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I graffiti urbani di #TitinaMaselli

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 12, 2015

Titina Maselli

Titina Maselli

L’artista che anticipò la street art, raccontata in un bel libro di Sabina De Gregori

Forte, estrosa, anticonformista. Titina Maselli (1924-2005) aveva un segno deciso e amava il colore. E lo usava senza timidezze. I suoi quadri, eredi del dinamismo di Giacomo Balla e degli esperimenti cinetici di Bragaglia, nascono all’incrocio fra astratto e figurativo, scanditi dal ritmo di linee blu elettrico, viola, rosse, gialle. Che l’artista spesso tracciava su tele stese per terra, alla Pollock, ma usando un pennello fissato ad un bastone come faceva Matisse.

Nascono così i suoi notturni urbani, grattacieli, strade come linee vitali dove, giorno e notte, scorre la vita. E poi i suoi quadri più leggeri, che evocano sagome di pugili, calciatori, icone popolari, con un linguaggio grafico d’avanguardia.

Attraverso le testimonianze di scrittori, artisti e amici della pittrice e scenografa romana, Sabina de Gregori ne racconta l’arte e la vita nel libro Titina Maselli, autoritratto involontario di una grande artista (Castelvecchi) mettendone in luce la cifra personale e insofferente verso tutte le etichette, il coraggio nel seguire il proprio “istinto”. Associata spesso alla scuola romana di piazza del Popolo, Maselli fu molto vicina a Tano Festa, Mimmo Rotella e Mario Schifano ma non fu mai organica al gruppo.

Titina Maselli

Titina Maselli

Inquieta e indipendente, fin da piccola, insieme al fratello, il regista Citto Maselli, era stata spinta a studiare arte dal padre Ercole, critico militante, antifascista, che si occupava di metafisica e tonalismo; filoni che lei vedeva già antiquati. Nella casa di famiglia frequentata da intellettuali come Emilio Cecchi, Luigi e Fausto Pirandello, Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e Alberto Savinio, Titina sviluppò uno spirito cosmopolita, progressista e allergico alla Roma più provinciale e da cartolina.

Più che il glorioso passato della capitale o le sue antiche vedute, intuendo il cambiamento, già alla fine degli anni Quaranta cercava segni contemporanei e metropolitani. Anche per questo decise di trasferirsi a New York, dopo due anni di matrimonio con Toti Scialoja (che il museo Macro di Roma ricorda fino al 6 settembre 2015 con la mostra 100 Scialoja, azione e pensiero). Negli Stati Uniti osservò, curiosa, la nascente Pop art ma senza lasciarsi trascinare dalla moda.

Ciò che più le interessava era riuscire a catturare il flusso vitale, i campi di tensione che animano il paesaggio urbano, le dinamiche umane che plasmano il volto della città. Non usa il disegno, ma ci prova con un uso espressivo del colore, anti realistico. «Il suo segno-colore contiene un implicito accento gestuale ma soprattutto, assume nelle sue opere una intensità visionaria», scrive De Gregori (già autrice di monografie su Banksy e Obey), come accade appunto nella migliore street art quando potenti graffiti riescono ad accendere gli angoli più bui delle nostre città. (Simona Maggiorelli, Left)

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Fuori dall’euforia della pop art

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su aprile 10, 2009

A tre anni dalla sua scomparsa una monografia curata da Fabrizio D’Amico invita a rileggere l’opera di Mimmo Rotella

di Simona Maggiorelli

mimmoLa reazione all’informale alla sua furia iconoclasta e nihilista, sfociata nel “suicidio” di artisti come Pollock, negli anni Sessanta fu fortissima.Ma se l’arte povera cercò una via di uscita da quel caos attraverso un nuovo e più intimo rapporto con la realtà, la pop art annullò ogni tormento con l’euforia di immagini cartellonistiche e piatte. Sulla lacerazione non sanata e non ricomposta di Rothko, di Stella e degli artisti che animarono la cosiddetta scuola di New York, Warhol e compagni stesero una mano di sgargiante vernice: Marylin in serigrafia accanto a una gigantografia di una lattina di zuppa; frammenti di realtà quotidiana riprodotti in una cartellonistica seriale. Con la pop art l’immagine si fa piatta e indifferente. Ma se la Biennale di Venezia  del 1964 segnò anche in Europa l’affermazione del pensiero unico di Warhol, con una profusione di opere che isolano oggetti e merci per farne dei feticci, delle icone, dei totem, il filone italiano che ne fu più influenzato non può essere ascritto tout court a quella tendenza di riduzione al grado zero della creatività.

Pensiamo, in questo caso, all’opera di un artista come Mimmo Rotella che – a tre anni dalla sua scomparsa- una monografia curata da Fabrizio D’Amico (Rotella, disegni, Umberto Allemandi editore) invita a rileggere, prestando particolare attenzione alla sua ricca attività di disegnatore.

