Rivoluzionario e a lungo incompreso, l’autore di Woyzeck è al centro di convegni e incontri per il bicentenario dalla nascita. Non solo in Germania. In Italia si segnalano in particolare un ciclo di incontri alla Casa di Goethe a Roma e di due nuove monografie
di Simona Maggiorelli
Strano destino quello di Georg Büchner (1813 – 1837), medico, drammaturgo e scrittore dalla vita brevissima, autore di opere frammentarie quanto folgoranti, come il racconto Lenz (Adelphi), e di drammi visionari come Woyzeck (Marsilio) che solo dopo molti anni dalla prematura scomparsa dell’autore ha avuto un degno riconoscimento, entrando stabilmente nei repertori teatrali. In questo autunno in cui si ricordano i duecento anni dalla nascita di questo rivoluzionario scrittore tantissimi sono gli incontri e le occasioni di studio della sua opera. Non solo in Germania. Alla Casa di Goethe a Roma, diretta da Maria Gazzetti, un convegno e un ciclo di lezioni (che proseguono fino a gennaio) permettono di approfondire i testi di Büchner, sotto una molteplicità di aspetti. A cominciare dal rapporto fra le sue opere e la musica, affrontato dal musicologo Claudio Rostagno analizzando il lavoro di Alban Berg nel mettere in musica il Woyzeck. Per arrivare poi al rapporto fra Büchner e le arti visive, con una conferenza dello storico dell’arte Claudio Zambianchi il 29 gennaio che prenderà in esame alcune incisioni di Chagall e lo spettacolo dell’artista sudafricano William Kentridge Woyzeck on the Highveld (2008).
Appassionato di pittura fiamminga e delle sue scene di vita quotidiana (che appaiono ricreate in alcune pagine del racconto Lenz) Georg Büchner scriveva nelle lettere di amarne il gusto per la nuda verità e anche le asprezze, mentre l’armonia delle forme classiche e l’opulenza del rinascimento italiano lo lasciavano piuttosto indifferente. E una appassionata e a tratti quasi disperata ricerca della verità storica e umana è il filo rosso che lega tutta la sua breve ma intensa produzione letteraria, dal pamphlet politico Il messaggero dell’Assia, in cui incitava alla rivolta i contadini tedeschi, sfruttati e ridotti in miseria, fino a Woyzeck, la sua ultima opera ispirata a un fatto di cronaca nera: la condanna a morte del soldato Franz Woyzeck, colpevole di aver ucciso “per gelosia” la propria compagna.
Come già in Lenz, che con prosa onirica e potente racconta lo sprofondare nella pazzia del poeta Jacob M.R. Lenz (1751 – 1792), nel testo teatrale Woyzeck, il giovane medico Büchner cerca di afferrare che cosa si agita nel profondo di questo fragile soldato vessato dai superiori che alla fine diventa un assassino, tentando una comprensione poetica, “intuitiva”, del suo delirio. Per arrivare poi a fare di Woyzeck il simbolo di un’intera generazione disadattata nella oppressiva Germania della restaurazione. Come ricostruisce Barnaba Maj nella monografia Georg Büchner da poco uscita per Ediesse, Büchner, che aveva studiato a fondo la rivoluzione francese, era un giacobino che faceva attività politica clandestina convinto che una maggiore giustizia sociale potesse venire solo dalla sollevazione delle masse e non da una rivoluzione borghese. E se il linguaggio del suo Messaggero dell’Assia, come nota la germanista Vanda Perretta curatrice della buchneriana alla Casa di Goethe, «era ancora rigido e retorico, rispetto invece alla ricchezza icastica che nel 1848 sfoderò Marx, fin dall’incipit, nel Manifesto del partito comunista», in opere come La morte di Danton l’analisi politica e il linguaggio di Büchner si affinano fino a fare del teatro un penetrante strumento di indagine della storia e delle radici della violenza, facendo splendere le ragioni rivoluzionarie ma al tempo stesso scandagliandone il tragico naufragio nel terrore. Il linguaggio onirico ed evocativo, lo stile anti classico, il pathos che trasmettono le opere di Büchner furono la cifra della sua inattualità nel suo tempo, nota Simone Furlani nel saggio Arte e realtà. L’estetica di Georg Büchner (Forum editrice, 2013), ma furono anche la chiave della sua fortuna postuma.
Agli inizi del Novecento furono gli espressionisti per primi a riconoscerne il valore e ad apprezzare il “realismo visionario” della sua prosa, comprendendo che le sue deformazioni della realtà permettevano di vedere al di là delle apparenze, la realtà più profonda dei rapporti umani. E non si trattò per lui solo di una inconscia e geniale scelta artistica. Consapevolmente Büchner aveva preso le distanze dall’idealismo di Schiller e di Goethe, come appare evidente dalle sue lettere. D’altro canto, diversamente dai romantici, Büchner non inseguiva la purezza delle origini e non cercava consolazione nello spiritualismo e nella religione. («La Chiesa di pietra» e suoi dogmi saranno spesso oggetto dei suoi strali). E forse è stata questa sua originale complessità, che sfugge ad ogni facile etichetta, a regalare lunga vita alle sue opere che da Max Reinhardt a Werner Herzog a Bob Wilson continuano a trovare sempre nuovi allestimenti e trasposizioni.
dal settimanale Left-Avvenimenti



Cercando di fare capolino oltre la cronaca più spiccia. Oltre lo stillicidio di notizie che, a singhiozzo, dopo i giorni feroci del saccheggio sono comparse sui giornali. Puntando a ricostruire passo dopo passo la storia di uno dei più importanti musei dell’area dell’antica Mesopotamia: il museo di Baghdad. Dalla nascita nel 1923 sotto l’egida degli inglesi, alla nazionalizzazione del 1974, ai saccheggi avvenuti durante la Guerra del Golfo, fino al clamoroso sfascio dei primi giorni del dopo Saddam.
E fu questo rapporto continuo, diffuso, capillare, a lasciare i segni più duraturi nella cultura veneziana, quella popolare delle feste del santo in cui si mettevano tappeti orientali ai terrazzi e quella alta delle tradizione pittorica di maestri come i Bellini che gettarono le basi per quel vibrante colorismo che sarebbe diventato la cifra più propria e conosciuta della pittura veneta. E questo grazie all’impiego di pigmenti tipici delle miniature orientali. Un ampliamento della tavolozza ottenuta con i blu Oltremare, con l’indaco, l’azzurrite, il cinabro, le polveri d’oro e d’argento che arrivavano con le altre merci importate dai mercanti, ma che nei pittori del Quattrocento fu accompagnato anche da un mutamento di stile e di iconografia. Per la prima volta nella pittura italiana cominciarono a comparire immagini di orientali. Nelle tele di Bellini e di Carpaccio, un fiorire di turbanti e abiti di foggia araba. E poi storie di santi, come il celebre San Marco di Tintoretto rappresentato nell’atto di salvare un Saraceno. E se nella pittura rinascimentale furono soprattutto rappresentazioni dell’altro come soggetto battuto e sconfitto, non mancano esempi di altissima levatura artistica che testimoniano di un confronto culturale libero con l’Islam. Basta pensare a quel capolavoro di Giorgione che è la tela intitolata I tre filosofi, in cui, fra un vecchio dalla barba bianca e un ragazzo, spicca la figura di un uomo giovane e dall’aspetto fiero nel quale molti storici dell’arte hanno ravvisato un ritratto del filosofo Averroè.