all’estrema complessità del sistema della memoria. L’abituazione è la progressiva diminuzione della risposta a uno stimolo ripetuto fino alla sua scomparsa , dovuta alla perdita dell’efficacia funzionale delle sinapsi. Si tratta di un processo sottocorticale difensivo nei confronti di un eccesso di stimoli, presente nel feto nell’ultimo trimestre di gravidanza e nel neonato nei primissimi mesi di vita. La risposta del feto a uno stimolo è un riflesso sia che si fletta una gamba sia che si evochi un allargamento e una chiusura degli arti  come succede nel riflesso di Moro che è una modalità di risposta arcaica senza alcun contenuto emozionale: nell’abituazione c’è una modificazione della biochimica delle sinapsi, tale da inibire la risposta a breve o a lungo termine. Il feto non ha comunque alcuna capacità di localizzare o distinguere uno stimolo da un altro. Varie specie di stimoli possono indurre risposte olistiche e non specifiche. La memoria come processo dinamico, che si avvale di circuiti e reti neuronali di enorme complessità e continuamente variabili, non può identificarsi, come scrive il premio Nobel Gerard Edelmann, con l’abituazione cioè con la  variazione della forza sinaptica.La memoria è un processo di ricreazione psichica che ha inizio a partire dalla nascita quando si hanno reazioni a stimoli specifici e percezioni.

Continuando nella disamina: «Ai primi stimoli il piccolo risponde sempre contraendosi spaventato», si legge ancora su Repubblica. Poi sorriderebbe addirittura. Prima della nascita dire che il feto ha reazioni emotive o percezione del dolore è fare disinformazione scientifica?

La neonatologa Maria Gabriella Gatti

La neonatologa Maria Gabriella Gatti

L’ambiente intrauterino del feto è del tutto diverso da quello in cui si viene a trovare il neonato. L’insieme delle risposte inibitorie è una chiave strategica per la sopravvivenza  del feto. Infatti, in condizioni di stress, i movimenti fetali cessano, diminuisce il voltaggio dell’elettroencefalogramma (Eeg). La funzione cerebrocorticale del feto fino alla maturità si sviluppa in un ambiente che è fisiologicamente inibitorio. Il feto per tutta la gravidanza non raggiunge mai lo stato di veglia neanche come reazione alla diminuzione  di ossigeno nel sangue, stimolazioni sonore intense o a interventi di microchirurgia. Il feto non può avere la percezione del dolore per la presenza di neurormoni o sostanze che contribuiscono a inibire l’attività cerebrale già limitata dalla bassa concetrazione di ossigeno nel sangue per le caratteristiche dell’emoglobina fetale. L’adenosina, il pregnanolone, la prostaglandina D2 prodotti dal cervello fetale e dalla placenta nell’ultimo trimestre di gravidanza sono dei potenti neuroinibitori. Anche l’ossitocina, un ormone che stimola le contrazioni uterine durante il travaglio, potenzia l’effetto inibitorio dei neurotrasmettitori. Nel canale del parto gli stimoli pressori di notevole intensità non producono modificazioni del tracciato elettroencefalografico. Dopo la nascita, registrazioni elettroencefalografiche indicano un intenso flusso di nuove stimolazioni sensoriali. Viene meno l’effetto degli ormoni placentari che in utero inibiscono l’attività neurale.
Gravidanza05Mesi fa, sempre su Repubblica, c’era un  pezzo dal titolo “Così si sogna nella pancia della mamma”. «Alcuni scienziati dell’università di Jena – riportava – sono riusciti a fare un Eeg a un feto di pecora, così è stata registrata un’attività cerebrale che, benché immatura, comprende cicli di sonno e fasi oniriche». Che ne pensa?
Alla ventottesima settimana di gestazione i sistemi sensoriali periferici si connettono al sistema nervoso centrale. Ciò corrisponde a un tracciato elettrico denominato convenzionalmente Rem, espressione in utero della sinaptogenesi. Dopo poco compare l’altro pattern elettroencefalografico detto Nrem in cui prevalgono processi inibitori. Nel feto non si può parlare né di sonno, né di sogno, né di veglia, né di capacità percettiva. Si rischia di dare un significato psichico a fenomeni come le fasi Rem o non Rem che nel feto umano sono solo processi biologici finalizzati alla maturazione e alla differenziazione morfologica e funzionale. I pattern Rem e Nrem sono specie specifici, nell’uomo sono diversi rispetto agli altri primati e differenti da individuo a individuo: la pecora non ha niente a che vedere con l’essere umano.
In conclusione?
La  gravidanza è una fase di sviluppo e di maturazione biologica: solo alla nascita dalla biologia prende forma la realtà psichica, il pensiero che è specificamente umano. Dalla ventiquattresima settimana c’è una possibilità di sopravvivenza del feto per una maturazione cerebrale e degli organi di senso tale da consentire una reattività specifica agli stimoli esterni.
left 29/2009

