Spinoza nel pantheon del Pd. Ecco il nuovo volto della ragione: maquillage o chirurgia estetica?
di Simona Maggiorelli
Eugenio Scalfari ne ha fatto un´icona, quasi il nume tutelare – insieme a pochi altri – dei valori del nascente Partito democratico. Ma prima ancora del fondatore di Repubblica, sul piano degli studi, ci hanno pensato filosofi come Remo Bodei con il suo ponderoso La geometria delle passioni (Feltrinelli). E anche un illustre neuroscienziato come Antonio Damasio con Alla ricerca di Spinoza, Adelphi. Entrambi hanno fatto del pensatore olandese un punto cardine di un orizzonte intellettuale che si dice democratico e moderatamente di sinistra, recuperandone alcune parole chiave come “coscienza” , “ragione”, “ordine”, “sicurezza” “acquiescenza”. Valori e concetti che contribuiscono a tratteggiare (sulla via di Cartesio mai veramente superato da Spinoza) un’ immagine di realtà umana ancora dilaniata dalla scissione fra corpo e coscienza. L’uomo spinoziano attraverso il ricorso al mito dell’amor dei intellectualis, intriso di religiosità, tenta di sdrammatizzare le proprie scissioni, di derubricarne le incongruenze. Insomma, anche grazie al recupero del grande Baruch e di altri pensatori come Montaigne e di certo illuminismo, è il mito di una ragione assoluta che torna ad essere celebrata nel dibattito culturale e politico di queste settimane.
A tornare a far capolino, insomma, sembra essere un’idea di coscienza spinozianamente trasparente a se stessa, che distingue fra passioni buone e passioni cattive, pensando di poter opporre lucidamente le une alle altre. Che cerca una manipolazione dei sentimenti e degli affetti per temperare la bramosia dell´acquisizione continua di beni, l´egoismo feticistico dell´economia politica. Che faccia di una tolleranza raziocinante, e tutto sommato indifferente, la chiave di volta per la conservazione di sé. Ma in questo plauso di una visione ordinata della società che liberi l’uomo dall’incertezza del vivere (promosso dagli intellettuali che lavorano alla costruzione dell´identità culturale del Pd), c’è chi legge una criticabile operazione latente: «Il trend neo-razionalistico attuale – dice il filosofo Bruno Accarino – non potenzia tanto le capacità di rischiaramento (come letteralmente suona “Aufklärung”) della teoria, ma cerca di trovare, in maniera velleitaria, strumenti efficaci per manipolare la realtà. Ma ampie zone del reale si sottraggono a ogni forma di analisi e di razionalizzazione, e la comunicazione sociale ha un che di incanaglito e di civilmente deteriorato». Il tentativo di criminalizzazione dei lavavetri, partito proprio dalla città di Firenze, dove Accarino vive e insegna filosofia della storia all’Università, del resto, sembra esserne un chiaro segnale. «I fenomeni di chiusura di ceto e di casta a cui assistiamo sono da ancien régime. Sul piano politico – sostiene Accarino – sta venendo al pettine il nodo di un deficit di cultura azionistica nella sinistra italiana: l’egemonia dei due grandi filoni culturali post bellici, quello cattolico e quello comunista, ha impedito di gestire la domanda di libertà e di autodeterminazione che si esprime fuori dai canali ufficiali della rappresentanza politica». Un eminente voce filosofica, quella di Domenico Losurdo (autore de La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’ ideologia della guerra, Bollati Boringhieri) esprime più di un dubbio sull’odierno “revival Spinoza” contestando modi e metodo del recupero della lezione dell’autore dell’Ethica geometrico demonstrata. «Sono dell’idea che sia utile confrontarsi con le grandi personalità del passato, anche quando si tratta di rivoluzionari borghesi – è il suo commento – ma rileggerli oggi vuol dire saperne cogliere l´attualità». E da questo punto di vista, prosegue il professore, che insegna storia della filosofia all’Università di Urbino, «mi sembra un fatto assai curioso che si recuperi Spinoza senza nominare nemmeno uno dei punti più interessanti del suo pensiero: la critica che lui ha fatto alla mitologia del popolo eletto. Gli ebrei, diceva Spinoza, non hanno nessun motivo di ritenersi superiori. E questo oggi significa anche cercare di capire cosa sta accadendo in Medioriente e in Palestina». «Ma soprattutto – aggiunge Losurdo che ha da poco pubblicato con Laterza il libro Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana – oggi non possiamo trascurare che se c´è un popolo, fra tutti, che si considera eletto questo è il popolo degli Stati Uniti d’America. Bush jr ha vinto la prima campagna elettorale proprio agitando il motivo del popolo eletto. Allora mi sembra sorprendente che si citi Spinoza senza ricordare questo punto fondamentale». Detto in altri termini, il pensiero del vecchio Baruch è stato importante, «ma se lo si vuole ridurre a una sorta di icona che dovrebbe servire a santificare la cosiddetta democrazia occidentale, allora – conclude il professore – io sarei tentato di rispondere: giù le mani da Spinoza».
