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Genio, nonostante la pazzia

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 22, 2010

Dall’8 ottobre una mostra al Vittoriano espone settanta opere di  Vincent Van Gogh. In dialogo con tele di Cézanne, di Gauguin, di Pissarro  e di altri impressionisti.

di Simona Maggiorelli

Vincent van Gogh Le tre età dell'uomo

Non solo un evento spettacolare e seducente come lo è, d’impatto, ogni mostra di Vincent van Gogh. Ma anche un’esposizione pensata dalla studiosa Cornelia Homburg per presentare le più recenti acquisizioni negli studi sull’opera di questo rivoluzionario artista. Che a secoli di distanza resta ancora insuperato nella potenza del colore e nella capacità di creare immagini assolutamente nuove a partire dalla rappresentazione di un paesaggio interiorizzato. Vedute en plain air o scorci di interni- ci ricorda la mostra Van Gogh campagna senza tempo, città moderna, dall’8 ottobre al Vittoriano – che nell’opera del pittore olandese, in meno di una decina di anni, diventarono via via sempre più onirici e visionari, pur restando legati a una realtà riconoscibile.

«Un artista non rappresenta le cose come sono, esaminandole freddamente e analiticamente, ma come le sente» annotava Van Gogh nel 1885. Mentre con pennellate materiche e vibranti portava i suoi paesaggi al massimo dell’espressività, regalando a ogni forma un proprio movimento con fasci di linee grafiche che percorrono la tela vorticosamente. Ne sono visibilmente contrassegnati alcuni quadri esposti in questa rassegna romana, come i celebri Cipressi con donne di Saint Rémi (1889) ma anche alcune più aperte e luminose vedute di campagna realizzate in Provenza, al pari di vivaci panoramiche di città che Van Gogh maturò a Parigi a contatto con la prima bohème impressionista. Un gruppo di artisti- da Pissarro a Seurat – di cui seppe cogliere e apprezzare la tavolozza brillante e le novità coloristiche ma al contempo essendo ben consapevole di voler e poter andare oltre.

«L’artista del futuro – scriveva Van Gogh – sarà soprattutto un artista del colore». Ma anche: «Il colore può assumere una funzione e un senso che è indipendente dall’immagine rappresentata». E per raggiungere questi risultati l’artista olandese sapeva bene che la strada da percorrere non era quella dell’estenuante analisi dei meccanismi fisici della visione, come sostenevano gli impressionisti.

Assai più fruttuosa era la lezione che veniva da un pittore romantico come Delacroix o ciò che si poteva ricavare dai colori piatti, del tutto innaturali, delle stampe giapponesi. Nasce proprio all’incrocio fra queste differenti e lontane culture un capolavoro come il Seminatore al tramonto (a Roma nella versione dell’Hammer museum di Los Angeles), opera simbolo di questa monografica al Vittoriano che, riportando Vincent van Gogh a Roma dopo ventidue anni, raccoglie settanta opere autografe accanto a quaranta tele di maestri come Cézanne e di artisti come Gauguin con cui Van Gogh condivise burrascosi momenti di arte e di vita. “Opera manifesto”, questo seminatore, non solo perché faceva incontrare la forza quasi mitologica delle campagne giovanili con i segni di una troppo rapida industrializzazione conosciuta a Parigi. Ma anche per l’innovativa risonanza di timbri e di colori che anima questo quadro: «Un immenso disco color limone come sole. Cielo verde giallo con nubi rosa, il terreno violetto, il seminatore e l’albero blu di prussia», nelle parole che usava lo stesso Van Gogh per raccontarla al fratello via lettera. Il realismo e il tono elegiaco dei contadini alla Millet tanto ammirato negli anni giovanili qui è del tutto sparito. Resta la forza panica della natura e l’epos della povera gente. Intanto la visione ha acquistato potenza e Van Gogh ha raggiunto il pieno possesso dei propri mezzi espressivi. «Nonostante i più vedano Van Gogh come un artista maledetto e guardino alle sue opere come al prodotto stupendo della sua follia – scrive la curatrice Homburg nel catalogo Skira che accompagna la mostra – Van Gogh era invece un uomo di grande cultura e un pensatore raffinato». E aggiunge: «Per quanto spesso tormentato da profondi dubbi in parte originati dalla sua malattia, aveva una percezione chiara della propria opera nel suo insieme e del ruolo che avrebbe avuto nella storia dell’arte». Questa esposizione romana, insomma, ci consegna l’immagine di un artista colto, tutt’altro che naif, che quando la malattia gli dava tregua studiava e ripensava ogni opera, ogni colore, ognuna di quelle pennellate apparentemente incontrollate, finché non raggiungeva ciò che voleva: una vividezza abbagliante, capace di toccare il cuore dello spettatore.