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Quando la cura è accanimento

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su febbraio 10, 2009

«Rianimare sempre i prematuri, anche quelli destinati a non sopravvivere, va contro ogni evidenza scientifica». Più di cento medici specialisti scrivono a Sacconi, contestando le indicazioni assunte dal ministero di Simona Maggiorelli

È lunghissima la lista di firme in calce alla lettera aperta, indirizzata da un gruppo di medici al ministro Sacconi e ai vertici del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) e del Consiglio superiore di sanità (Css). Conta più di cento nomi di anestesisti, neonatologi e ginecologi da ogni parte d’Italia. Molti sono cattedratici, ma fra loro c’è anche una larga rappresentanza di quei medici che, quotidianamente, lavorano in ospedale e che – stando a quanto indicato dai documenti ufficiali di Cnb e Css – in caso di parti prematuri, dovrebbero tentare sempre la strada della rianimazione. A prescindere dall’età gestazionale. Senza soffermarsi a valutare in primis le possibilità reali di sopravvivenza del neonato e i pesanti handicap da cui potrebbe essere affetto. «Questa posizione assunta dal Css, e quindi dal ministero della Salute, nega l’evidenza scientifica su cui deve basarsi ogni corretta attività clinica», commenta Giuseppe Gristina, coordinatore della comitato di bioetica della Siaarti che raccoglie gli anestesisti-rianimatori italiani. Un’evidenza scientifica che, come riporta uno studio basato sull’elaborazione dei dati forniti da 15 società scientifiche pediatriche occidentali e pubblicato nel 2008 da Giampaolo Donzelli e Maria Serenella Pignotti sulla rivista Pediatrics, tradotta in cifre significa che l’80-90 per cento dei nati prima delle 24 settimane muore in sala parto, il 2-10 per cento muore durante il trattamento intensivo e il 95 per cento evidenzia gravi handicap funzionali e psichici. «Perciò – spiega Gristina – riteniamo che rianimare comunque anche chi nasce prematuro estremo, e cioè con una elevatissima probabilità di morire dopo inutili sofferenze o di portare per sempre gli esiti drammatici di questa prematurità, significhi fare dell’accanimento terapeutico e non certo il bene di questi nati, contravvenendo, molto spesso, alla volontà dei genitori e infrangendo così una norma essenziale del codice di deontologia».

