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L’eros che non era peccato

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 3, 2010

Censurate dal Giappone occidentalizzato, riemergono ora opere di una lunga tradizione con radici nei miti arcaici della fertilità. Gian Carlo Calza le ha pubblicate in un libro Phaidon

di Simona Maggiorelli

Hokusai

Nate dalla cultura del mondo fluttuante (ukiyoe) dei quartieri del piacere nella Tokyo premoderna le stampe erotiche sono state fra le espressioni artistiche più longeve e diffuse in Giappone, anche fuori dalle ristrette elite di potere di questo paese dell’estremo Oriente che fino al 1868 ha mantenuto una struttura sostanzialmente medievale. Parliamo di un genere d’arte che ha attraversato quattro secoli di storia, dalla fine del XVI al XX secolo, in varianti originali, grazie a maestri come Hokusai e Utamaro che nel Settecento seppero creare opere uniche entro un canone rigido e standardizzato fatto di lunghe sequenze di immagini raccolte in rotoli o in libri: al centro scene di sesso al tempo stesso stilizzate e iperrealistiche nei dettagli, in cui figure anonime di uomini e donne si stagliano definite da forti linee nere e da ampie campiture di colore senza chiaroscuro.

Immagini all’apparenza seriali ma che ci parlano di una cultura giapponese libera dall’idea di peccato originale e da ogni cristiana condanna del desiderio. E che, nella splendida raccolta che ne ha fatto Gian Carlo Calza per Phaidon nel volume Il canto del guanciale e altre storie di Utamaro, Hokusai , Kuniyoshi e altri artisti del mondo fluttuante, ci trasmettono per la prima volta il senso più profondo della raffinata cultura ukiyoe in cui pittura, teatro kabuki e poesia erano strettamente legate.

«Per secoli in Giappone c’è stata una notevole produzione di arte erotica che conservava un legame con i miti arcaici della fertilità e con l’antica tradizione scintoista nella raffigurazione gli organi sessuali in primo piano; un genere artistico che solo ora riemerge compiutamente – racconta lo studioso milanese a left -. Perché dopo l’occidentalizzazione il Giappone l’ha censurata, mutando da noi un senso di condanna». Tanto che Il canto del guanciale, appena uscito per i tipi dell’ inglese Phaidon, è di fatto la prima ampia raccolta di stampe erotiche giapponesi pubblicata da un editore internazionale. «Al contrario che in Giappone, nella storia dell’arte occidentale troviamo poca produzione erotica e molto nudo – approfondisce Calza -. Sì certo, ricordiamo le illustrazioni di Marcantonio Raimondi per i libri dell’Aretino ma si tratta di casi isolati. Nell’arte fluttuante nata dalla borghesia giapponese, invece, troviamo stampe, grandi dipinti, lunghi rotoli, numerose tavole che illustrano gli atti dell’amore. Perlopiù senza ricorrere al nudo. Nell’ Occidente cristiano, dove il nudo era proibito, si ricorreva al mito e agli “dei falsi e bugiardi” per poter rappresentare una bella donna svestita. In Giappone, invece – spiega il professore -, non se ne sentiva l’esigenza, perché c’era un rapporto più disinvolto con il corpo e persone nude si vedevano ogni giorno nei bagni pubblici come negli attraversamenti di corsi d’acqua e di fiumi». Allora che cosa cercava il pubblico borghese dei quartieri del piacere in questo tipo di rappresentazione del rapporto sessuale fra uomo e donna? «Cercava la trasgressione. Non è un caso – sottolinea Calza – che molte scene riprodotte in questo libro rappresentino amori fugaci o illeciti. Fino alla scena dei due giovani che fanno l’amore e poi si suicidano. Non va dimenticato che la rigida etica samuraica non era favorevole al sesso che, si pensava, distogliesse dalla disciplina. E più la borghesia con cui i samurai erano indebitati prendeva piede, più loro irrigidivano il proprio codice» .

Così mentre le cortigiane erano dette “rovina castelli”in Giappone, le ragazze di buona famiglia dovevano rigare dritto se non volevano guai. E se come ci ha raccontato lo stesso Gian Carlo Calza in libri come Genji il principe splendente (Electa) e Utamaro e il quartiere del piacere (Electa) il primo romanzo psicologico giapponese fu scritto nel 1008 da una donna di corte e nel Seicento le grandi cortigiane erano donne colte che sapevano suonare e improvvisare versi, la realtà femminile in Giappone restava in gran parte in ombra e sottomessa. «E’ da notare, infatti- aggiunge lo studioso milanese – che nel Seicento compaiono famose cortigiane nelle stampe erotiche. Poi sempre più raramente. Qualche volta troveremo ancora negli antefatti queste donne che nella loro epoca erano assai famose. Le giovani donne che vediamo in primo piano nelle stampe erotiche sono perlopiù delle prostitute. E vi compaiono tristemente come corpi usati. Ma in altri casi no, come accennavamo, vengono rappresentate delle scene d’amore». E in questo caso artisti come Hokusai toccano il massimo dell’espressione, anche solo attraverso la rappresentazione di un appassionato scambio di sguardi.