IL LIBRO.Le memorie ritrovate della sorella Elisabeth

I rapporti di Vincent van Gogh (1853-1890) con la famiglia furono sempre durissimi. Lui stesso scriveva di essere fuggito da casa anche per l’odio a pelle che sentiva da parte dei genitori che lo consideravano un «cane selvaggio e pieno di pulci» per la sua mancanza di rispetto delle regole di “buona educazione”, cristiana e borghese.Formalmente le cose andavano meglio con il fratello minore, Theo. Fu lui a sostenere l’artista economicamente nei momenti più bui. Ma dalla monumentale edizione completa delle lettere di Vincent Van Gogh uscita di recente (colmando molte lacune), la figura di Theo emerge ora con più chiarezza come quella di un mercante d’arte dalla mentalità  ottusa, convinto che Vincent fosse un fallito, tanto da raccomandargli di correggere quelle deformazioni oniriche che regalava ai suoi ritratti, stigmatizzandole come «errori di prospettiva». In tutt’altra direzione vanno invece le pagine su Vincent scritte dalla sorella Elisabeth, presenza silenziosa e schiva nella vita del pittore. Molti anni dopo quel tragico 1890 si decise a pubblicare un libro di ricordi che ora Federica Ammiraglio pubblica per i tipi di Skira. Con il titolo Vincent, mio fratello è in libreria dal 6 ottobre, restituendoci l’immagine di un artista che si dedicava allo studio con ferrea disciplina,  cercando di apprendere quelle tecniche che gli avrebbero permesso di esprimere la sua originale visione. In quegli anni, scrive Elisabeth, «il suo genio, ancora sopito, continuava a farsi strada inconsciamente. Lavorava a modo suo: era un osservatore sempre attento e una volta che si mise a dipingere, i risultati arrivarono velocemente. Non deve sorprendere che in dieci anni egli abbia realizzato più di quanto altri non abbiano fatto in una vita. Quelli che hanno scritto su di lui se ne sono meravigliati – nota Elisabeth -. Non sono stati in grado di comprendere tutto il lavorio che aveva preceduto l’esplosione della sua arte».  Restituendoci  un ritratto di Van Gogh più assai più autentico ( e curiosamente in sintonia con i più recenti  risultati negli studi ) di quelloche entrato nella storia dell’arte attraversoo pato-biografie come Van Gogh genio e follia di Karl Jaspers.
s.m.

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Van Gogh e i colori della notte

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su ottobre 1, 2010

seminatoreDopo l’anteprima al MoMa di New York, dal 13 febbraio ad Amsterdam una mostra racconta la ricerca sul “buio” del genio olandese

 

di Simona Maggiorelli

 