E se nel 2006 furono proprio i due neonatologi, Donzelli e Pignotti dell’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, ad aprire il dibattito sui rischi di accanimento terapeutico sui “grandi prematuri” stilando la cosiddetta Carta di Firenze (sottoscritta dalle maggiori associazioni di neonatologia e ostetricia), dopo due anni e molte risposte deludenti da parte di governi pur di colore diverso, ora sono gli anestesisti a riaccendere il dibattito su una questione che, per quanto riguardi un numero piuttosto esiguo di casi, solleva problemi importanti che indirettamente toccano il tema dell’aborto terapeutico e quindi della legge 194. Così oggi dai neonatologi e dai medici anestesisti viene un medesimo giudizio negativo sulle direttive promosse dal Cnb e dal Css: «Nei loro documenti ufficiali – dice Maria Serenella Pignotti – c’è un fatto inaccettabile: vi si legge che i prematuri vanno sempre rianimati se mostrano una parvenza di vita. Così si torna a una situazione che è cinquant’anni indietro rispetto al panorama scientifico internazionale di oggi. All’estero si è molto sviluppata la valutazione medica della prognosi di un paziente. Da noi, invece, si insiste sulla rianimazione, anche quando rischia di essere solo violenza. Senza contare che seguendo il principio “rianimare sempre” non si prende in minima considerazione il parere dei genitori. Così i documenti del Css e del Cnb annullano il problema, dicono: non esiste». Proprio quello che la Carta di Firenze voleva evitare. In quel documento, ricorda Pignotti «individuavamo un gruppo di bambini di bassissima età gestazionale per i quali le terapie intensive risultano inutilmente dolorose. Per questi casi una risposta di buon trattamento può essere la cura palliativa. Con la Carta cercavamo di mettere a punto delle linee guida, volevamo dare risposte scientifiche a quei medici che si trovano a dover prendere decisioni importanti come intubare o meno un bimbo molto prematuro. Ma al tempo stesso cercavamo di rispondere alle speranze, ai dubbi e alle angosce dei genitori. Un bambino che nasce ha diritto alle migliori cure, non possiamo esporlo a rischi di accanimento terapeutico». Ma quand’è che per un prematuro la terapia intensiva è accanimento? «C’è una varietà di situazioni e casi individuali – risponde Pignotti -. Se è femmina, in genere, ha più resistenza di un maschio, così se è meglio nutrito, cose ovvie. Ma ciò su cui tutta la letteratura internazionale concorda è che sotto le 23 settimane non c’è nulla da fare. Si possono solo applicare cure palliative».

Uno studio in via di pubblicazione stilato da Maria Cuttini per il progetto Action ha osservato l’incidenza della prematurità nelle varie regioni d’Italia tra il 2003 e il 2004. Dalla ricerca risulta, per esempio, che in Toscana in 24 mesi sono nati 6 bambini di 22 settimane. Tutti in poco tempo sono morti. Nonostante l’aggressività delle cure. «Di fatto, solo dopo le 24 settimane il feto può essere in grado di vivere fuori dall’utero – precisa la neonatologa dell’ospedale Meyer -. A quel punto ha organi vitali attrezzati, oltre al cuore (che funziona anche nella vita intrauterina), ha polmoni e reni. Ma ancora tra le 22-23 settimane i polmoni non hanno alveoli atti allo scambio di gas. Questo per dire che c’è un limite anatomico biologico ben preciso che non può essere in nessun modo bypassato». A meno che non si preconizzi la costruzione di un utero artificiale che, oggi, è fantascienza. «Sì, c’è chi parla di un futuro per questi bambini al di sotto delle 24-25 settimane, ma a oggi non c’è. Anche con i macchinari – conclude Pignotti – oggi posso aiutare certe funzioni vitali di un prematuro, ma non esistono macchine in grado di vicariare organi tout court». L’età gestazionale (contrariamente a quanto si legge nei documenti di Cnb e Css) è un indice importante nelle mani del medico. «Quello che vale per rene e polmone – spiega Pignotti – riguarda anche la maturazione del sistema nervoso centrale del feto: fra le 22 e le 24 settimane, infatti, cominciano processi di maturazione importantissimi, come la migrazione delle cellule neuronali che nascono e poi migrano nella corteccia. Proprio in quel momento nel feto avvengono alcune di quelle modificazioni che poi lo porteranno a sviluppare, nella sua pienezza, quella cosa meravigliosa che è il sistema nervoso della specie umana.
Purtroppo quale sia l’esatto impatto delle nostre cure intensive su un cervello in via di sviluppo non lo sappiamo esattamente. Fatto è che i bimbi di questa età gestazionale che sopravvivono risultano di frequente segnati da danni neurologici gravissimi».

