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Archive for settembre 2009

La “leggerezza” di Stefano Arienti

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 12, 2009

di Simona Maggiorelli

Stefano Arienti, Mantova

Stefano Arienti, Mantova

Opere grafiche diafane, “leggere” in punta di penna, realizzate facendo emergere in trama un’immagina latente e nascosta. Oppure sculture “organiche” che sembrano crescere e mutare negli ambienti per i quali sono state pensate, abitando gli spazi come gramigna buona, tenace e capace di apportare nuova linfa creativa in freddi hangar metropolitani ma anche in antichi palazzi.

Tanto che alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, con la mostra Disegni dismessi, si aveva quasi la sensazione che le installazioni di Stefano Arienti fossero nate in quegli stessi spazi lagunari, incarnandone al massimo grado il genius loci. Ora, invece, per entrare in risonanza con le sale affrescate di Palazzo Ducale a Mantova, dove fino a gennaio è ospitata una sua importante retrospettiva, Arienti ha scelto di raccogliere e di rielaborare ad hoc opere dal carattere più giocoso, fantasmagorie di animali e piante, che dialogano su un registro di bizzarria e di “maraviglia” con le paganeggianti decorazioni delle stanze ducali.

Accompagnata non da un catalogo transeunte ma da un vero e proprio libro che ripercorre la carriera del quarantenne artista lombardo, l’antologica curata da Filippo Trevisani Arienti. Arte in-percettibile (edito da Electa, foto di F. Scianna) sottolinea l’originalità della poetica di questo artista autodidatta, che viene dal mondo della scienza e si è innamorato dell’arte d’avanguardia attraverso i suoi riverberi nel rock e nella musica colta contemporanea. Un artista che, fuori dal clamore delle provocazioni più di moda, ha scelto di seguire la propria curiosità e un proprio filo di ricerca. Anche quando poteva apparire desueto e fuori moda. Così l’infanzia trascorsa in campagna, i ritmi di vita contadini entrano nelle sue opere come solarità, silenzio, spazi aperti e una metamorfosi continua dei materiali naturali e grezzi.

Canape, legni, resti di alberi, impronte lasciate da umani sulla terra o mani dipinte sulla pietra sono le “le parole” e i segni con cui, fin dagli esordi, Arienti declina il suo personalissimo vocabolario d’artista. Un linguaggio che come lui stesso dice a Trevisani nel libro «non appartiene alla tradizione spiritualista o idealista che ci separa dalla materia». «Per me – aggiunge – anche le opere d’arte sono degli organismi viventi con una loro vita indipendente dal loro autore».

left-avvenimenti 11 settembre 2009

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La vis imaginativa di un maestro

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 5, 2009


Due saggi indagano il non finito in Michelangelo e la potenza del suo “occhio interiore”

di Simona Maggiorelli

Michelangelo,_battaglia_dei_centauri,_casa_buonarroti

Michelangelo, Centauromachia

La potenza dei Prigioni di Michelangelo che sembrano emergere dalla pietra grezza con uno sforzo sovrumano è al centro del nuovo lavoro Isabelle Miller Capolavori incompiuti, da poco uscito in Italia per l’editore Angelo Colla. Un saggio in cui si analizza il fascino dell’imperfetto e quel certo modo di fare arte che lascia trasparire la tensione creativa piuttosto che il dettaglio analitico e le rifiniture.

Nei bozzetti di Canova, nelle sculture incompiute di Rodin oppure nei bassorilievi in creta di Lucio Fontana si percepisce il divenire dell’opera, quasi potesse restare aperta a ulteriori significati e assorbire col tempo nuove sfumature attraversando temperie culturali diverse. Una qualità del “non finito” di durare e “ricrearsi” nella storia che Michelangelo intuì giovanissimo. Facendone la chiave della sua Centauromachia, conservata in Casa Buonarroti a Firenze.  Un bassorilievo che gli studiosi hanno spesso considerato immaturo per certi “difetti”, che farebbero sospettare una non perfetta padronanza delle proporzioni nell’anatomia dei corpi e della prospettiva geometrica. Del resto, come ricorda Forcellino in Michelangelo. Una vita inquieta (Laterza), quando riprese il tema della lotta dei centauri da fonti dantesche e, su suggerimento del Poliziano, dalle Metamorfosi di Ovidio era un diciassettenne che si era appena affrancato dalla bottega del Ghirlandaio grazie a Lorenzo de’ Medici che, intuendone il talento, l’aveva voluto fra gli intellettuali umanisti che frequentavano il suo giardino di corte. Sta di fatto, però, come notano Sergio Risaliti e Francesco Vossilla in Michelangelo. La zuffa dei centauri (Electa), «un lunare e nascosto Michelangelo intervenne più volte con gli scalpelli a perfezionare quell’immagine di tumulto», senza che il rilievo ricevesse mai l’ultima mano. Secondo la tesi dei due autori, l’artista era ben consapevole del valore di quel lavoro e con gli scalpelli, e poi, settantenne con l’aiuto del biografo ufficiale, Ascanio Condivi, «riuscì in un’altra impresa: far credere che la Zuffa dei centauri fosse perfetta prima del 1492». Come opera di un talento precoce e geniale. Ma a ben vedere Michelangelo non aveva bisogno di apologia.

La genialità dell’opera stava già nel fatto che avesse ripreso il tema caro all’Umanesimo liberamente, senza lasciarsi imbrigliare dal valore allegorico di vittoria della ragione sugli istinti. Al «bulicame» dei centauri di dantesca memoria sostituì figure dalla bellezza quasi greca (aspetto che accentuerà dopo il ritrovamento del Laocoonte). E non ebbe timore di usare quelle deformazioni che, in una visione di insieme, gli permisero di rendere il senso di un corpo umano in movimento nello spazio. Con la Centauromachia era già fuori dalla perfezione bidimensionale di Botticelli. Inoltre, come suggeriscono Risaliti e Vossilla in questo loro breve e affascinante saggio, Michelangelo rilegge la lezione leonardiana dello sfumato in chiave plastica, riuscendo a dare profondità e ombre al bassorilievo. Al tempo stesso, abbandonando lo schema di piani parelleli tipico dello stiacciato di Donatello, riesce a costruire una molteplicità di punti di vista che nel non finito lasciano aperta la porta della fantasia. Per dare una spazialità interna all’opera, poi, non usa la cauta raspa, ma la grandina e lo scalpello fino alla pelle del marmo, sapendosi fermare prima della rottura. «La capacità molto precoce di Michelangelo – scrive Forcellino – era quella di vedere il marmo nella sua tridimensionalità, indipendentemente dal disegno che si può tracciare sulla sua superficie». Il marchigiano Condivi già scriveva nel 1553 della «potentissima vis imaginativa» del maestro. La forza espressiva della Centauromachia era già tutta nell’immagine interiore dell’artista. La rappresentazione così emergeva dalla pietra viva e reale, nelle sue linee essenziali. E non c’era alcun bisogno di completare le parti scabre.

da left-avvenimenti 4 settembre 2009

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