da Left-avvenimenti

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Immagini dal mondo fluttuante

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 3, 2010

 

La stampa di Hiroshige e a destra il quadro di Van Gogh

La stampa di Hiroshige e a destra il quadro di Van Gogh

L’arte stilizzata del  giapponese Hiroshige, che piaceva a Van Gogh

 

di Simona Maggiorelli

 

 

 

Chi abbia avuto la fortuna di vederle accanto, da vicino- come ci è capitato al Museo Van Gogh di Amsterdam – il paragone fra le due opere risulta piuttosto imbarazzante. Tanto la potenza del colore e l’invenzione d’immagine del Susino in fiore (1887) di Vincent Van Gogh sovrasta l’originale xilografia realizzata dal maestro giapponese Utagawa Hiroshige nel 1857 e su cui l’opera del pittore olandese era esemplata: omaggio di un allievo che non aveva piena consapevolezza del proprio genio a un maestro che, tuttavia, ne restava irrimediabilmente aduggiato.

 

Ma ora, incontrando di nuovo questa xilografia originale de L’albero di susino nella casa del tè a Keimedo nell’ambito della coerente ricostruzione dell’arte di Hiroshige curata da Gian Carlo Calza nelle sale del Museo Fondazione Roma in via del Corso (fino al 7 giugno, catalogo Skira) si riesce a vederla in un’altra ottica, riuscendo a ricollocarla nel suo contesto storico originario e apprezzandone i valori di immediatezza, di precisione, in un ventaglio di colori, a un tempo vastissimo e calibrato. Al centro della scena  un ramo fiorito su uno sfondo albeggiante, virato al rosso. Una composizione apparentemente semplice, ma che si staglia potente come una pittura di arte astratta.

 

Di stampe giapponesi ci eravamo già occupati su left a proposito della ristampa del libro Stampe giapponesi. Un’interpretazione di Frank Lloyd Wright, ma vale la pena di fare ancora una scappata nel Sol levante con questa ampia mostra organizzata nell’ex Museo del Corso a Roma da Calza, docente dell’università Ca’ Foscari di Venezia e curatore di una recente mostra sull’arte del Giappone alla Fondazione Cini di Venezia. Con il suo libro e con questa mostra il professore invita a un viaggio in un Giappone antico: quello della cultura Ukiyo-e, fra immagini dal “mondo fluttuante”, secondo l’impetuosa cultura giovane che fiorì fin dal XVII secolo nelle città di Edo (oggi Tokyo) e di Osaka e Kyoto. Prima documentata in opere in inchiostro cinese, poi in stampe colorate a mano e successivamente in stampa policrome, di fatto  un’arte raffinatissima che si sviluppò come un percorso parallelo di pittura e poesia ( Hiroshige stesso fu anche poeta).  Era l’impronta culturale di una nascente borghesia giapponese, che avrebbe avuto un’influenza fortissima sugli artisti d’Occidente: dagli impressionisti a van Gogh, come dicevamo, e successivamente dall’architettura organica al beat.

 

Così in un percorso espositivo allestito come  un viaggio di fantasia nel Giappone antico sfilano immagini di una natura indomita e potente, onde vertiginose di tsunami, ma anche – intercalati di versi poetici- schizzi delicati di giardini,  uccelli, vedute fiorite. Ma che incredibilmente non hanno nulla di decorativo. L’assenza di chiaroscuro, l’uso di colori piatti, lo studio della composizione fanno di queste stampe un esempio di arte originalissima. “Hiroshige visse in un’epoca del Giappone socialmente e artisticamente molto ricca di fermenti”, spiega Gian Carlo Calza. Il paese era uscito tardivamente dal medioevo ma fra la fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento l’arte delle stampe divenne un’arte insieme raffinata e popolare, non più esclusivo appannaggio di una elite. Il rapporto con la natura – prosegue Calza- fu uno degli aspetti centrali di una cultura che aveva radici antichissime: secondo i miti delle origini in cui uomini e dei, piante e animali, rocce e oceani erano sorti da un’unica fonte che li rendeva parimenti degni di rispetto”.