Anche per Maria Gabriella Gatti,
neonatologa della terapia intensiva di Siena (vedi left n. 35 del 31 agosto 2007) non c’è possibilità di sopravvivenza prima delle 24 settimane, e quando questa avviene è accompagnata da gravi danni neurologici. Inoltre, come la stessa dottoressa ha detto nel convegno “Né assassine né peccatrici” (del 23 febbraio scorso al Palexpo di Roma), nel nato prematuro prima delle 24 settimane il tracciato elettroencefalografico è indifferenziato. «Solo dopo la 24esima settimana – dice la Gatti – uno stimolo porta a un cambiamento qualitativo del tracciato ed è presente una modificazione dell’attività elettrica nell’area della corteccia occipitale in conseguenza della luce che colpisce la retina». Questo dimostrerebbe che la possibilità di vita umana «avviene dopo la 24esima settimana con l’inizio della reattività corticale agli stimoli».

Left 29/08 – 18 luglio 2008

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Nuovo attacco della Chiesa all’identità medica

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 31, 2008

L’Osservatore romano attacca la due giorni di studi che l’ospedale Meyer ha organizzato con la Consulta di Bioetica chiamando a convegno, il 30 e il 31 ottobre, i massimi esperti di neonatologia, ma anche ginecologi, anestesisti e esperti di bioetica (da Flamigni a Mori, a Pignotti). Dalle colonne del quotidiano del Vaticano, Carlo Bellieni accusa il Meyer di aprire all’eutanasia solo per il fatto di aver invitato il medico olandese Eduard Verhagen a parlare dei protocolli seguiti nel suo Paese. Ma soprattutto l’autore dell’articolo (stranamente rilanciato da un quotidiano che si dice di “opposizione” come La Repubblica) traccia un quadro della neonatologia italiana che non convince, accusando i medici di lasciar morire i prematuri e, soprattutto, di prendere decisioni in base alle proprie ansie e non secondo scienza e coscienza. «Dietro un apparente razionale criterio di sospensione delle cure nel miglior interesse del paziente – scrive Bellieni – ci possono essere le paure e le ansie del medico stesso». Ecco la risposta della Maria Gabriella Gatti, neonatologa dell’Azienda ospedaliera universitaria senese. s.m.

Caro Osservatore Romano, in corsia non si opera mai in base alle proprie ansie e paure di Maria Gabriella Gatti

L’organizzazione sanitaria italiana è tale che se una gestante è in procinto di avere un parto pretermine, da un punto nascita periferico, viene trasportata in un centro specializzato di terzo livello dotato di terapia intensiva neonatale, dove il neonatologo è sempre presente quando nasce un prematuro. Se accade tutto rapidamente e nasce in un centro non attrezzato una ambulanza adibita al trasporto neonatale protetto con neonatologo a bordo va a prelevarlo per condurlo in una terapia intensiva neonatale. Dalla 22-23esima settimana di gestazione per l’immaturità e la scarsa autonomia del neonato sono necessarie una rianimazione e cure intensive immediate.

