Il suo libro, Seppellitemi dietro il battiscopa è un caso editoriale in Russia ed è uno dei maggiori long seller degli ultimi dieci anni. Lo scrittore Pavel Sanaev ne racconta la genesi al settimanale left
di Simona Maggiorelli
Dostoevskij, ma anche Balzac, per quanto riguarda la sostanza drammatica. E un autore poco letto in Russia come Jerome K. Jerome, da cui Pavel Sanaev ha preso l’ispirazione per una sua originale forma di umorismo («un modo divertente di trattare le profondità dell’animo umano» dice lui stesso). Si possono, a buon diritto, scomodare tutti questi bei nomi del Pantheon letterario per far capire di che pasta sia fatta la prosa di Seppellitemi dietro il battiscopa (Nottetempo), libro d’esordio di uno sceneggiatore appena quarantenne e che in Russia è esploso come un vero e proprio caso editoriale. Il romanzo, dalla chiave visionaria, è costruito intorno al rapporto claustrofobico fra una nonna iperprotettiva e un bambino di nove anni costretto dalla “amabile” Nina a bere di continuo tisane, a indossare una calzamaglia di lana ruvida in ogni stagione senza avere il diritto di sudare. Saša non può salire sulle giostre e non può fare tutto ciò che fanno i ragazzi della sua età. In breve, «è destinato a marcire prima dei sedici anni», grazie all’adorabile babuska.
E Sanaev è bravissimo a farci precipitare in questo ansiogeno mondo dominato dall’ombra castrante della nonnina. La tentazione è allora subito quella di chiedere allo scrittore se l’immagine della nonna pazza non abbia qualcosa a che vedere con l’ideologia che dominava L’Unione sovietica. «A ben guardare esistono migliaia di Nina al mondo oggi e non solo in Russia – risponde “sibillino” -. Penso che molte famiglie nel mondo abbiano una loro Nina. A volte è la madre, a volte il padre. Questa nonna è un personaggio vivente, una metafora e può avere molti significati». E quando poi gli si chiede se si aspettava che il libro avesse così tanto successo, Sanaev rompe un altro cliché, quello cattolico della modestia che spetterebbe a ogni scrittore: «Sì contavo in una risposta forte. Sentivo di aver scritto un bel libro – dice – e sono rimasto sorpreso che non abbia avuto riscontri quando l’ho proposto alle case editrici. Per nove anni ha vissuto solo sulle pagine della rivista Ottobre. Ma gli editor nel 1996 non erano interessati a pubblicarlo. C’è una teoria secondo la quale negli anni Novanta in Russia c’era un pubblico molto ristretto. All’epoca il Paese attraversava una crisi terribile e le persone intelligenti non leggevano: erano troppo impegnate a cercare un modo per sopravvivere. Di fatto industriali e vigilantes, che avevano un sacco di tempo libero, erano gli unici lettori. E leggevano ciò che piaceva loro: detective stories e romanzi su chi vive in prigione. Dopo il Duemila – prosegue Sanaev- la situazione in Russia si è stabilizzata ed è iniziata la domanda di un altro tipo di letteratura. Così il mio romanzo è stato finalmente pubblicato ed è diventato popolare. Perché? Perché è molto divertente e insieme drammatico. E parla della vita vera. E’ stato un best seller per più di sette anni. Penso che sia una buon risarcimento per tutti gli anni in cui è rimasto nell’ombra».
Nel frattempo insieme a lei è cresciuta molto la nuova scena letteraria russa. Quali sono, a suo avviso, i nomi nuovi più interessanti?
In Russia ci sono molti autori giovani di buon livello. Prilepin, Glukhovsky, Pelevin, per esempio. Ma direi che Sergey Minaev ha scritto uno dei migliori libri in circolazione sulla Russia contemporanea. Quando mi sono messo a leggerlo in una caffetteria mi sono scordato anche che dovevo spostare la macchina .
La forza cinematografica della narrazione nel suo libro è evidente, quanto ha contato la sua esperienza di sceneggiatore?
