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Ghiberti e Brunelleschi, si riapre la disputa

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 31, 2012

Ci sono volutiventisette anni di restauro perché la Porta del Paradiso tornasse al suo antico splendore. Rivelando aspetti del tutto  inediti

di Simona Maggiorelli

Lorenzo Ghiberti, Porta del paradiso

La geniale intuizione di Filippo Brunelleschi che la grande cupola di Santa Maria del Fiore potesse auto sorreggersi con un meccanismo di costruzione binario e senza l’uso delle céntine, insieme all’idea che il progettista fiorentino avesse “inventato” la prospettiva in pittura, ha indotto a pensare che la sua sonora sconfitta giovanile nella gara d’appalto per la porta del battistero fosse dovuta ai gusti miopi e conservatori della giuria.

Troppo avanti nello stile, troppo vibrante il movimento del suo Sacrificio di Isacco in una Firenze del 1401-1402 che ancora era ferma alla rigidità metafisica del gotico e che per questo gli preferì il lavoro di Lorenzo Ghiberti. Ma chissà che le cose non stessero proprio così.

Ad accendere più di un dubbio sono stati negli ultimi cinquant’anni una serie di importanti studi. Che ora sono corroborati dai risultati del restauro della Porta del Paradiso a cui il Ghiberti lavorò tra il 1426 e il 1452 e che gli fu commissionata dalla potente Arte di Calimala nel 1425.

Un’opera davvero abbagliante che l’artista impiegò 27 anni a realizzare e che ha richiesto altrettanti anni per essere riportata all’antico splendore dai restauratori dell’Opificio delle pietre dure, che sono riusciti a liberarla dai danni provocati dalle secolari esposizioni alle intemperie, ma anche da quelli, alla stessa struttura, provocati dall’alluvione del 1966.

Battistero, Firenze

Un lavoro lungo e delicatissimo, che ha riportato alla luce «una macchina complessa e perfetta, realizzata con una perizia senza precedenti e mai più uguagliata» come fa notare la direttrice del restauro Annamaria Giusti. Per questo basterebbe dire che le due ante furono gettate in bronzo in un unico, enorme, pezzo.

Ma la grande sprezzatura rispetto alle difficoltà di realizzazione dell’opera non è il solo aspetto a catturare la nostra attenzione. Più ancora colpisce lo sguardo la profonda, umanissima, eleganza delle figure rappresentate. Che fa scivolare del tutto in secondo piano il fatto che nelle formelle siano narrati episodi sacri e dell’Antico Testamento. Mutuando stili e modi di rappresentazione, non da un disseccato gotico, ma da un raffinato gotico internazionale che, a fine Trecento, era il linguaggio colto e urbano delle corti europee (e che nella rustica Firenze invece conobbe poche occorrenze), Ghiberti riuscì a distillare in quest’opera di una vita un proprio stile originale e maturo. Che con coraggio metteva al centro l’umano, nonostante il programma iconografico strettamente religioso.

Al contempo facendo piazza pulita di quelle decorazioni convenzionali a quadrifoglio che ancora nelle formelle realizzate da Andrea Pisano per la Porta Sud (1329-1336) occupavano gran parte dello spazio. Il risultato – che si potrà meglio apprezzare dal vivo quando la Porta del Paradiso sarà esposta, dall’8 settembre, nei nuovi spazi del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze – è di ariosa leggerezza, nonostante il massiccio bronzo in cui sono realizzate le varie formelle. Mentre l’oro accende le scene di riflessi di luce dando evidenza plastica alle figure.

da left avvenimenti

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Quando fioriva il Comune

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 23, 2005

Arnolfo di Cambio, dopo settecento anni a Perugia. Ricostruita la fonte del Grifo e del Leone, l’opera monumentale voluta dalla capitale umbra, influenzata da Nicola Pisano, e distrutta dopo soli venti anni. I cinque marmi che restano parlano un linguaggio nuovo per il Medioevo, anticipatore dell’Umanesimo. Nella mostra anche Cimabue, Duccio, Giotto. Da aprile Arnolfo tornerà nella sua Firenze.

di Simona Maggiorelli

L'assetata di Arnolfo di Cambio

L'assetata di Arnolfo di Cambio

A settecento anni dalla morte di Arnolfo di Cambio (Colle Val d’Elsa tra il 1240 e il 1245 – Firenze, intorno al 1302), dopo la bella mole di mostre e di convegni che la sua terra di nascita gli ha dedicato un paio di anni fa, l’Umbria prosegue il cammino di studi organizzando intorno al periodo umbro di questo maestro della scultura e dell’architettura tardomedievale: un doppio percorso espositivo, giocato fra Perugia e Orvieto e che ha anche il sapore di un invito alla scoperta della cosiddetta Umbria “minore”, disseminata di abbazie, di chiese e palazzi e castelli duecenteschi fra Assisi, Spello e Bevagna, Giano dell’Umbria, Massa Martana, Todi, Titignano e Prodo .
La mostra, Arnolfo di Cambio, una rinascita nell’Umbria medievale, curata da Vittoria Garibaldi e Bruno Toscano, ha un pregio innanzitutto: quello di ricostruire un importantissimo pezzo perduto del repertorio di Arnolfo di Cambio, la sua fonte del Grifo e del Leone, detta anche degli Assetati, l’opera monumentale, e divenuta poi quasi leggendaria, che realizzò su commissione del comune di Perugia e in cui – come documentano i pochi pezzi superstiti – fortissima era l’influenza del maestro Nicola Pisano, lo scultore toscano che aveva coinvolto Arnolfo nei lavori per il Duomo di Siena e nella realizzazione dei rilievi dell’Arca per San Domenico Maggiore a Bologna, e che gli aveva trasmesso un senso più leggero, più mosso ed espressivo delle figure scolpite.