Sarà la vitalità del bambino a decidere per la sua sopravvivenza. A 22 settimane ci sono scarse possibilità di sopravvivere (8 per cento) generalmente di poche ore; a 23 settimane è tra il 12- 25 per cento , a 24 settimane tra il 40-60 per cento. L’incidenza di danni cerebrali gravi è elevata a 23 settimane: essi tendono a diminuire progressivamente con la crescita dell’età gestazionale. Ogni bambino ha la sua storia e i genitori devono essere informati prima della sua nascita sulle possibilità teoriche di sopravvivere e successivamente su quelle derivate da valutazioni concrete d’ordine clinico. I genitori non possono chiedere al medico di non rianimare un prematuro che ha possibilità di vita anche se incerte, non possono pretendere che vengano sospese le cure: è comunque un dovere del medico non mettere in atto un accanimento terapeutico quando il danno cerebrale documentato è grave. I centri di rianimazione neonatale sono ad alta specializzazione e si confrontano per la qualità delle tecniche e delle cure con i protocolli nazionali e internazionali: sicuramente negli anni questa dialettica ha prodotto un più veloce e progressivo miglioramento dell’intervento e dell’assistenza medica. Un medico e soprattutto un rianimatore può far intervenire le «proprie ansie e paure» quando deve intervenire sul pericolo di vita di un paziente? L’identità medica si caratterizza anche per la possibilità di mantenere un preciso assetto psicologico che garantisca il miglior rapporto con la realtà in relazione alle esigenze di una tempestiva azione terapeutica. La rianimazione neonatale richiede grande capacità di prendere decisioni in tempi brevissimi, resistenza allo stress fisico e mentale di fronte alle sollecitazioni estreme di situazioni di emergenza che possono protrarsi molto a lungo nel tempo. Il neonatologo deve mantenere la sua indipendenza di giudizio basata su specifiche competenze anche di fronte a pressioni esterne emozionalmente inadeguate e potenzialmente fuorvianti.

Left 44/2008

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Imperfetti e creativi

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 17, 2008

La prospettiva evoluzionistica e le neuroscienze, di cui molto si discute, non offrono modelli adeguati a comprendere la nascita della mente umana e il suo sviluppo. L’opinione della neonatologa Maria Gabriella Gatti
di Simona Maggiorelli



“Il nulla che unisce Dio e Darwin”. Con questo titolo Emanuele Severino sul Corsera ha affrontato alcuni temi scientifici che toccano il dibattito politico. «Per Aristotele l’embrione è “in potenza” un uomo – scrive -. Lo diventa realizzando il proprio programma (il proprio Dna). Ma prima di questa realizzazione l’uomo” non era”, era nulla». Da scienziata cosa risponde al filosofo?
Il feto è realtà materiale biologica: solo dalla 24esima settimana di gestazione se nasce ha possibilità di vita, quindi di essere. Il Nobel per la medicina Gerald Edelmann ha scritto che alla nascita vi è un rimodellamento radicale con perdita fino al 70 per cento dei neuroni preesistenti e differenziazione di nuovi: è chiaro che esiste un prima e un dopo.

Che cosa accade in questo passaggio?
Con le scoperte di Levi Montalcini e Edelmann possiamo delineare un quadro unitario dell’embriogenesi. All’inizio le popolazioni cellulari cerebrali reagiscono a fattori che promuovono le proliferazioni e le organizzazioni delle varie parti del sistema nervoso. È come se in esse fosse attivo un “automaton”, un prodursi da sé a partire da una forza biologica endogena. Le strutture nervose nello sviluppo fetale tendono a differenziarsi acquisendo unitarietà e una potenzialità sinergica fino a consentire la reazione a uno stimolo esterno nel venire alla luce.
La situazione intrauterina garantisce una forte protezione e la permanenza della corteccia cerebrale in uno stato di deconnessione funzionale. Dopo il passaggio nel canale del parto la luce è uno stimolo nuovo per il neonato: attraverso i nervi ottici l’impulso che la luce determina raggiunge la corteccia occipitale attivando tutto il cervello e i centri respiratori. Alla nascita, di fronte all’eccessiva stimolazione dell’ambiente inanimato, il bambino ha una reazione di difesa e ciò coincide con l’emergere di un’attività psichica orientata alla ricerca del rapporto con un altro essere umano. Siamo di fronte a una fantasia, a una capacità di immaginare che non ha i caratteri della coscienza e della razionalità.

