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La Cambogia ritrova la sua memoria

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su settembre 12, 2008

Affrontare la storia del regime dei khmer rossi. Dire chi furono i carnefici. Ridare voce alle vittime. Si apre il primo processo agli uomini di Pol Pot. Dopo trent’anni il Paese può voltare pagina
di Simona Maggiorelli

«Questo libro è la storia di una resistenza. Racconta un anno e mezzo di vita di un gruppo di giovane prostitute “salariate”, alloggiate dalla loro tenutaria nel Building bianco, un decadente edificio nel cuore della capitale Phnom Penh», annota Rithy Panh nella prefazione del suo toccante La carta non può avvolgere la brace (O barra o edizioni). Regista e scrittore, fra le voci più interessanti della Cambogia di oggi, da quando appena adolescente riuscì a scappare da un campo di lavoro dove l’avevano confinato i khmer rossi che avevano sterminato la sua famiglia, è impegnato a raccontare le ferite ancora aperte di un Paese dalla cultura millenaria, bellissimo e – sotto una quiete apparente – ancora non riconciliato. Un Paese che, dopo quasi trent’anni, aspetta ancora che i khmer rossi vengano giudicati. Mentre si fanno sempre più laceranti le contraddizioni di un boom economico che arricchisce politici e speculatori e spazza via interi villaggi di pescatori e sottrae terra ai contadini. Thida Mom, Sinourn e le altre giovanissime protagoniste di questo libro presentato al Festivaletteratura di Mantova sono fra le vittime di questo rapido processo. Molte di loro vengono dalle campagne e si prostituiscono per mandare i soldi a casa; a vent’anni prese nella spirale dello sfruttamento e di una vita che «le fa morire un po’ ogni giorno». Perché, racconta Panh in questo libro che ha la forza di un’inchiesta di denuncia e il respiro della poesia, nella realtà di queste ragazze non c’è solo l’Aids, ma anche il pericolo di una «morte psichica», del vuoto, del non sentire più niente. Ma poi le ragazze parlano, si aprono piccoli spiragli «e la loro voce si alza contro la negazione dell’essere umano», scrive Pahn, che nel Building bianco ha fatto anche trecento ore di riprese per raccontare la vita di queste ragazze. E attraverso le loro storie «il disastro senza nome di oltre 30mila donne cambogiane».

«Quando ho cominciato a scrivere il libro pensavo che nessuno potesse uscire da quella situazione. Ma fortunatamente è accaduto. Una di loro ce l’ha fatta. Girare il film con loro – racconta Panh – ha aperto spazi di vita in comune, a poco a poco si è stabilito un rapporto. Ne sono stato molto felice anche se – ammette Panh – ovviamente il mio libro non dà risposte. È fatto per sollevare domande. Con cui vorrei spingere le persone ad aprire gli occhi, a reagire». Un impegno appassionato che ha portato Rithy Panh a girare film un documentario come La macchina di morte dei khmer rossi e Gente di Angkor. Il suo prossimo documentario, già in cantiere, prosegue il discorso analizzando le scelte lessicali del linguaggio di regime. «Mi interessava capire come il fatto di dare un certo nome alle cose condizioni poi i comportamenti nelle persone – spiega Panh -. I khmer rossi, per esempio, non usavano il verbo uccidere, ma la parola distruzione, oppure parlavano astrattamente di togliere di mezzo un ostacolo». E di “ostacoli” alla costruzione dell’uomo nuovo i khmer rossi, negli anni 70, ne fecero fuori più di due milioni. Due milioni di persone torturate e uccise. I metodi di Pol Pot e dei suoi uomini per eliminare i presunti traditori del proletariato sono stati ricostruiti da Rithy Panh nel film S21, dal nome del famigerato centro di eliminazione dove i prigionieri erano obbligati a scrivere sotto tortura la propria storia facendo nomi di complici. Con un meccanismo perverso che induceva una spirale di paura, delazioni, eliminazioni. «Una pazzia totale, che ancora oggi non si riesce a spiegare», commenta Panh. «Forse Pol Pot e la sua banda pensavano alla Cambogia come a un piccolo laboratorio. Ciò che la Cina non poteva fare perché è un Paese troppo vasto. Ma non si può distruggere l’umanità». I khmer rossi hanno preso l’ideologia comunista cinese e l’hanno applicata in maniera violenta fino alle estreme conseguenze. «Non considerando che il marxismo dice che biosogna distruggere il capitalismo non che bisogna uccidere le persone». Pol Pot distruggeva le persone, se eri un ingegnere, un medico, un insegnante, per lui non potevi appartenere al proletariato e per questo eri il nemico da cancellare dalla storia. Storia che Panh ha cercato di riscrivere dalla parte delle vittime, restituendo loro voce e dignità. E anche se sono passati molti anni, Pol Pot è morto nel suo letto evitando i conti con la giustizia, lo scrittore cambogiano è convinto che il processo che si apre quest’anno sia un passaggio importantissimo per il Paese.