Con la fonte del Grifo e del Leone siamo nel pieno periodo della fioritura comunale, in quella parte del XIII secolo quando il governo di molte città medievali si fece più democratico e popolare, anche attraverso la creazione della figura del capitano del popolo.
In quell’ultimo scorcio di Medioevo, insomma, in cui le istituzioni pubbliche e civili cominciavano a “investire” in opere architettoniche e d’arte, concorrendo con la committenza ecclesiastica (che in Umbria era fortissima, per la presenza papale, ma anche grazie a diffusi e ramificati ordini mendicanti) attraendo artisti e maestranze, fra le migliori su piazza, come quella di Arnolfo, la cui fama si legava alla fabbrica di Santa Maria del Fiore a Firenze, ma anche alle commissioni papali che, nel corso della sua vita, lo portarono più volte a Roma. In questo quadro, dopo che il governo comunale aveva dato il via alla costruzione del grande acquedotto che avrebbe portato in città l’acqua pulita del contado, fra il 1278 e il 1281, Arnolfo scolpì la sua portentosa fonte, in origine collocata in piazza Grande, dal lato opposto della fontana Maggiore, dove rimase fino agli inizi del Trecento quando, durante un periodo di forte crisi della città, andò distrutta. Un’opera dalla vita breve, anzi brevissima, durata appena vent’anni, ma che ha lasciato un segno fortissimo nella storia dell’arte italiana.

Oggi ne restano solo cinque marmi con figure scolpite di grande intensità espressiva e che testimoniano il linguaggio colto e raffinato, nuovissimo per il Duecento, con cui Arnolfo di Cambio in qualche modo anticipò la svolta culturale dell’Umanesimo.
Fino all’8 gennaio 2006, per tutta la durata della mostra, nella galleria nazionale di Perugia, i cinque marmi scolpiti tornano a ricomporsi nell’originario progetto architettonico concepito dall’artista toscano, con le grandi statue bronzee del grifo e del leone reinserite nell’originaria struttura monumentale della fonte.

Ma accanto alle testimonianze della scultura arnolfiana in Umbria la doppia mostra curata da Garibaldi e Toscano, offre anche la possibilità di uno sguardo sinottico sulle conquiste dell’arte dell’Italia centrale nel Duecento, con una serie di opere di Cimabue, Duccio di Boninsegna e Giotto. A catalizzare l’attenzione, in questo caso, sono sopratutto gli affreschi staccati provenienti dalla Basilica di S. Francesco di Assisi: il grande Angelo di Cimabue, (rimosso dalla tribuna della chiesa superiore per una ricerca sul suo stato di conservazione), e una figura allegorica di Giotto, staccata dall’abside della chiesa inferiore, e che viene dal Museo delle Belle Arti di Budapest.
E se a Perugia, nella sala Podiani della Galleria Nazionale, un’intera sezione è dedicata alla ricostruzione del contesto storico e politico in cui Arnolfo di Cambio visse, tra XIII e XIV secolo, un periodo, come si diceva, caratterizzato da grandi trasformazioni culturali, sociali e urbanistiche, legate alla presenza delle residenze papali nelle due città umbre, nella chiesa di Sant’Agostino, a Orvieto, si possono ripercorrere tutte le fasi della costruzione della grande macchina del nuovo Duomo: il cantiere trecentesco, cosmopolita, variegato, crocevia della scultura gotica internazionale, a cui Arnolfo di Cambio partecipò con il progetto del monumento funebre al Cardinal de Braye.
Anche in questo caso un’opera in parte andata distrutta e poi ricostruita filologicamente dagli studiosi.

Da quello che resta – ovvero il cardinale rappresentato disteso sul letto funebre, con ai lati due chierici che chiudono le cortine e il feretro sormontato dalle statue della Madonna con Bambino. San Domenico e San Marco – si percepisce che l’opera era un esempio di quella geniale fusione di architettura e scultura che Arnolfo di Cambio introdusse nella storia dell’arte italiana. Anche qui, però, come nel caso della fonte di Perugia, molte sono le lacune. Sulla nascita, sulla fortuna e sulla distruzione della fontana, ampio spazio è dato nel catalogo edito da Silvana che accompagna la mostra umbra con contributi di Maria Rita Silvestrelli, Attilio Bartoli Langeli, Clara Cutini, oltre a quelli dei due curatori. Ma il mistero dell’assoluta modernità dell’opera di Arnolfo di Cambio, così come le sue origini, ancora oggi in parte incerte, invitano a continuare il lavoro di conoscenza di questo straordinario artista. Dal prossimo 25 dicembre (e fino al 21 aprile 2006) il testimone passerà a Firenze con la mostra Arnolfo alle origini del Rinascimento fiorentino, allestita al Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. In mostra una novantina di sculture in marmo e legno attribuite all’artista toscano, tra cui l’Annunciazione del Victoria and Albert Museum di Londra, e la Madonna Loese di Palazzo Vecchio a Firenze. A completare il contesto – per dare un quadro artistico complessivo di Firenze all’epoca di Arnolfo – saranno esposte anche sculture, pitture e oreficerie del tardo Duecento fiorentino.
La sfida che si sono dati i curatori di questa mostra fiorentina è alta: fare un confronto tra le opere arnolfiane giunte fino a noi e di tentare finalmente una ragionata ricomposizione della perduta facciata di Santa Maria del Fiore, capolavoro incompiuto di Arnolfo, smembrato e disperso alla fine del Cinquecento.

da Europa del 23 luglio 2005

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