Alighiero Boetti, uno, nessuno, centomila. Artista imprendibile, sempre in fuga, dall’eredità accademica, dalle convenzioni normalizzanti, dal proprio passato familiare e borghese, ma anche dalla cultura europea che gli sembrava ormai troppo asfittica e autocentrata.
Per questo, dopo esordi nell’ambito dell’Arte Povera a Torino tra il 1966 e il 1968 e dopo alcuni viaggi a Parigi e a New York, Aligiero Boetti decise di prendere il largo, puntando decisamente ad Oriente. Come facevano, è vero, molti giovani della sua generazione negli anni Settanta.
Ma, invece di imbarcarsi in improbabili tour “alla ricerca di se stesso”, si cimentò in imprese alquanto insolite: come realizzare cartine che denunciavano le mappe del potere, ricamandole ad una ad una, secondo antiche tecniche di tessitura afgane oppure aprire un albergo in un quartiere popolare di Kabul. Si chiamava One hotel ed era il luogo “segreto” in cui l’artista piemontese ospitava amici da ogni parte del mondo.
Nelle vicende turbolente e dolorose che la capitale afgana ha subito nel corso di molte e sciagurate occupazioni militari, russe e americane, si sono perse le tracce di quel luogo diventato nei racconti quasi leggendario. Al punto da affascinare anche un giovane artista nato in America Latina e cresciuto in una tradizione culturale quanto mai lontana da quella di Boetti
. Classe 1975, originario di Monclova in Messico, Mario Garcia Torres è da sempre interessato allo studio dei processi creativi e alla ricostruzione della genesi di opere che hanno fatto la storia delle avanguardie del secolo scorso. Per questo si è messo sulle tracce di quel singolare albergo, di cui restava solo una foto in bianco e nero della facciata. Con piglio da detective intenzionato a ricostruire pagine di vita vissuta a partire da rari elementi indiziari, Garcia Torres si è trasferito a sua volta in Afghanistan, continuando a far ricerche per più di otto anni. Il suo lavoro è ora distillato in un intenso filmato che si può vedere al Museo Madre di Napoli.
Fino al 30 settembre è il perno, il cuore vivo e pulsante, della prima personale italiana di Mario Garcia Torres e intitolata La lezione di Boetti (alla ricerca di One Hotel). In sequenze lentissime, quanto poetiche, scorrono filmini anni Settanta, fotografie, frammenti d’epoca che ci raccontano di una Kabul che si poteva attraversare in bicicletta, dove le donne non erano fantasmi, dove i commerci e la vita quotidiana crescevano a pieno ritmo.
Sono immagini registrate prima dell’invasione sovietica del 1979 e che ci restituiscono qualcosa di quelle atmosfere cittadine che probabilmente stregarono Alighiero Boetti quando arrivò nella capitale afgana. Era la primavera del 1971 quando l’artista torinese vi giunse per la prima volta. Poi sarebbe tornato a settembre accompagnato dalla moglie Annemarie: «Nella sua valigia c’era una tela di lino bianco su cui era disegnato il planisfero mondiale e indicate le forme e i colori delle bandiere nazionali secondo lo schema inventato nel Planisfero politico un paio di anni prima» racconta Luca Cerizza nel libro Le mappe di Alighiero e Boetti (Electa). E lungo quelle mappe del cuore, fra storia e fantasia, ha saputo muoversi quasi per incanto Mario Garcia Torres. (Simona Maggiorelli)
dal settimanale Left-avvenimenti




Al Museo Madre di Napoli, fino a maggio, la mostra curata da Abo racconta l’avventura artistica di Alighiero Boetti, fra Oriente e Occidente. Convinto che la creatività potesse essere una qualità diffusa “Se l’artista ha capacità di immaginare – diceva – solo l’artigiano può realizzare l’opera”
Aristocraticamente l’artista torinese riservava per sé l’ideazione, la capacità di immaginare liberamente opere che prendevano forme diverse: sculture di tubi Innocenti, tappeti, arazzi, miniature postali, legni, biro, inchiostri, chine. Per Alighiero, che dal 1969, come si diceva, decise di sdoppiarsi in Alighiero e Boetti, l’oggetto d’arte era il crocevia dove si condensavano nessi inediti, rompendo l’inerzia della normalità. Ma il processo creativo non era per lui un privilegio di pochi. Ma un processo collettivo a cui servono più mani, quelle dell’artista e quelle di altri. Opere emblema di questo suo modo di concepire l’arte sono le gigantesche mappe del mondo che sulle pareti del Madre tracciano una geopolitica in colori brillanti, tessute meticolosamente a mano da donne e uomini afgani, depositari di una tradizione antica. Mappe che rivestono Paesi e continenti con le forme e i colori delle bandiere nazionali, ma anche mappe fantastiche in cui i continenti galleggiano in un mare rosa mentre scritte in varie lingue sul bordo evocano le iscrizioni immaginifiche di antichi portolani. Nel catalogo Electa che accompagna la mostra, Pino Corrias riallaccia i fili di questa ideazione, tessendo a sua volta un racconto fantastico lungo i rami della famiglia Boetti: da un lato la madre, che confezionava corredi ricamati alle fanciulle da marito nella Torino degli anni Cinquanta. Dall’altra l’antenato con cui Alì-Ghiero si identificava: un frate guerrigliero, che alla metà del Settecento lasciò il Monferrato per andare in Mesopotamia e finì per convertirsi all’esoterismo islamico. Un bizzarro personaggio con cui Boetti condivideva in primis la passione per il viaggio. E se la serie di cartoline immaginarie spedite dagli angoli più lontani del mondo e che fino all’11 naggio tappezzano le pareti del Madre ci raccontano della suo continuo leggere l’Occidente da Oriente e viceversa, l’autoritratto in bronzo, nel cortile, si staglia come l’opera testamento. Una strana e un po’ inquietante premonizione di artista. Poco tempo dopo Alighiero Boetti sarebbe morto di tumore ai polmoni. Il suo ultimo sogno fu che le sue ceneri fossero sparse nelle acque blu dei laghi dell’Afghanistan.