«C’è un lavoro enorme da fare di ricostruzione della memoria storica della Cambogia – dice -. Chi ha ucciso deve affrontare le sue responsabilità. La giustizia internazionale ora dirà finalmente chi è stato vittima e chi carnefice. È importante questo riconoscimento – ribadisce Panh – altrimenti non si può ripartire con una vita normale. Se vogliamo che il Paese si sviluppi, bisogna affrontare ciò che i khmer rossi hanno fatto. È ancora un veleno fortissimo che si trasmette di generazione e in generazione». E proprio pensando ai ventenni di oggi che non hanno vissuto il terrore del regime, Panh dice con fiducia «loro ce la possono fare, se investiamo in formazione e cultura». Ma non basta certo il recente boom turistico con un flusso sempre crescente di viaggiatori attratti da tesori archeologici come Angkor, la straordinaria città khmer costruita fra il IX e l’XI secolo.

Le svettanti torri di Angkor Wat e le rovine del tempio di Ta Prohm «sono un grosso problema oggi», abbozza con pizzico di provocazione Panh. «Si tratta di un patrimonio storico straordinario, di cui siamo orgogliosi, ma – spiega – il turismo non aiuta automaticamente la gente della regione. Può diventare motore di sviluppo per il Paese solo si è attenti a redistribuire la ricchezza e i vantaggi che ne derivano. La Cambogia è bella, è un Paese dove si vive bene, ma – stigmatizza Panh – non è un supermarket». Una prospettiva che il governo cambogiano, guidato da Partito del popolo dagli anni 80 non sembra del tutto scartare, se si guarda alla vendita di terra e di intere isole a magnati russi e ad aziende cinesi che il premier Hun Sen ha avallato. «Da quando è stato disarmato ciò che restava dell’esercito khmer si può viaggiare in Cambogia senza pericoli. Fino a qualche anno fa occorreva una scorta per andare a Angkor. «Ma non basta – commenta Panh -. Se vogliamo fare uno scatto in avanti, ora dobbiamo combattere la corruzione e la speculazione selvaggia». E se la globlalizzazione ha portato con sé aspetti positivi come maggiori possibilità di viaggiare e conoscere, «per un Paese che è stato in guerra per 25 anni come la Cambogia trovare un’equilibrio non è facile. Per poter essere ascoltati sul piano internazionale, per poter dialogare con gli altri, prima dobbiamo ricostruire la nostra identità, la nostra cultura, affrontando la memoria storica».

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Non chiamatele morti bianche

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su agosto 8, 2008

Un appassionato viaggio di denuncia nell’Italia degli omicidi sul lavoro. Fra racconto e inchiesta. È Lavorare uccide dello scrittore e musicista Marco Rovelli di Simona Maggiorelli

«Ciao Marco, come stai? hai visto, è morto un rumeno, sotto un trattore. Era un mio amico». Comincia così un capitolo di Lavorare uccide di Marco Rovelli (Bur, Premio Pozzale-Luigi Russo). Una telefonata di agghiacciante normalità. I morti sul lavoro in Italia sono circa quattro al giorno, in buona parte immigrati che lavorano a nero, senza garanzie (gli immigrati, secondo l’Inail, si infortunano il 50 per cento più degli altri lavoratori). A loro i media dedicano, in genere, non più di un piccolo spazio nelle edizioni locali. Uno stillicidio quotidiano, di cui però si fatica ad avere un quadro d’insieme, nonostante in Europa l’Italia sia prima in classifica per numero di morti sul lavoro. «La frammentazione del processo produttivo, la catena degli appalti, la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori, la competizione selvaggia scaricata sul costo del lavoro e sulla sicurezza» sono, come scrive Rovelli in questo suo intenso viaggio inchiesta attraverso l’Italia, fra le cause principali. Ma nessuno chiama queste morti con il loro nome: omicidi. Nel lessico quotidiano è invalsa la dizione “morti bianche”. Parole che sembrano evocare una fatalità e le responsabilità si fanno, d’un tratto, evanescenti, imponderabili.