Jacques Monod, in un vecchio libro, parlava di caso e necessità nello sviluppo umano. Stando alle nuove acquisizioni delle neuroscienze saremmo interamente determinati dai nostri geni?
Per Monod il caso interveniva a livello del Dna con mutazioni non prevedibili e poi esse diventavano eventualmente “necessità” cioè potevano essere trasmesse se vantaggiose. Con l’embriogenesi evoluzionistica il discorso diventa molto più complesso: si è compreso che il gene viene modulato e influenzato dall’ambiente: lo stesso gene può avere un’attività completamente diversa a seconda del contesto che ne condiziona l’espressività. L’embriologia ha chiarito che le singole cellule sono protagoniste degli eventi che portano a una certa morfologia. Il destino delle cellule è determinato da eventi epigenetici ambientali che dipendono dalla storia dello sviluppo dell’embrione, unica per ogni singola cellula. Il processo evolutivo, la selezione delle linee cellulari più adatte avviene senza un’esplicita informazione. L’evoluzione opera per selezione, come scrive Edelmann, non per istruzione. Non c’è teleologia né un programma rigidamente determinato che guidi il processo globale.

Il feto alla nascita conosce una trasformazione radicale, diventa bambino. Gli strumenti della filosofia non permettono di comprendere questo passaggio?

Discorso molto complesso, qui posso offrire qualche spunto. Alla nascita avviene una trasformazione, è l’emergenza dell’essere, cioè del pensiero umano a partire dalla realtà biologica. E il pensiero nell’uomo è intrinsecamente movimento che tende a stabilire con l’“altro”, e soprattutto con l’altro diverso da sé, un rapporto irrazionale.

Ma ancora Severino nelle sue opere scrive che il «divenir altro dell’essere» sarebbe sempre «alienazione» e «follia». Mentre essere in se stessi sarebbe «non follia».
Cosa potrebbe suggerire allora Severino? Che la follia può scaturire dalla relazione fra un uomo e una donna in quanto in questo tipo di rapporto si può determinare una “alienazione”, una perdita dell’immagine? Però, come esiste il rischio della follia, nella dialettica fra uomo e donna esiste anche la possibilità di un movimento creativo che va verso la realizzazione di un’identità e sanità mentale.

Edoardo Boncinelli, a BergamoScienza e altrove, ha parlato dell’importanza della dimensione collettiva per lo sviluppo umano. La società, dice il genetista, cambia gli individui a livello biologico e mentale. Ma per lui il bambino avrebbe tutto da imparare dagli adulti, quasi fosse una tavoletta di cera. Che cosa c’è di vero?
Boncinelli, in effetti, ha scritto che alla nascita nessuno di noi «è figlio del suo tempo e forse non è neppure un uomo. A 3 anni è certamente un essere umano, a 5 -6 è figlio del suo tempo ma con molto da imparare». Sembra dire insomma, e con poche varianti da Aristotele, che la ragione costituisce l’identità umana. Per lui la dimensione collettiva è sinonimo di organizzazione cosciente della società. Ma non si può parlare di collettivo se non si parla prima di individuo e di quella realtà interiore che originariamente dà all’uomo l’identità umana e lo orienta verso il rapporto con gli altri. La nostra socialità affonda le radici nel mondo irrazionale del primo anno di vita. Il collettivo sicuramente è fondamentale perché è l’ambito in cui ciascuno di noi ha la possibilità di cimentare e sviluppare la propria identità.
Penso comunque che Boncinelli parli di “collettivo” a partire da un costrutto biologico. È risaputo che la formazione delle mappe cerebrali è fortemente influenzata dall’ambiente. Edelmann ha evidenziato che nell’adulto, anche quando si sono costituiti gli elementi principali della neuroanatomia, i confini delle mappe corticali possono cambiare radicalmente a seconda degli stimoli ambientali. Questa capacità in parte plastica in parte rigenerativa si ferma solo con la morte. È riduttivo pensare che le influenze sociali sull’individuo siano relative all’apprendimento passivo della cultura del proprio tempo. Rita Levi Montalcini nel suo Elogio all’imperfezione scrive che gli insetti sono perfetti: in quanto tali non necessitano di mutazioni rimanendo invariati da milioni di anni . Gli esseri umani sono “imperfetti” e perciò soggetti a cambiamenti. è probabile che la nostra “imperfezione” abbia portato all’emergenza di quelle caratteristiche esclusivamente umane: la fantasia e la creatività che si nutrono sostanzialmente di rapporti.

