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Al banchetto del genio

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su luglio 13, 2009

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Da Mirò a Duchamp, a Moore e oltre. La fucina d’invenzioni picassiane bastò per tutti.  A Villa Manin lo racconta una nuova edizione della storica mostra anni Settanta , Omaggio a Picasso

di Simona Maggiorelli

Enrico Baj Omaggio a Picasso

Enrico Baj Omaggio a Picasso

“Picasso la grande preda”. Con un saggio che ha questo curioso titolo e una mostra in villa Manin a Passariano, Renato Barilli rilancia un tema caro alla critica d’arte anni Settanta, che con sguardo lungo già intravedeva con nettezza il profilo del Novecento, mettendo al centro il genio mobile e prolifico di Picasso circondato da compagni di strada, emuli ed epigoni. Quando, alla scomparsa dell’artista spagnolo, nel 1973 Wieland Schmied decise di organizzare una mostra invitando una sessantina di pittori e scultori a rendere omaggio a Picasso, molti nomi internazionali vennero allo scoperto raccontando visivamente quanto la propria arte fosse nata attingendo all’immenso serbatoio di invenzioni picassiane. Da Mirò a Guttuso, passando per Duchamp e i surrealisti, ciascuno mostrava di aver preso e sviluppato qualche aspetto del genio malaguegno.

Arrivando a esiti personali e originali come accade a Mirò quando, facendo sua l’ispirazione etnica e primitiva delle ceramiche di Picasso, dilata progressivamente i propri segni disponendoli in costellazioni imprevedibili, magiche e selvagge. Altri non riuscendo a separarsi del tutto dal maestro, si fermano a livelli più imitativi. In alcuni casi arrivando a  svuotare completamente di senso l’invenzione picassiana. Come fa Guttuso quando riprende la complessa composizione di Guernica nel figurativo pesante di una crocifissione. O come fanno i surrealisti che annegano la fantasia irrazionale di certe immagini dell’artista spagnolo in repertori di figure bizzarre o in astratte riproduzioni di sogni.

Con sommo dispetto dello stesso Picasso che nel ’26 a proposito degli «adepti della scuola surrealista» ebbe a dire: «Non potete immaginare quanto mi siano insopportabili tutti coloro che scimmiottano la mia arte, i miei lavori e perfino i miei tic!». Ma se i ready made di Marcel  Duchamp, di fatto, traducono i collage picassiani realizzati con materiali poveri e occasionali, in icone della fatuità e del “non sense”, artisti più veraci e aperti a una vena popolare come Enrico Baj trassero ispirazione da quegli stessi collage per realizzare opere giocose, materiche, a loro modo vitali. Analogamente, per fare un altro esempio, se le forme tondeggianti delle sculture di Henry Moore si richiamano in modo originale alle forme statuarie delle donne che corrono sulla spiaggia dipinte da Picasso negli anni Venti, artisti più tradizionali come Campigli ipostatizzarono quel riferimento picassiano al classico in pitture cupamente arcaicizzanti. Ma alla fine con Renato Barilli e la mostra Omaggio a Picasso (fino al 2 agosto 2009, Catalogo Mazzotta) non possiamo che dire: Picasso è stato una inesauribile fucina di arte.

da left-avvenimenti  del 17 luglio 2009

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Modigliani, ritratto dall’invisibile

Pubblicato da: Simona Maggiorelli su giugno 16, 2009

Modigliani, Firenze 1909

Modigliani, Firenze 1909

Al Vittoriano di Roma la sfida di Modigliani: «rappresentare ciò che non è cosciente». Centoventi opere, dipinti e disegni da collezioni private e dai museidi tutto il mondo

di Simona Maggiorelli

Il collo lunghissimo, il profilo che si staglia sulla parete del Vittoriano, ieratico e netto, come quello di una statua antica. Il volto della giovane compagna di Modigliani, Jeanne Hèbuterne, appare come soffuso di malinconia. Gli occhi vuoti, lo sguardo lontano, perso dietro chissà quali pensieri o visioni interiori. In un’altra tela del 1919, conservata a Gerusalemme, e ora in mostra nell’antologica che Roma ( fino al 20 giugno 2006) dedica a Modì, la giovane che dopo la morte di Modì si sarebbe suicidata gettandosi dalla finestra appare ritratta di fronte, in colori chiari, le mani in grembo e la figura piena. In una posizione che ricorda il celebre ritratto della moglie di Cézanne.

