Non chiamatele morti bianche
Posted by Simona Maggiorelli su agosto 8, 2008
Un appassionato viaggio di denuncia nell’Italia degli omicidi sul lavoro. Fra racconto e inchiesta. È Lavorare uccide dello scrittore e musicista Marco Rovelli di Simona Maggiorelli
«Ciao Marco, come stai? hai visto, è morto un rumeno, sotto un trattore. Era un mio amico». Comincia così un capitolo di Lavorare uccide di Marco Rovelli (Bur, Premio Pozzale-Luigi Russo). Una telefonata di agghiacciante normalità. I morti sul lavoro in Italia sono circa quattro al giorno, in buona parte immigrati che lavorano a nero, senza garanzie (gli immigrati, secondo l’Inail, si infortunano il 50 per cento più degli altri lavoratori). A loro i media dedicano, in genere, non più di un piccolo spazio nelle edizioni locali. Uno stillicidio quotidiano, di cui però si fatica ad avere un quadro d’insieme, nonostante in Europa l’Italia sia prima in classifica per numero di morti sul lavoro. «La frammentazione del processo produttivo, la catena degli appalti, la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori, la competizione selvaggia scaricata sul costo del lavoro e sulla sicurezza» sono, come scrive Rovelli in questo suo intenso viaggio inchiesta attraverso l’Italia, fra le cause principali. Ma nessuno chiama queste morti con il loro nome: omicidi. Nel lessico quotidiano è invalsa la dizione “morti bianche”. Parole che sembrano evocare una fatalità e le responsabilità si fanno, d’un tratto, evanescenti, imponderabili.
«Dalle mie parti apuane – scrive Rovelli – le morti bianche per eccellenza sono le morti in cava. Nelle cave di marmo. Anche qui un’eccedenza di bianco. Ho sempre avuto un’immagine statica delle morti bianche. Me le raffiguravo come qualcosa di assolutamente naturale come il marmo stesso». Ma a una cosa “naturale” non ci si oppone, porta con sé rassegnazione. Perfino nella resistente Carrara. «Ma basta uno sguardo più attento… e ci si accorge che queste morti sono frutto di precise scelte, che hanno nomi e cognomi». Fondendo storie, racconti di vita, ricerca sul campo e analisi dei dati, lo scrittore e musicista Rovelli ritesse le trame di un’Italia fatta di sfruttamento. Va in Veneto (dove ci sono più di 9 morti al mese) a incontrare la madre di Jasmine, una ragazza di 21 anni che lavorava come interinale di notte ed è morta sotto una pressa; rintraccia le comunità di nomadi impiegati a scavare a ciclo continuo la galleria della Tav Firenze-Bologna. Uno di loro, Pietro, ha già scavato il Frejus, la Val di Susa, la galleria di Rivoli. Va tra gli “atipici”, fra i portuali, fra gli edili, cercando di non perdersi nel labirinto dei subappalti e dei rimpalli di responsabilità. Va a Salerno per le due bambine morte bruciate mentre facevano materassi e s’imbatte nella piaga del lavoro minorile. Per l’Istat sono 150mila i minori tra gli 11 e i 13 anni che lavorano in Italia. Nel 70 per cento dei casi lo fanno per “aiutare i genitori”. E intanto, incontro dopo incontro, Rovelli scava sotto il senso di quelle parole che, mai neutre, usate per inerzia, per meccanismi abitudinari, contribuiscono a determinare la realtà. «Le responsabilità delle morti sul lavoro sono lavate via con uno straccio di parola, un aggettivo che purifica e cancella ogni macchia…».
L’avventura di questo suo libro-inchiesta, ci racconta Rovelli al telefono, è cominciata leggendo i libri di Agamben, «mi ha fatto capire che c’erano dei luoghi, delle storie dei margini nascosti che dovevano essere raccontati». I primi importanti riscontri cominciarono due anni fa con L’Italia dei lager (Bur) che “fotografava” la violenza dei Cpt. Poi il successo di Lavorare uccide. Ora, tra l’insegnamento di storia e filosofia e un nuovo progetto musicale, la voglia di riprendere il filo della ricerca sul campo. Il prossimo libro di Rovelli uscirà l’anno prossimo per Feltrinelli. È il racconto di storie di lavoro clandestino, ma in chiave più narrativa. «Andando in giro per l’Italia a presentare i libri, incontri persone e ti rendi sempre più conto di come certe storie siano frequenti». Incontri coinvolgenti che spingono a mettersi in gioco. «Fuori da ogni retorica – dice Rovelli – penso di aver avuto un grande privilegio nell’incontrare questi testimoni, persone in carne e ossa con alcune delle quali poi sono rimasto in rapporto. Persone che altrimenti non avrei mai conosciuto che hanno attraversato mondi per me lontani. Si crea un’empatia in alcuni momenti che non può che trasfondersi nella scrittura». Anche se scrivere Lavorare uccide ha comportato andare incontro a una realtà se possibile ancora più dura di quella conosciuta nei Cpt.«Un conto è incontrare chi ha perso un figlio ucciso senza motivo, un conto – chiosa Rovelli – è incontrare un ragazzo migrante che ti racconta che è stato naufrago nel Mediterraneo, che ha attraversato il deserto e che l’ha scampata. Ha una carica vitale fortissima». Ma poi precisa: «Non ho mai inteso fare un libro “dolorifico”, in ogni caso. Mi interessava riflettere sul dolore, cercare uno sguardo sulle cose, capire perché». La “scoperta” più dolorosa? «La perdita di legami nella classe lavoratrice. Uno come me che, in fondo, è un lavoratore di concetto, si aspetta di trovare una classe, «una classe per sé» come direbbe Marx. Invece ti trovi di fronte a situazioni in cui sono in molti a voltarsi dall’altra parte». E raccontare diventa allora lavoro politico, «come faccio da sempre» nota Rovelli. Come accadeva anche nel fare musica con Les Anarchistes. Dopo aver lasciato la band, lo scrittore è già al lavoro con una nuova formazione, la Marco Rovelli LibertAria. Ad agosto se ne sono avuti già alcuni assaggi: sul palco un trio rock con un fisarmonicista, una violinista classica, la chitarra e la voce di Rovelli stesso. Alcuni testi delle canzoni sono stati scritti con Wu Ming e Erri De Luca. «I testi partono dalla prima persona plurale. Già questo – dice Rovelli – oggi, mi pare piuttosto inconsueto».
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