In quanto esseri umani, diversamente dagli animali, siamo in larga parte irrazionali. A dirlo è sempre Boncinelli. Ma poi il genetista aggiunge che ciò che resta da indagare è la coscienza. Un paradosso?
Boncinelli si rifà alle tesi del neuroscienziato Michel Gazzaniga quando dice che il 98 per cento dell’attività cerebrale è inconscia. La coscienza arriverebbe sempre in ritardo (50 millesimi di secondo) a ratificare percezioni, decisioni e movimenti. Nelle neuroscienze per inconscio s’intende perlopiù il complesso degli automatismi neuronali non una specifica forma e contenuto di pensiero che, invece, dovremmo chiamare irrazionale. Abbiamo visto che Boncinelli non considera un essere umano il neonato che vive in una dimensione irrazionale. Anche in Edelmann, del resto, il termine inconscio o rimanda a Freud o viene usato in senso solo descrittivo.
Nelle neuroscienze i concetti di inconscio e di coscienza non sono univocamente definiti rimanendo sottoposti a grandi fluttuazioni di significato a seconda degli autori.

È il caso anche del filosofo Daniel Dennett, ospite molto atteso il 16 ottobre del festival BergamoScienze.
L’autore del best seller Sweet dreams ( Raffaello Cortina) giunge addirittura a negare che esista una coscienza come un insieme di qualità soggettivamente vissute. La mente umana sarebbe il risultato dell’attività meccanica di una sorta di super computer totalmente inconsapevole, come potrebbe essere uno “zombie”.

Nel frattempo, lo scienziato inglese Steve Jones, sostiene che per gli esseri umani non ci sarà più evoluzione. Che ne pensa?
Se l’evoluzione è andata avanti per milioni di anni non si capisce perché e in virtù di che cosa si dovrebbe arrestare a un certo momento. L’evoluzione umana è anche culturale e non segue totalmente le leggi della selezione naturale pur inquadrandosi in un contesto biologico. Lo stesso Edelmann afferma che la struttura del cervello di due gemelli omozigoti già in utero è completamente diversa e ancor di più lo sarà dopo la nascita. Questa diversità “epigenetica” potrebbe influenzare le mutazioni e quindi l’evoluzione futura. Edelmann come altri neuroscienziati ha rivolto la sua ricerca allo studio della coscienza in quanto epifenomeno dell’evoluzione: alla coscienza mirerebbe sia la variabilità sia dell’ontogenesi che della filogenesi, ovvero dello sviluppo dell’embrione e della storia della specie nel tempo. Non hanno colto qual era la specificità umana che rende possibile il progresso evolutivo, hanno collegato la variabilità delle mappe cerebrali al di fuori della regolazione genomica diretta a possibilità adattive e coscienti e non alle possibilità del pensiero irrazionale proprio degli esseri umani.