Di tutt’altro avviso, il filosofo Giacomo Marramao che a proposito del pensatore olandese vissuto tra il 1632 e il 1677 ricorda: «E’ stato molto caro a Hegel, ma anche a Marx e Nietzsche e ha avuto il merito di riprendere un grande filosofo come Giordano Bruno, e quella concezione bruniana che tendeva a una visione monista e non dualista quale quella cartesiana, in cui c’è identità tra soggettività e oggettività, soggetto e sostanza, e un circolo virtuoso tra ragione e passioni. E come Bruno – prosegue Marramao – Spinoza in fondo ritiene che ogni individuo abbia in sé la capacità di dar conto dell’intero universo, quello che Bruno chiamava questo gigantesco animale. Però in una forma per l’appunto unica, singolare, irripetibile». Dunque Spinoza ateo religioso, possiamo dedurre, che non propone nessuna concezione nuova dell’essere umano. Tanto che la stessa autonomia dell’individuo, i suoi valori civili e morali, sono garantiti dalla presenza di una ragione divina nel reale. «In Spinoza – ammette Marramao – alla base c’è un’esigenza metafisica profonda che è quella di cogliere in modo oggettivo il processo di costituzione del soggetto». Dunque citarlo nel pantheon del nuovo Pd come ha fatto Scalfari in interventi-manifesto come quello dal titolo “Spinoza ripensò Dio e liberò l’uomo”, significa tirare il filosofo del Seicento per la veste, usando il suo pensiero a giustificazione dell’operazione da compromesso storico che si sta consumando con la fusione a freddo fra Ds e Margherita. «Certamente il pensiero di Spinoza, è inutile nasconderlo, pur essendo per molti versi di rottura e rivoluzionario, ha dei momenti di opacità», osserva Marramao. «Ad esempio nella considerazione della donna. In un suo testo tanto decantato come il Trattato teologico politico, Spinoza parla di individui, ma sono declinati al maschile, mai al femminile. Vi è questo limite che dipende dall’epoca in cui viveva, ma anche dal dispositivo alla base del suo pensiero». E in perfetta sintonia con una mentalità giustamente seicentesca, nel nuovo manifesto di Francesco Rutelli, si può leggere un attacco violentissimo contro le acquisizioni genetiche della scienza medica che vanno a toccare delicate questioni di bioetica: cercando di fare arretrare, di fatto, tutte le lotte per i diritti civili e in particolare quelli femminili che si riassumono anche nella legge 194. Così il “progressismo” democratico, quello che trova come punta di sfondamento la razionalità spinoziana, cerca più o meno apertamente una sua legittimazione nel rapporto con una teologia intransigente che vuole piegare la politica alle parole del Pontefice.
Quanto poi all’attualizzazione forzata di Spinoza e al ritorno di certe sue parole chiave nel dibattito del centrosinistra, Marramao nota: «Certamente un punto chiave del pensiero di Spinoza, poi ripreso da Hegel, è la formula “Occorre accettare la necessità”. Cioè un’idea della libertà come comprensione-accettazione della necessità stessa. Oggi, però, in politica non possiamo non considerare il ruolo fecondo del dissenso. Si tratta di tentare di abbracciare un’idea di razionalità imperfetta nella quale si dia spazio al momento creativo del dissenso. Occorre una politica che si apra alla funzione feconda del momento ereticale, altrimenti rischia di porsi come un paradigma normalizzatore, producendo effetti in ultima analisi nocivi. Come si diceva in un dibattito famoso tra Ottocento e Novecento: non possiamo mettere le braghe al mondo.
(la testimonianza di Accarino è stata raccolta da Elisabetta Amalfitano)
Foucault, Marcuse, Sartre. La sinistra rivede i suoi punti di riferimento e i pensatori guru del ‘68. Cosa resta di valido del loro pensiero? Ne discutono tre filosofi di oggi: Accarino, Bodei e Marramao
E aggiunge: «Foucault ha guardato solo a ciò che produce socialmente la follia, con la trasformazione, dopo i grandi cicli epidemici, dei lebbrosari in manicomi». Dunque un pensiero che nega la malattia mentale? «Foucault appare un po’ buonista – prosegue Bodei -. Se non arriva a dire che ognuno ha diritto alla sua follia e al suo delirio come faceva Antonin Artaud, certo non considera che la malattia mentale è dolore». «Foucault resta come abbacinato dall’idea che la follia sia l’effetto di un gigantesco sistema repressivo, di controllo e disciplinamento generalizzato – prosegue Giacomo Marramao -. Questa sua idea oggi entra in crisi: la follia non è tanto un’invenzione del sistema, ma una patologia da curare». Ma se sul tema della malattia mentale le idee di Foucault sono, dice Marramao, «molto da rivedere, molto da correggere» c’è un punto della riflessione del filosofo francese che si sente di salvare: la riflessione sul sapere come potere e quella sulla detenzione. «Foucault ha raccontato – dice Marramao – come dalla modernità si determinino due regimi diversi: quello dei detenuti e quello dei diversi. Prima non c’era una compartimentazione dei folli, che facevano parte della comunità. La geometria cartesiana e hobbesiana dello Stato moderno, invece, traccia un confine netto fra il sano e il folle, fra il