«Dalle mie parti apuane – scrive Rovelli – le morti bianche per eccellenza sono le morti in cava. Nelle cave di marmo. Anche qui un’eccedenza di bianco. Ho sempre avuto un’immagine statica delle morti bianche. Me le raffiguravo come qualcosa di assolutamente naturale come il marmo stesso». Ma a una cosa “naturale” non ci si oppone, porta con sé rassegnazione. Perfino nella resistente Carrara. «Ma basta uno sguardo più attento… e ci si accorge che queste morti sono frutto di precise scelte, che hanno nomi e cognomi». Fondendo storie, racconti di vita, ricerca sul campo e analisi dei dati, lo scrittore e musicista Rovelli ritesse le trame di un’Italia fatta di sfruttamento. Va in Veneto (dove ci sono più di 9 morti al mese) a incontrare la madre di Jasmine, una ragazza di 21 anni che lavorava come interinale di notte ed è morta sotto una pressa; rintraccia le comunità di nomadi impiegati a scavare a ciclo continuo la galleria della Tav Firenze-Bologna. Uno di loro, Pietro, ha già scavato il Frejus, la Val di Susa, la galleria di Rivoli. Va tra gli “atipici”, fra i portuali, fra gli edili, cercando di non perdersi nel labirinto dei subappalti e dei rimpalli di responsabilità. Va a Salerno per le due bambine morte bruciate mentre facevano materassi e s’imbatte nella piaga del lavoro minorile. Per l’Istat sono 150mila i minori tra gli 11 e i 13 anni che lavorano in Italia. Nel 70 per cento dei casi lo fanno per “aiutare i genitori”. E intanto, incontro dopo incontro, Rovelli scava sotto il senso di quelle parole che, mai neutre, usate per inerzia, per meccanismi abitudinari, contribuiscono a determinare la realtà. «Le responsabilità delle morti sul lavoro sono lavate via con uno straccio di parola, un aggettivo che purifica e cancella ogni macchia…».

L’avventura di questo suo libro-inchiesta, ci racconta Rovelli al telefono, è cominciata leggendo i libri di Agamben, «mi ha fatto capire che c’erano dei luoghi, delle storie dei margini nascosti che dovevano essere raccontati». I primi importanti riscontri cominciarono due anni fa con L’Italia dei lager (Bur) che “fotografava” la violenza dei Cpt. Poi il successo di Lavorare uccide. Ora, tra l’insegnamento di storia e filosofia e un nuovo progetto musicale, la voglia di riprendere il filo della ricerca sul campo. Il prossimo libro di Rovelli uscirà l’anno prossimo per Feltrinelli. È il racconto di storie di lavoro clandestino, ma in chiave più narrativa. «Andando in giro per l’Italia a presentare i libri, incontri persone e ti rendi sempre più conto di come certe storie siano frequenti». Incontri coinvolgenti che spingono a mettersi in gioco. «Fuori da ogni retorica – dice Rovelli – penso di aver avuto un grande privilegio nell’incontrare questi testimoni, persone in carne e ossa con alcune delle quali poi sono rimasto in rapporto. Persone che altrimenti non avrei mai conosciuto che hanno attraversato mondi per me lontani. Si crea un’empatia in alcuni momenti che non può che trasfondersi nella scrittura». Anche se scrivere Lavorare uccide ha comportato andare incontro a una realtà se possibile ancora più dura di quella conosciuta nei Cpt.«Un conto è incontrare chi ha perso un figlio ucciso senza motivo, un conto – chiosa Rovelli – è incontrare un ragazzo migrante che ti racconta che è stato naufrago nel Mediterraneo, che ha attraversato il deserto e che l’ha scampata. Ha una carica vitale fortissima». Ma poi precisa: «Non ho mai inteso fare un libro “dolorifico”, in ogni caso. Mi interessava riflettere sul dolore, cercare uno sguardo sulle cose, capire perché». La “scoperta” più dolorosa? «La perdita di legami nella classe lavoratrice. Uno come me che, in fondo, è un lavoratore di concetto, si aspetta di trovare una classe, «una classe per sé» come direbbe Marx. Invece ti trovi di fronte a situazioni in cui sono in molti a voltarsi dall’altra parte». E raccontare diventa allora lavoro politico, «come faccio da sempre» nota Rovelli. Come accadeva anche nel fare musica con Les Anarchistes. Dopo aver lasciato la band, lo scrittore è già al lavoro con una nuova formazione, la Marco Rovelli LibertAria. Ad agosto se ne sono avuti già alcuni assaggi: sul palco un trio rock con un fisarmonicista, una violinista classica, la chitarra e la voce di Rovelli stesso. Alcuni testi delle canzoni sono stati scritti con Wu Ming e Erri De Luca. «I testi partono dalla prima persona plurale. Già questo – dice Rovelli – oggi, mi pare piuttosto inconsueto».
Left 32-33/08