 

Ma-facendo un passo indietro nel tempo – a Calza si deve anche una bella introduzione alla antica letteratura giapponese, pubblicata per i tipi di Electa, nella collana Pesci rossi. Diversamente da quando accadeva nelle regioni dell’Europa cavalleresca, l’antica letteratura giapponese era in gran parte scritta da donne come si evince da Genji il principe splendente, il libro in cui Gian Carlo Calza ricostruisce la genesi del celebre romanzo Genji scritto nel 1008 a Heian (Kyoto) dalla dama di corte Murakasi Shikibu e che rappresenta “la massima espressione del filone letterario femminile in lingua volgare”. Al centro della vicenda, l’immagine ideale di un principe, Genji, che in un’epoca medievale assai misogina quale quella in cui era ambientato il romanzo, aveva una profonda lealtà verso tutte le donne della sua vita. Considerato il primo “romanzo psicologico” della letteratura non solo giapponese, il romanzo ha avuto una circolazione anche al di là delle barriere linguistiche grazie alla più antica illustrazione rimasta del racconto: rotoli dipinti di circa un secolo posteriori alla stesura del romanzo e che avrebbero impresso un’immagine potente nella storia della pittura giapponese. Tanto da influenzare profondamente anche l’arte ottocentesca di Hiroshige come si può ben vedere in questa retrospettiva romana.

da Left-Avvenimenti del 13 febbraio 2009

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Quando l’arte guardava a Oriente

Posted by Simona Maggiorelli su dicembre 5, 2006

di Simona Maggiorelli

Chini, Bangkok

Chini, Bangkok

Straordinari sguardi sull’Oriente, fra cronaca e fantasia. Visioni di paesaggi, strade e paesi lontani, dal Medioriente all’Asia, che hanno la freschezza di appunti e schizzi di viaggio. Ma anche la cura grafica di opere d’arte. Sono i tesori, in gran parte sconosciuti che Alida Moltedo Mapelli ha fatto riemergere dal corposo fondo di incisioni dell’Istituto nazionale della grafica e del disegno.
Opere di autori noti e meno noti che nelle sale a piano terra dell’Istituto di via della Stamperia a Roma ora formano il mosaico di una visione novecentesca dell’altro, fra eurocentrismo e desiderio di autentica scoperta.
Sono acqueforti, xilografie, opere a puntasecca riemerse durante il lavoro di riordino del fondo di incisioni di invenzione raccolto da Carlo Alberto Petrucci e dallo studio delle collezioni del Gabinetto delle stampe. Opere che, anche grazie al catalogo che accompagna la mostra Tra Oriente e Occidente (aperta fino a domenica), ora si offrono agli storici dell’arte e al pubblico, permettendo di colmare una lacuna negli studi delle stampe della prima metà del Novecento.
Col filo rosso di una ricerca precisa: la scoperta del lavoro di artisti viaggiatori, che in anni di grande trasformazione per l’Italia, come furono quelli della prima metà del secolo scorso, andarono in Oriente, per iniziativa personale o per lavoro, per insegnare in una scuola d’arte di Tokyo come Antonio Fontanesi, oppure alle dipendenze del ministero delle finanze, come l’incisore Edoardo Chiossone o ingaggiati da committenti stranieri, come il più famoso Galileo Chini che fu invitato a Bangkok, fra il 1911 e 1914 per decorare la sala del trono del re. Insieme a una nutrita schiera di altri artisti e incisori italiani che, invece, scelsero le rotte dell’Egitto, dell’Etiopia (con Mussolini) oppure il Marocco, la Tunisia, ma anche la vicina Sardegna (come l’italo tunisino Moses Levy) questi protagonisti di una branca dell’arte italiana, ingiustamente considerata minore, ci regalano la consapevolezza netta di un paese che andava cambiando, anche dal punto di vista culturale, mutando l’esotismo ottocentesco in uno sguardo limpido e moderno su paesi lontani.
E se questa piccola, preziosa, mostra è di quelle da non farsi sfuggire, anche per il lavoro scientifico che la sostiene, non meno sorprendente si rivela una visita al palazzo che la ospita, l’Istituto nazionale per la grafica, con il suo immenso fondo di disegni, di stampe, di fotografie, per arrivare poi alle mescolanze di generi e linguaggi delle avanguardie dei nostri giorni. Passando dalla tradizione tosco-emiliana del disegno per arrivare, con bel salto di genere e di contenuti, alle opere grafiche di Piranesi.
E poi, su su, fino alle stampe novecentesche e alle ultime creazioni di videoarte, di cui, per indicazione del ministero, l’Istituto della grafica e del disegno di Roma diventerà il primo deposito nazionale. Un ventaglio di ambiti diversi che, insieme con il corposo fondo antico, fanno dell’Istituto romano diretto da Serenita Papaldo, un luogo unico in Italia, tappa obbligata per tutti coloro che si occupino di studio del disegno e delle stampe antiche. «La nostra è la più grande raccolta di matrici esistente al mondo – racconta la stessa direttrice Papaldo –. Il Gabinetto nazionale della stampa, poi, dal 1800 a oggi si è andato espandendo con acquisti e donazioni»

da Europa, dicembre 2006

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