normale e il deviante. E non è che la normalità venga stabilita prima e poi la devianza. È piuttosto il contrario: prima viene stigmatizzata la devianza e poi si costituisce la normalità». Quello foucaultiano sulle carceri è un passaggio che appare importante anche al filosofo Bruno Accarino: «Quella che andrebbe riscritta, a partire da un caposaldo del pensiero foucaultiano come Nietzsche è una filosofia della pena». Riscrivere, proponiamo, anche nel senso di “mettere in crisi”. Formulando, a sinistra, un discorso filosofico che ripensi la pena non più come punizione. «Proprio così – dice il docente dell’ateneo fiorentino -. Negli Usa si fa un business multimiliardario sugli istituti di pena, la cui logica punitiva non fa che preparare nuovi sovraffollamenti anche economicamente remunerativi. Si è chiusa un’epoca e ogni tentativo di risoluzione accentuando la repressione è perfino patetico nella sua inutilità». Ma proprio il tema del carcere e della pena ci riporta qui a un’intervista pubblicata in Follia e psichiatria: interpellato sulla punibilità dei crimini di pedofilia e di stupro Foucault dice: «Il problema riguarda i bambini. Ci sono bambini che a dieci anni si gettano su un adulto, e allora? Ci sono bambini che acconsentono rapiti!». Un passo inquietante; a tutti e tre i nostri interlocutori abbiamo chiesto un commento. «Il consenso dei bambini pone problemi legislativi, non di orientamento morale – risponde Accarino -. La discussione mi sembra, in quel punto, un po’ sfilacciata. La delicatezza della questione avrebbe imposto una rielaborazione».
Ma allora può esistere un bambino consenziente? No, Accarino non crede affatto che un bambino possa essere consenziente. E anche secondo Bodei «non è pensabile, perché un bambino non è un adulto». E poi andando più a fondo: «Questo passo – denuncia – giustifica crimini sessuali, come la pedofilia, e fenomeni come il turismo sessuale. C’è una giustificazione della pedofilia nel dire che c’è un assenso volontario verso gli adulti da parte dei bambini che subiscono violenza e questo non è accettabile». Il professor Marramao ride e dice: «Questo è tipicamente foucaultiano! Per un verso qui Foucault apre una prospettiva che riguarda la necessità di un’indagine sulla sessualità della pre pubertà ma dall’altra tende a rimuovere un problema che è connesso a una patologia molto seria come la pedofilia». Idealizzazione della follia, negazione del diritto del malato a una cura, ma anche un’idea distorta della sessualità, basata su un convincimento freudiano. «E Freud – stigmatizza Marramao – era un uomo del suo tempo, un moralista, anche un po’ rigido, basta pensare a quel suo agganciare la sessualità al complesso edipico. Ora non dico che non ci possano essere individui la cui vita possa essere condizionata da un rapporto edipico complesso, ma non è valido per tutti, racconta un fatto molto parziale. Il vecchio Freud era un gran sessuofobo, non c’è dubbio». E il pensiero sulla sessualità di Foucault, come quello di Freud non è simile a ciò che pensa la Chiesa: perversione e istintività bestiale? «Per Foucault – risponde Accarino – non esiste la sessualità umana, esistono solo i discorsi che ruotano attorno alla sessualità». Ma si può davvero discutere su qualcosa che non esiste? «In effetti – ammette Accarino – è molto forte, in Foucault, una spinta ad una sorta di smaterializzazione. A volte si ha l’impressione che il logos preceda il corpo, irretito, in senso letterale, in una trama di discorsi, senza avere uno statuto autonomo e una sua materialità». Come può allora un pensiero come quello di Foucault essere sposato dalla sinistra? Se siamo tutti pazzi, non è più coerente con un pensiero di destra che esige controllo e autorità? «Siamo “tutti pazzi” nel senso – prosegue Accarino – che il confine tra il normale e il patologico è sottilissimo, non certo perché si debba abbandonare un’idea della trasformazione fondata anche su presupposti istituzionali. Altro discorso è se il pensiero di Foucault abbia sollecitato una sorta di cinismo estetizzante che, sostenendo che siamo tutti pazzi, si esime dal pensare progetti di trasformazione. La verità è che andrebbe aperto un dibattito sul conservatorismo estetizzante di sinistra, merce di cui la Francia abbonda». E più oltre, forse, all’indomani dell’indulto, la sinistra potrebbe separarsi dai suoi maestri di un tempo cultura&scienza (Heidegger-Biswanger-Basaglia-Foucault), per proporre idee nuove che consentano di curare la malattia mentale? «Sono totalmente d’accordo – conclude il professore -. La “bella pazzia” appartiene a quel repertorio estetizzante che purtroppo è accasato nella sinistra. Molto lavoro c’è da fare in strutture pubbliche che possano intervenire sulla malattia mentale, ma il loro potenziamento viene mortificato alla stregua di un palliativo o addirittura di strumento di controllo autoritario, forse perché si teme che intervenire sulle risorse pubbliche comporti oggi una rivoluzione di intenti e di orizzonti politici assolutamente inimmaginabile».
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