«Ho passeggiato di notte lungo il mare sulla spiaggia deserta, non era ridente, ma neppure triste… era bello…». L’orizzonte ha tutti i toni del blu, fino al viola e un movimento continuo di riflessi. «Mi sembra – scrive Van Gogh dalla Provenza al fratello Theo – che la notte sia più vivae piena di colori del giorno». Il buio non cela, ma avvolge e rende visibile l’invisibile. In modo più calmo, più dolce. Per Van Gogh la notte ha altrettanti e forse più toni e sfumature del giorno. E la esplora senza timore, per le immagini più calde e umane che schiude. Lo fa ad Arles ma anche a Saint Rémy dipingendo all’aperto la celebre Notte stellata (1889); il cavalletto piazzato en plein air senza che il risultato finale poi abbia nulla della piattezza di un quadro naturalistico. Ma anche senza naufragare nelle atmosfere nebbiose e nelle dissolvenze di Monet e del post impressionismo. La rapprsentazione di tramonti, di crepuscoli e di scene notturne, inquiete e solitarie, ha nella pittura Van Gogh la forza di una presa immediata sul senso più profondo del vissuto. Che si esprime nella potenza di immagini percorse da vortici di blu oltremare, innervate di linee di colore. Come se chiese, case e persone, dalle forme sghembe, poeticamente deformate, fossero animate dal sentire dell’artista. Così in capolavori come Notte stellata la struttura interna del quadro (che durante gli anni di apprendistato in Olanda traccia meticolosamente) magicamente svanisce agli occhi di chi guarda l’opera finita. «Per quanto questa tela rappresenti un apice assoluto nell’arte di Vincent Van Gogh curiosamente lui non ne era soddisfatto» ci racconta Joachim Pissarro (discendente di Camille) e curatore, insieme a Sjraar van Heugten e Jennifer Field, della mostra Van Gogh e i colori della notte che si è aperta  il 13 febbraio al Museo Van Gogh di Amsterdam, dopo un’anteprima al MoMa di New York. «Nel settembre del 1889 Vincent descrive questo quadro a Theo come un semplice studio sulla notte. E il fratello condivide da subito la sua insoddisfazione» nota Pissarro. Theo apprendeva dagli scritti di Vincent che cercava di rappresentare “il reale sentimento delle cose” ma non ne capiva il senso più profondo. Nelle sue lettere Vincent Van Gogh cercava di “ammorbidire” il fratello Theo prima che i quadri fossero sottoposti al suo giudizio critico di mercante. vangogh-starry_night_ballance1Ben sapendo che isuoi quadri non potevano essere spiegati a parole, Van Gogh non poteva o non voleva capire che dall’occhio invidioso (o forse addirittura lucido e freddo) di Theo, che gli dava uno stipendio per sentirsi “sano”, non gli sarebbe mai potuto arrivare nessun vero riconoscimento. Ma per fortuna o sfortuna di Vincent il suo modo di scendere a compromesso nelle lettere e nei rapporti non era quello che usava nell’arte. E già molto prima di Notte stellata e forse prima ancora del più “romantico” Cielo stellato sul Rodano del 1888 Van Gogh aveva già completamente superato la pittura degli impressionisti,che pure a un primo incontro a Parigi era stata di stimolo per queltotale rinnovamento che il pittore olandese fece nel 1886: d’un tratto realizzando una nuova immagine e rinnovando del tutto la tavolozza, sostituendo ai toni scuri e terragni del notturno ritratto in un interno di Mangiatori di patate (1885) un arcobaleno di riflessi brillanti. Nella casa gialla di Arles dove poi l’avrebbe raggiunto Gauguin per una breve e difficile convivenza, Van Gogh aveva maturato pienamente la consapevolezza che quella degli impressionisti era una strada troppo arida e che era tempo di riprendere a sperimentare sulla scorta delle suggestioni vive dalla vita del Sud e studiando il geniale uso di luci e colori di Delacroix. «Non mi stupirei molto – annotava Van Gogh in quegli anni – se tra un po’ gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di fare, che deve alle idee di Delacroix molto più che alle loro. Infatti – aggiungeva il pittore olandese – invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo del colore in modo più arbitrario di loro, per l’intensità dell’espressione». Da qui concretamente parte il lungo viaggio nella notte di Van Gogh studiato da Joachim Pissarro e al centro della mostra di Amsterdam; una ricerca che, dormendo di giorno, in poco più di 48 ore, per esempio, portò il genio olandese a realizzare opere come Caffè di notte (1888 ) in una ridda di gialli, rossi sangue e acidi verdi. E poi il ritratto del poeta Eugène Bloch che si staglia contro la “speranza” di un cielo infinito di stelle. E ancora Paesaggio con coppia che cammina e luna nascente del 1890, l’“onirica” e vibrante Chiesa di Auvers (1890), ma anche l’astratto e violaceo seminatore del quadro intitolato Notte (da Millet) del 1889 che racconta tutta l’enorme distanza che c’è fra le prime opere di Van Gogh (in cui ancora studiava forsennatamente la tecnica del disegno e “copiava” dai maestri del realismo come Millet e Corot) e quelle dell’ultimo periodo, che paiono aver subito una imprevista torsione fantastica; distanza fra l’inizio e la fine della parabola artistica di Van Gogh che si bruciò nell’arco di pochissimi anni e che è stata documentata dalla mostra curata da Marco Goldin Van Gogh, disegni e dipinti nel complesso di Santa Giulia a Brescia, con una nutrita serie di schizzi, bozzetti, acquerelli, litografie dalla collezione del Kröller-Müller museum. «Di solito si pensa che Van Gogh ia stato un pittore audace, istintivo, un po’ naif – commenta Joachim Pissarro – ma anche nei quadri dell’ultimissimo periodo, quelli che appaiono più febbrili e visionari, si vede la sua intelligenza al lavoro. Nonostante l’angoscia e le crisi mentali che lo attanagliavano, Van Gogh non smise mai di avere piena consapevolezza del suo lavoro. E la sua fantasia, nei momenti in cui riusciva a dipingere, non ne fu intaccata». Lo dimostrano, insieme agli accecanti ritratti di contadini che sembrano soccombere alla luce mentre la campagna arde e impazza di gialli, di turchese e di neri, anche le ultime inquietanti e vertiginose visioni di campi di grano solcate sinistramente da corvi neri. «Ma ancor più a mio giudizio lo dimostrano le umbratili e più delicate scene notturne – conclude Pissarro – costruite su una vastissima conoscenza letteraria, sullo studio di Rembrandt e Delacroix, ma anche e soprattutto misurate su una non comune sensibilità d’artista». Left Avvenimenti 4/09

 

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