Accanto all’immagine più nota dell’artista romano, fantasioso compositore di quadri con la tecnica del décollage, emerge così anche un suo tratto più intimo che si esprime in tavole colorate di vaga ispirazione picassiana e in disegni e bozzetti: nel corso del tempo, via via sempre più stilizzati, specie quando si tratta di ritratti di persone e nudi di donna. Con tutta evidenza, già negli anni Settanta, Rotella era del tutto fuori dalla celebrazione del trionfo della merce tipica di Lichtenstein, Johns, Dine, per quanto ironica fosse verso i meccanismi del consumismo e della società di massa.

Dopo l’informale e l’insana vertigine di una perdita totale del rapporto con la realtà, la strada scelta da Rotella non sarà quella di riprodurla anche se in termini polemici e corrosivi. Se qualcosa mutua dall’arte americana è piuttosto lo stile combinatorio del new dada alla Rauschenberg. Ma anche in questo caso il suo riuso di lacerti di realtà, cartelloni strappati e locandine del cinema, non mira banalmente allo scenografico. Quelle immagini rovinate e strappate diventano per Rotella il vocabolario con cui creare un sua visione del mondo. «Per strada mi colpirono alcuni muri tappezzati di affissi lacerati- raccontava lui stesso-. Mi affascinavano letteralmente, anche perché pensavo allora che la pittura era finita e che bisognava scoprire qualcosa di nuovo, di vivo e di attuale. Sicché la sera cominciavo a lacerare questi manifesti, a strapparli dai muri e li portavo a studio… componendoli in immagini nuove».

da left Avvenimenti 24 aprile 2009

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Dora Maar, Kiki e le altre

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su Maggio 20, 2006

Shirin Neshat

Shirin Neshat

Immagini di donna, ritratti, rappresentazioni, ma poi anche scatti, installazioni, videoclip. Nel quattrocentesco castello di Vigevano, più di duecento opere di centocinquanta artisti, dalle avanguardie storiche ad oggi per raccontare le molteplici trasformazioni dell’immagine femminile nei linguaggi della pittura, della scultura e della fotografia. Passando dalle Salomé e dalle numerosi varianti di “Giuditta” dipinte di Klimt. Per arrivare , nella sezione italiana, alle più posate fidanzate e spose, alla madre di Boccioni, alle “invasate” di Sagantini e alle altre maschere ottocentesche. Per arrivare poi, finalmente, alla grande svolta degli anni dieci del novecento, con le oniriche deformazioni di Matisse e le folgoranti scomposizioni di Picasso, che non si accontenta dell’immagine da cartolina di una bella donna, come la bruna Dora Maar, ma scomponendo la figura, punta a raccontare su tela quell’emozione, quella traccia intima, che resta, al fondo, dopo un rapporto. Poi però quella ricerca di una rappresentazione che non sia solo mimesis, che non sia fotografia e calco, sembra arrestarsi. Negli anni Sessanta, lo stordimento delle euforiche icone pop di Warhol.

Le immagini fumettistiche e plastificate degli epigoni come Tom Wesselmann. Che si appiattiscono sulla raffigurazione fumettistica della donna come oggetto. Su questa linea si colloca anche la Marylin strappata di un décollage di Mimmo Rotella, per quanto meno arida delle seriali versioni pop made in Usa.

Vanessa Beecroft

Vanessa Beecroft

E oggi? Ad essere etichettato come nuovo è il modo di rappresentare la donna che pesca nelle immagini patinate della moda. I riflettori illuminano l’atonia delle seriali donne manichino della più giovane e celebrata delle artiste italiane, Vanessa Beecroft, che rende tangibile l’invisibile violenza esercitata sulle donne con l’esibizione di magrezze impossibili e volti immobili, cerei, che esibiscono una totale anestesia psicologica.
Proposte, più morbide e vitali, vengono da artiste oggi trenta-quarantenni che mescolano i linguaggi – pittura, fotografia e video – per raccontare un punto di vista femminile inquieto, complesso, contemporaneo: dalle poesie visive di Monica Banfo alle eleganti calligrafie su pelle dell’iraniana Shirin Neshat, fino alle appassionate videoperformances della slovena Marina Abramovic.
Il critico d’arte Luca Beatrice le ha radunate tutte fra le mura di questo spettacolare castello alle porte di Pavia, disseminandole nelle scuderie, nelle logge, nella torre del Bramante, nella strada coperta che conduceva alle stanze private di Ludovico il Moro. Dal 20 maggio al 30 luglio 2006 formano l’intrigante corpus della mostra La donna oggetto. Miti e metamorfosi al femminile 1900-2005, un progetto ambizioso in cui Beatrice si propone, con la complicità di Beatrice Buscaroli, Massimo Sciaccaluga e Laura Carcano (responsabili di altrettante sezioni della mostra), di ripercorrere gli ultimi due secoli di storia dell’arte, raccontando il passaggio della donna, da modella e musa ispiratrice a protagonista di primo piano della scena dell’arte. Con una interessante finestra, A tribute, su quindici artiste italiane – fra le altre Marinella Senatore, Alessandra Spranzi, Donatella Spaziani, Elisabeth Aro, Anna Galtarossa -, pensata come una sorta di collettiva monografica, come una mostra nella mostra.
Il catalogo è pubblicato da Umberto Allemandi. ( Simona Maggiorelli, Left)

left maggio 2006

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