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Le rotte dell’arte

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 20, 2008

Su un tratto del muro costruito da Israele in Cisgiordania c’è dipinta una bambina che lo scala sollevata da un grappolo di palloncini. È l’immagine che forse meglio simboleggia il compito che si sono dati oggi molti artisti che vivono in questi territori dilaniati da conflitti e occupazioni. Dalla striscia di Gaza, al Libano, arrivando fino ai Balcani. I curatori del progetto Le porte del Mediterraneo (Skira) si sono messi sulle tracce di quegli artisti che, con immagini nuove e creazioni originali, sanno bucare lo schermo piatto dell’informazione e mandare in frantumi le stereotipie. Ne hanno raccolto le testimonianze e le opere, in un volume leggibile come un viaggio sulle rotte dell’arte contemporanea, con molti punti di partenza e altrettanti approdi sulle diverse sponde del Mediterraneo. Dalla Gerusalemme di Tarin Gartner, che ce ne offre un’inedita prospettiva nel suo Diario di sentimenti ai territori dei Saharawi trasformati in paesaggi di fantasia da Armin Linke. E via di questo passo, alla scoperta di decine di nuovi talenti. E poi, viaggiando attraverso il tempo, nella seconda parte del libro, testimonianze di artisti dell’800 che, in cerca di nuove esperienze, hanno solcato il mare nostrum.
Left 25/08**Simona Maggiorelli

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Surrealisti alla sbarra

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 20, 2007

Nel libro di Jean Clair una critica serrata al pensiero e alla pratica artistica di Breton e compagni
di Simona Maggiorelli

«Dada è vivo e scalpita con noi», scriveva Achille Bonito Oliva nel catalogo della mostra Da da da. Come ancora vive ed operanti sono le pratiche artistiche del surrealismo. Tra i movimenti del Novecento, il surrealismo è certamente uno di quelli che ha avuto l’influenza più duratura», dice Jean Clair nel suo Processo al surrealismo del 2003 che ora Fazi utilmente pubblica in Italia. Affermazioni difficili da contestare, quelle dei due critici. Basta dare uno sguardo, anche superficiale, a ciò che accade nel panorama occidentale dell’arte contemporanea e della videoarte. In cui è ancora egemone la “poetica” della body art, del travestitismo, della combinazione analogica e casuale delle immagini, che attraverso la spettacolarizzazione del dettaglio e della bizzaria punta a stupire, a sorprendere, a creare un effetto di choc. (Perlopiù, diremmo noi, accontentandosi di usare al minimo, senza contenuti creativi nuovi, le potenzialità che offre la tecnologia digitale). Fatto è che il fascino esercitato da Breton e compagni sulla ricerca artistica della seconda metà del Novecento (e non solo) indubbiamente è stato intrigante e sottile. E il libro di Jean Clear ha il merito di provare finalmente a indagarne il perché, tirando giù Breton, Ernst, Ray, Dalì e gli altri dal piedistallo. «Altri movimenti sono stati sottoposti al vaglio della critica», nota Clair. È ben noto, scrive, che il futurismo esaltando il vitalismo e la guerra abbia «aperto la strada al fascismo». Il surrealismo, invece, non è stato mai smascherato, mai messa in discussione la sua patina “di sinistra”. «È stato monopolizzato dagli universitari e dai devoti e la sua storiografia appare inattaccabile». Ma chi era realmente Breton si chiede Clair. Chi era l’uomo di cui il neofita Charles Duits ebbe a dire: «Ai miei occhi era l’immagine della rivolta. Ma non lasciava al gesso di fare presa. E scoprivo che la rivolta è un idolo, una figura di gesso». L’incantatore Breton lanciava volantini su cui era scritto che il surrealismo è «alla portata dell’inconscio di ognuno». Era il contestatore della doxa, che invitava a liberarsi del «giogo della ragione». Ma al tempo stesso era l’intellettuale con il revolver. «L’azione surrealista più semplice – scriveva – consiste, rivoltelle in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può tra la folla». I surrealisti sostenevano la “liberazione umana”, ma in un micidiale corto circuito di senso erano anche coloro che inneggiavano all’autodistruzione e al suicidio. E di suicidi è costellata la storia del surrealismo da quello dell’attore Pierre Batcheff, a quello del dandy Jacques Rigaut, protagonista del film Emak Bakia di Man Ray. Ma anche l’icona del surrealismo Kiki de Montparnasse fece una fine tragica, come ricostruisce Domenico Fargnoli nel libro Arte senza memoria, psichiatria e arte (Cambi editore). Nei primi numeri della rivista La revolution surrealiste si sosteneva che ci si suicida come si sogna. Come a dire che a chiunque può accadere di sognare ma anche di suicidarsi. Confondendo sogno e allucinazione, esaltando il nihilismo. E esaltando la pazzia, scambiando la violenza della malattia mentale per creatività, i surrealisti distruggevano la propria creatività e fantasia e quella degli altri. Una conclusione a cui – con altri strumenti – anche Jean Clair sembra avvicinarsi indicando nel pensiero e nella pratica surrealista un elemento chiave per comprendere «la genealogia della violenza dell’ultimo secolo».

Left 29/07

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