Matronale, in fase di avanzata gravidanza, ma come se la sua mente fosse occupata da un dolore segreto.  «Quello che cerco non è il reale, e neanche l’irreale, ma ciò che non è cosciente», aveva appuntato su un taccuino il pittore italiano già nel 1907. Da poco più di un anno a Parigi, lasciata Livorno e il provincialismo dei Macchiaioli, Modì aveva già ben chiara la direzione della propria ricerca. Da subito rifiuta di fare una pittura cronachistica, che racconti solo il guscio razionale delle cose. Sulla scia di Picasso e Matisse (con il quale Modì condivise molte sere durante la guerra) si era dato un preciso compito: riu-scire a cogliere e tradurre su tela qualcosa di molto intimo, di più sensibile, che raccontasse il mondo interiore delle persone, amici, poeti, galleristi, protagonisti con lui di quella febbrile stagione artistica che Parigi visse nel secondo decennio del Novecento.

Ma soprattutto Amedeo Modigliani si era consapevolmente dato il compito di rappresentare il femminile in maniera nuova, fuori dalle esangui riproduzioni della ritrattistica otto-novecentesca. Fuori dalla piattezza delle icone sacre della tradizione italiana, da cui Modigliani, pittore coltissimo,  pure sembrava mutuare le sue forme “classiche”. Ma anche già lontano anni luce da Severini e dai pittori futuristi che, agli inizi del Novecento, transitavano per Parigi. Non a caso Modì  rifiutò recisamente di firmare il manifesto futurista uscito nel 1911 su Le Figaro e in cui  Marinetti, Boccioni e Carrà invitavano a sostituire «la contemplazione della donna con quella della macchina».

Nella mostra romana curata da Rudy Chiappini una bella scelta di opere racconta in particolar modo di questa sua ricerca sul femminile. Alcune davvero poco viste, provenienti da collezioni private e conservate all’estero: dalle vive immagini di ragazzetta, dipinte, “al volo” sul retro delle tele a una serie di nudi femminili in cui la mano del pittore sembra seguire più un sentire interno, che ciò che l’occhio percepisce. E se il delicato Nudo coricato con le mani unite del Lingotto datato 1917 appare ancora come un’immagine diafana e un po’evanescente, si staglia potente, invece, l’immagine plastica del Nudo sdraiato con le braccia dietro la testa della collezione Bürle di Zurigo. Forme morbide e sensuali. Con un calore di vita che Modì aveva imparato da Cézanne ad articolare in forme pure racchiuse quasi in una sola linea e con una tavolozza di colori caldi.

Modigliani aveva conosciuto dal vivo la pittura di Cézanne in una retrospettiva del 1907. E il ritratto dello scultore Brancusi in vesti da suonatore di violoncello del 1909, ma anche il malinconico Ragazzo con giacca azzurra proveniente dal museo di Indianapolis documentano al Vittoriano come avesse cercato di assorbirne la lezione. Per l’ispirazione di Modì  Cézanne fu una specie di trampolino di lancio. Così come lo furono, per il suo lavoro di scultore (rappresentato al Vittoriano dai molti disegni di cariatidi) la fascinazione per “l’arte negra” e l’aver conosciuto, come molti dicono, sempre nel 1907 Les  demoiselles d’Avignon di Picasso. Ma l’anarchico e ribelle Modì prestissimo trovò la sua cifra originale, unica. D’avanguardia, radicale, ma che non apparteneva a nessuna scuola. E che dopo la sua scomparsa non ebbe né epigoni né proseliti. A rappresentare lo splendido isolamento che Modì raggiunse, a Roma, un capolavoro assoluto come il ritratto dell’amica polacca Lunia Czeschowska arrivato dal museo di San Paolo del Brasile. è una delle ultime opere di Modigliani, dipinta nel 1919, un anno prima della morte.

Su uno sfondo quasi neutro spicca la figura affusolata della donna. Rappresentata di fronte, le membra sottilmente deformate. Dalla camicia chiara che s’incrocia sul petto, spunta il collo,  quasi sbocciasse in mezzo alle spalle. Pochi tratti e il massimo dell’espressione. La figura appena accennata, come se Modigliani, da ultimo, avesse ancor più distillato la propria arte, portandola ad esprimere solo ciò che è essenziale

da Left-Avvenimenti 2006

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