E’ accaduto, in realtà, il contrario. Prima ho scritto il romanzo poi ho cominciato a fare film. C’è una spiegazione semplice: Non si possono scrivere tanti libri del genere. Su una vicenda così intima e personale, nutrita di esperienze della mia infanzia. Ho subito capito che mi ci sarebbe voluto molto tempo prima di riuscire a raccogliere sufficiente materiale per scrivere un altro libro di quel livello. Così mi sono messo a fare film d’avventura, d’amore, thriller… Penso che uno scrittore non debba scrivere se non ha nulla di importante da dire. Perciò solo ora mi sono messo a scrivere un secondo libro. Parla di ragazzi degli anni Settanta. La storia comincia nell’agosto del 1989, due anni prima del collasso dell’Urss. E arriva fino ai nostri giorni.
Quei ragazzi ora sono liberi dal comunismo. Che problemi devono affrontare?
I problemi maggiori riguardano la mancanza di mobilità sociale, la distruzione della scuola e della cultura, l’assenza di possibilità di lavoro creativo. L’Urss ha molte colpe ma almeno era all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia. La Russia non è più creativa, vive perlopiù vendendo gas e petrolio. Ma quale ricaduta sociale ha tutto questo? In questo settore lavorano 15-20 milioni di persone, compreso l’indotto finanziario. Ma noi siamo 140 milioni di abitanti. Ci sono possibilità di realizzarsi per 120milioni di persone?
da left-avvenimenti del 13-19 maggio 2011


Non di rado accade nell’esperienza di questi otto ricercatori usciti dalla penna di Björn Larsson che un imprevisto li faccia derogare dalla strada intrapresa, che eventi esterni, nuovi incontri e cambiamenti interiori impongano loro un nuovo inizio. «La ricerca non è avulsa dalla vita e il cuore della scienza, così come di ogni altro sapere, non consiste in una serie di dogmi, di certezze inconfutabili», dice lo scrittore che il prossimo 23 giugno sarà ospite del Festival Letterature di Roma. «Semmai la scienza è una esplorazione senza fine che non approda a rassicuranti certezze, ma offre una gamma di probabilità, di ipotesi, una serie di approssimazioni». E in questo percorso di avvicinamento alla verità richiede di saper esercitare costruttivamente l’arte del dubbio. «L’idea stessa di scienza comporta il rifiuto di ogni determinismo di ogni astratto scientismo- approfondisce Larsson-, altrimenti lo scienziato si ridurrebbe a un tecnocrate. Ma c’è di più. Il ricercatore ha il diritto di poter fallire. Fa parte del gioco. Ma questo oggi non viene accettato. Per cui nell’università, sempre di più, si punta sulla ricerca applicata, quella che porterà certamente utili, e non sulla ricerca pura, quella di base». Ma se le storie di questi otto personaggi si presentano come una grande metafora del cercare più che del trovare, sono anche costruite come poetici apologhi sull’incertezza: «La gente preferisce darsi una spiegazione purché sia. L’astrologia nasce per questo- nota Larsson-. Io invece penso che, nell’incertezza, sia importante continuare a cercare. In scienza come in letteratura serve immaginazione ma non si può mentire». Scienza e letteratura, due mondi apparentemente lontanissimi, ma che Larsson dice invece di voler avvicinare, tenendo a mente un esempio importante: quello di Primo Levi, al quale idealmente è dedicato questo suo nuovo libro, nonostante il titolo giocosamente pirandelliano.«Primo Levi ha cercato un modo per farle convivere – spiega Larsson-. La scienza per lui era uno strumento per conoscere la realtà, per essere presente nella vita civile, un mezzo per cercare capire il perché delle cose. Molti scrittori sono sordi alle tematiche di scienza. Invece avere curiosità scientifica, cercare di capire Darwin, per esempio, è importante per aprirsi a una certa concezione della vita e dell’universo». Un’operazione di avvicinamento di scienza e letteratura che in Italia fu tentata anche da Italo Calvino, specie nei suoi ultimi anni.