Povera sì, ma non di idee
Posted by Simona Maggiorelli su novembre 9, 2011
Apre l’11 novembre al MADRE di Napoli un nuovo capitolo della mostra sull’Arte Povera che si snoda in vari musei italiani, da Milano a Bari. Una rassegna mosaico curata da Germano Celant e che invita a ripensare l’unico movimento artistico del secondo Novecento che , dall’Italia, si è diffuso in tutto il mondo
di Simona Maggiorelli
Un enorme cumulo di abiti abbandonati sorgevano ai piedi di una diafana Venere. Tessuti stropicciati e ormai logori contrastavano con l’eleganza di linee e di forme di una ieratica scultura classica e canoviana. Da questo corto circuito fra registro alto e basso, fra marmo prezioso e poveri cenci, fra cacofonia di colori e bianco candido, scaturiva il dirompente impatto della Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto.
Era il 1967. E quella scultura sarebbe presto diventata una delle opere manifesto di una poetica nuova che, proprio in quell’anno, il ’67, Germano Celant chiamò Arte Povera, dando così un nome e una riconoscibilità a un multiforme modo di fare arte che rifiutava l’euforia della Pop Art e quell’estetica vuota e sgargiante di marca americana che, a partire dalla Biennale di Venezia del 1964, si era imposta come pensiero unico dell’arte occidentale.
Già nel dopoguerra e, prima ancora, durante la prigionia per attività partigiana, Mario Merz aveva preso a disegnare e a immaginare opere da abitare, come poetici igloo e semplici tende per una vita libera e nomade.
Idealmente collegandosi ai poveri sacchi di juta che il medico Alberto Burri trasformava in opere astratte, di grande forza drammatica, negli anni in cui fu internato in un campo di concentramento a Hereford in Texas. I poveri gobbi di Burri, le sue tele lacere e corrose, arse e brunite come il sangue, furono una potente fonte di ispirazione poi per gli artisti più giovani, nati negli anni Quaranta, che (senza mai riunirsi in un gruppo esplicitamente) negli anni Sessanta e Settanta diventarono i “paladini” dell’Arte Povera: unico vero movimento di ricerca nelle arti visive che nel secondo Novecento abbia preso le mosse dall’Italia per diffondersi in tutta Europa e nel mondo.
E se lo schivo maestro umbro, Alberto Burri, indirettamente si fece mentore delle opere di nudo legno di Giuseppe Penone, delle sculture di corda di Eliseo Mattiacci, come degli spogli materassi di Pier Paolo Calzolari, un altro outsider, Luciano Fontana, dopo il suo
rientro in Italia nel ’47, con i suoi tagli e i suoi ambienti luminosi che aprivano a una spazialità nuova, fu l’ispiratore dei quadri specchianti di Pistoletto, ma anche (per l’uso del neon e l’apertura alla scienza) delle serie di Fibonacci di Merz e delle labirintiche sculture con mise en abîme di Giulio Paolini.
Ora, a quasi quarantacinque anni dalla nascita dell’Arte Povera, il critico Germano Celant propone di tornare a riflettere su questi e altri rami di un’avanguardia che usava materiali naturali e forme primarie cercando «di ridare un senso autentico alle nostre facoltà di vedere e sentire». Ci invita a ripensare l’Arte Povera e la sua ribellione all’estetica del capitalismo trionfante con un arcipelago di mostre che in otto città diverse ne stanno ripercorrono la storia. Da Milano a Bari, ogni esposizione mette a fuoco un aspetto specifico. Così alla Triennale di Milano, dal 24 ottobre scorso sono ricostruite le genealogie e l’intero arco di ricerca dell’Arte Povera, «mentre al Castello di Rivoli – racconta a left lo stesso Celant – viene riletto il significato dell’intero movimento alla luce del contesto internazionale». E ancora, alcune opere di protagonisti dell’Arte Povera prematuramente scomparsi, come Pino Pascali, sono ora riproposte alla GNAM di Roma, «mentre dal 6 ottobre scorso, al MAXXI, sono raccontati i lavori più recenti di maestri dell’Arte Povera come Gilberto Zorio», senza dimenticare che il museo del ventunesimo secolo progettato dall’architetto Hadid ha appena dato spazio a un’ampia retrospettiva di Michelangelo Pistoletto.
E ancora un’altra importante finestra sull’Arte Povera si apre l’11 novembre al MADRE di Napoli, dove prende vita la mostra Arte Povera più Azioni Povere 1968 facendo riferimento alla rassegna internazionale dallo stesso titolo, che si tenne negli Arsenali di Amalfi nell’ottobre del 1968. E ancora alla GAMeC di Bergamo il movimento “poverista” è raccontato in un percorso che straripa anche per le strade e per le piazze di Bergamo alta e al teatro Margherita di Bari. Insomma,
quella che ha preso avvio dal MAMbo di Bologna il 23 settembre scorso è una “mostra monstrum”, che si dipana nell’arco di più di un anno lungo tutta la penisola. Ad accompagnare l’evento è un monumentale catalogo pubblicato da Electa che, con i suoi trentadue saggi inediti, si candida a diventare una imprescindibile opera di riferimento per tutti i futuri studi sull’Arte Povera. Una pratica artistica e una filosofia, conclude Celant che in un’epoca di «mondializzazione dell’arte come quella stiamo vivendo, capace di integrare tutte le differenze riducendole a comodità, ha avuto il sapore di una ricerca davvero spiazzante e dirompente».
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