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Un sì per chi viene alla luce

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 7, 2005

di Gabriella Gatti, docente di neonatologia e psicoterapeuta, Università di Siena

Qualunque tentativo di considerare l’embrione come persona giuridica fa riferimento implicito alla norma fondamentale del diritto naturale, cioè il diritto alla vita. In prima istanza il diritto dell’embrione come persona sarebbe diritto alla vita: non a caso nell’ideologia cattolica l’aborto viene spesso equiparato all’assassinio. La discussione sulla legittimità dell’assenso alla abrogazione è chiaro porta alla inevitabilità di definire il concetto stesso di vita. L’onere di questa definizione tradizionalmente demandata ai filosofi sicuramente spetta anche al medico, nella fattispecie al neonatologo che ha un punto di osservazione molto particolare e privilegiato. La scienza moderna si è sviluppata nel senso che la biologia si è dotata di uno statuto scientifico autonomo. Nel termine stesso di Biologia c’è questo legame fra il Bios ed il Logos è ciò esprime l’idea di un’indagine razionale, condotta con metodiche della scienza sperimentale su gli organismi viventi la cui esistenza si basa su leggi che sono le stesse che regolano il funzionamento del corpo umano. Si potrebbe dire che la biologia considera la vita nei suoi aspetti più generali arrestandosi però di fronte a quello che per secoli è stato un enigma: la specificità della vita umana. Nella misura in cui il biologo, medico o ricercatore che sia, cerchi di risolvere l’enigma con la razionalità egli va incontro ad un riduzionismo biologico così come coloro che prescindono dai risultati acquisiti dalla scienza cadono in uno spiritualismo astratto. Questa antinomia caratterizza lo stato attuale della discussione su ciò che va considerato specificamente umano. Il neonatologo parte da precise conoscenze biologiche ed osservazioni cliniche.

Le conoscenze biologiche sono quelle dell’embriologia umana che considera lo sviluppo iniziale del feto come un moltiplicarsi iniziale di cellule indifferenziate. L’esperienza clinica sui parti prematuri indica che solo a partire dalla 24ª settimana il feto ha una possibilità di vita autonoma. Precedentemente a questa data non c’è nessuna possibilità di sopravvivenza. Quindi si potrebbe pensare che c’è un momento preciso a partire dal quale più che di vita si possa parlare di una potenzialità di vita. Perché è ovvio per il medico neonatologo che si può considerare vivo il bambino solo alla nascita… Nessun cattolico d’altronde battezza un feto pur considerando vita un embrione, né peraltro viene battezzato un feto morto: nel Medioevo esistevano luoghi consacrati all’osservazione dei bambini nell’attesa di movimenti, a volte solo cadaverici, che potessero consentire la somministrazione del sacramento e la sepoltura in luogo consacrato. Il neonatologo non si limita a considerare la vita generica, che è quella della cellula e degli organismi scarsamente differenziati, ma si spinge a individuare lo specifico della vita umana. a partire da quel momento in cui lo sviluppo morfologico e funzionale del feto è tale da permettere una nascita e non solo un prodotto abortivo.

Questo momento coincide con una maturazione corticale che rende possibili i processi primari aspecifici della sensibilità e lo strutturarsi di riflessi fra cui quello quello pupillare alla luce. Come non ricordare che nel famoso film “Blade runner” al replicante non umano mancava proprio questo riflesso? L’osservazione clinica del neonatologo mette in discussione quindi l’idea astratta di vita che prescinde dallo sviluppo biologico ed embriologico per contraddire la conclusione che è “vita” la morula come è “vita” il neonato. Questa conclusione, erronea, inficiata da un presupposto spiritualistico, postula un “continuità” della vita umana che una volta instauratasi avrebbe sempre lo stesso valore e significato. La neonatologia, basandosi sulla ricerca medica e quindi anche psichiatrica, parte dall’idea che lo sviluppo della vita fetale, a partire da un preciso momento, può, sotto l’influenza di stimolazioni specifiche fra cui quelle cutanee e della luce, che studi neurofisiologici, come quelli di Wiesel considerano fondamentali per l’inizio della maturazione corticale, andare incontro ad una trasformazione. Se noi consideriamo la vita neonatale non solo sotto il profilo del “bios” e del “logos” potremmo poi spingerci a presupporre alla nascita l’attivarsi un pensiero alogico, irrazionale come matrice comune della vita mentale di tutti gli esseri umani. Avvenimenti

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